BIG FOUR OF THRASH METAL: THE RETURN!

UN EVENTO STORICO, un sogno che ogni thrasher avrebbe potuto solo sognare: i quattro pilastri tutti assieme in un unico tour, Metallica e Slayer assieme a Megadeth ed Anthrax! I padri di album leggendari come 'Master of puppets' e 'Reign In Blood', 'Peace Sells' e 'Among The Living' riannodano i fili della storia riproponendo tutti i vecchi classici e seppellendo anni di attriti, polemiche a distanza e furibonde litigate, come quelle che portarono a diverse scazzottate i giovani James Alan Hetfield e Dave Mustaine, fino alla cacciata di quest'ultimo dai Metallica; o come le punzecchiature continue tra lo stesso Mustaine e Kerry King degli Slayer, per non parlare, ovviamente, dell'invidia sopita solo recentemente per il rosso chitarrista nei confronti dei suoi ex compagni di band! Fa effetto vedere Dave Mustaine e James Hetfield vicini, anni e anni dopo le foto in bianco e nero della loro giovinezza nei Metallica. Ma nel passato dei Big Four ci sono anche belle storie di amicizia, come quella degli Anthrax da New York, che accolsero i città gli imberbi Metallica [1983], giunti nella Grande Mela per le registrazioni del debut Kill'Em All e trattati come fratelli dagli ospitalissimi uomini di Scott Ian. Le prime foto di questo evento ci trascinano dentro la storia moderna dell'heavy metal!

LIVE REPORT: LA DATA DI ZURIGO. Sonisphere Festival, il Big Four Of Thrash Metal: è andata in scena la storia, con un cartellone alquanto balzano che ha visto i divertentissimi Anthrax esibirsi al pomeriggio, gli Slayer [poco energici e travolgenti] prima degli ottimi Megadeth e i Metallica in serata, dopo l'esibizione di Rise Against e Motorhead. In ogni caso, un evento storico nella storia della musica dura!

BIG FOUR OF THRASH: LE PRIME FOTO DELL'EVENTO!





LIVE REPORT: ROMA, 4 GIUGNO 2010
MEGADETH NELLA CITTA' ETERNA
TRATTO DA 'TRUEMETAL.IT'

ROMA, ATLANTICO LIVE. Sold out! E' questo il risultato di anni di attesa per Roma e per una buona parte della penisola per poter rivedere una band con un nome altisonante come quello dei Megadeth. Accompagnati da due formazioni italiane di grande prestigio come Labyrinth e Sadist, che peraltro stanno vivendo entrambe, per motivi diversi, un momento di grande rilancio nelle rispettive carriere, Dave Mustaine e soci sbarcano nella capitale per la seconda data italiana del loro Endgame Tour: un tour estenuante che li vedrà girare l'Europa in lungo e in largo fino ad ottobre e che andrà a rispolverare i grandi classici del repertorio del combo californiano. Il 2010 è infatti l'anno del ventennale di 'Rust In Peace', il masterpiece assoluto -a detta di molti fans e critici- del combo capitanato dall'autoritario Megadave, che dopo la cacciata dai Metallica sfornò prima un esempio abrasivo di puro speed'n'thrash [Killing is My Business, 1985] e poi due gioielli di thrash più strutturato e tecnico, anche nelle liriche riottose ['Peace sells', che poi è uno dei quattro pilastri del thrash metal datati 1986/87, e 'So Far So Good So What]. L'apice della carriera dei Megadeth coincise appunto con 'Rust In Peace' del 1990, superbo manifesto di technical thrash metal: il decennio successivo sarà caratterizzato da un sound più morbido, ma le enciclopedie continuano ancora oggi a ricordarci la grandezza del materiale proposto due decadi or sono.

LABYRINTH E SADIST. Sono le 20.00 in punto quando, con puntualità svizzera e dopo controlli all'ingresso modello 'aeroporto americano' che hanno alleggerito gli avventori dell'Atlantico di ogni tipo di ferraglia senza curarsi di qualsivoglia valore affettivo, i toscani Labyrinth attaccano gli strumenti per la loro esibizione di apertura. La metal band che ha lanciato per prima il power tricolore nel panorama internazionale ha da poco ritrovato la sua formazione originaria, fatto salvo per il batterista, che questa sera è Alessandro Bissa dei Vision Divine, e per il bassista, il buon Sergio Pagnacco dei Vanexa. E' di nuovo Olaf Thorsen, dunque, l'ascia principale che, in attesa di presentare con i dovuti onori il tanto atteso seguito di Return to Heaven Denied, in uscita il 21 giugno, guida i Labyrinth in questo minitour di spalla alla band americana. C'è da dire subito che la prova dei 6 risulterà superlativa. Nonostante il settaggio dei suoni non sia ottimale, penalizzando soprattutto la tastiera di Andrea De Paoli, brani come In the shade, New Horizons e la celeberrima Moonlight vengono proposti con un coinvolgimento ed una perizia inappuntabili, con un Roberto Tiranti in forma strepitosa ed i divertenti duelli della coppia Thorsen/Cantarelli ad infiammare un pubblico che non solo si dimostra ben disposto alla loro proposta musicale ma che, anzi, è carico a livelli probabilmente inattesi finanche dal gruppo stesso. Non manca di sottolinearlo difatti il buon Roberto, che non dimentica, prima di lasciare il palco, di annunciare nuovi appuntamenti romani in vista del nuovo disco, di cui è stato pure suonato un gustoso antipasto. Cambio palco e cambia anche la musica perchè è il turno dei genovesi Sadist che presentano il nuovo ottimo disco Season in Silence. L'esibizione del quartetto è apparsa purtroppo un po' incolore. Certamente il fatto di suonare per secondi non li ha certo aiutati da un punto di vista tecnico, ma quello che è sembrato mancare in questa prova è proprio la carica e lo scambio emotivo con l'audience che hanno sempre contraddistinto Trevor e soci. I brani che si sono susseguiti sono stati eseguiti in maniera inappuntabile, come sempre, ma mancavano un po' di sale insomma. Una scaletta concentrata in larga parte sulle ultime uscite, poi, non ha forse contribuito all'attenzione di un pubblico che, bisogna dirlo, anche se solo in parte, era partito già prevenuto, acclamando sin dal primo pezzo eseguito il nome dei Megadeth. Il furioso death metal dei Sadist con i suoi virtuosismi ipertecnici forse questa sera non ha trovato il teatro o la serata giusta per strabordare come al solito. Sarà per la prossima volta.

MEGADETH. Quando i Sadist lasciano il palco è tutto un susseguirsi di fragorosi boati da parte del pubblico trepidante, il più grosso dei quali sale contemporaneamente al grosso telo raffigurante il gigantesco logo dei Megadeth. Mancano 5 minuti alle 22 quando parte l'intro di Endgame ed entrano in scena uno dopo l'altro i quattro musicisti per attaccare 'Dialectic Chaos'. La strumentale di apertura dell'ultimo lavoro si porta dietro immancabilmente anche 'This Day We Fight', per una doppietta tremenda che esalta il moshpit sempre più selvaggio. La band è in forma e spara cartucce senza dire una parola. Giunge subito il momento di 'Wake Up Dead', e si fa un tuffo nel passato fino al capolavoro 'Peace Sells'. Il pubblico urla a squarciagola le parole del testo, l'adrenalina è alle stelle quando finalmente, al termine del pezzo, il rossocrinito Dave decide di rivolgersi decisamente al pubblico, ma solo per annunciare brevemente che si festeggiano i 20 anni dalla pubblicazione di un certo album: ma non fa in tempo a ricevere una risposta che l'inconfondibile, tagliente riff di 'Holy Wars' squarcia il fragore della sala. Certamente stasera si è capito che ci saranno ben poche parole da parte degli americani, ma che fatti! 'Holy Wars' resta uno dei brani thrash più devastanti della storia, e questa sera viene eseguita con una violenza ed una velocità davvero fantastiche. Il pit esplode, mentre i quattro gli sparano contro uno ad uno tutti i brani di quello splendido disco che è 'Rust in Peace': 'Hangar 18', 'Take No Prisoners', 'Tornado of Souls', 'Lucretia': è sempre un grande piacere poterne godere dal vivo. Il figliol prodigo David Ellefson si muove molto e sembra divertirsi come un tempo; Chris Broderick è un autentico mostro nel riproporre alla perfezione le parti di un certo Marty Friedman e aggiungendoci anzi, il più delle volte, dell'ottima farina del suo sacco; Shawn Drover è semplicemente impeccabile dietro le pelli, mentre il silenzioso Mustaine col trascorrere del tempo fa trasparire non pochi limiti vocali; ci sono stati momenti in cui sembrava addirittura fare il pesce, come si dice in gergo. E' evidente che le sue corde vocali non siano proprio in forma smagliante. Tant'è che il concerto prosegue senza troppi fronzoli ma con tanta sostanza che risponde al nome di 'Head Crusher', 'Sweating Bullets', 'Symphony of Destruction', finanche una 'Trust' dal discusso 'Cryptic Writings'. Nel mezzo l'ammancabile ballad 'A Tout le Monde 'cantata in coro con tutto l'Atlantico munito di accendini. La chiusura è affidata ad una un po' frettolosa 'Peace Sells' che termina riprendendo il finale di 'Holy Wars'. I nostri si spendono ora nei saluti di rito, con Dave Mustaine che si trattiene un paio di minuti in più per ringraziare come merita un pubblico che non ha smesso di osannarlo nonostante il suo atteggiamento, durante la serata, non sia stato così cordiale ed empatico come forse ci si augurava. In ogni caso, dal punto di vista professionale e della carica emotiva riversata nella musica, i Megadeth di questa sera hanno offerto una prova maiuscola nonostante i sopra citati problemini vocali di cui probabilmente in pochi si saranno accorti. Il paragone con qualche altra band del passato, magari più di grido, come gli alter ego Metallica del Palalottomatica, per quanto riguarda la tenuta dal vivo, oggi come oggi appare addirittura impietoso. Qui a Roma si è assistito ad un'ora e mezza di puro concentrato thrash metal dopo la quale in pochissimi si sono lamentati, ma solo perchè ne volevano ancora. A buon intenditor, poche parole.

AWAKE

DREAM THEATER [1994], PROGRESSIVE METAL
Una produzione ragguardevole penetra questo classico del prog metal staccandosi dalle precedenti release con sonorità più aggressive, nutrite dall'accuratezza nella ricerca del suono più chiaro e limpido. Awake si dimostra forte di una buona qualità di registrazione e dell'esperienza che i nostri cinque hanno conservato in centinaia di performance live durante il tour del disco di platino Images And Words inciso due anni prima: con l'obiettivo di ottenere la massima resa sonora da ogni strumento, i Dream Theater cambiano la propria strumentazione e si affidano ai produttori John Purdell e Duan Baron ottenendo eccellenti risultati. La sezione ritmica di basso e batteria acquista forse maggior beneficio dalla nuova produzione, ottimo anche il suono di chitarra di un Petrucci protagonista assoluto di questo confuso risveglio. Come saprete si tratta dell'ultima incisione prima del cambio residenza di Kevin Moore da casa Dream Theater: stupefacenti le sue prestazioni all'interno di questa release, le sue note e i suoni scelti acquistano maggior spessore e maturità. Col tempo però i gusti di questo tastierista subiranno una strana deviazione, definita da John Petrucci come rivolta in senso techno/industrial e quindi ben lontana dai lavori in corso di un gruppo ormai sull'onda del successo mondiale. Sarebbero passati pochi mesi dalla sua definitiva dipartita. Il breve solo di batteria che apre Awake è il primo classico racchiuso qui dentro. Le parole sullo sfondo di 6:00 sono tratte dalla breve opera di James Joyce intitolata The Dead, il gruppo riesce a fonderle con buon gusto alla propria musica e alle parole di LaBrie. A proposito, sin dalla prima traccia sarà possibile decifrare delle linee vocali incazzate ed incalzanti, graffianti nelle basse e cristalline nelle alte tonalità, a parere del sottoscritto le migliori voci mai registrate dal singer in questione nella sua vasta discografia personale e in quella propria dei Dream Theater. Dai percorsi tortuosi di chitarra e tastiera nella traccia iniziale, passerei proprio all'impressionante Innocence Faded: il brano dei DT senza dubbio più difficile da imitare nelle sue linee vocali, un pezzo di straordinaria freschezza a rendere indiscutibile per l'ennesima volta il genio artistico del signor John Petrucci, sia in campo musicale che lirico. Ipnotica nel suo inizio la trilogia di A Mind Beside Itself: Erotomania sta ad Awake come Hell's Kitchen a Falling Into Infinity e The Dance Of Eternity a Scenes From A Memory, un ciliegio rigoglioso su questa immensa torta alla panna salata. Una tastiera sorda si accompagna ad un pianoforte che sventra ogni emozione già provata grazie all'operato sempre più indescrivibile di una chitarra avida di rare ispirazioni, una vera e propria orchestra chiede aiuto ai nostri piedi. Un silenzioso passaggio alla famosa Voices delinea in pochi istanti un testo straordinario, misterioso e sottile nella sua drammaticità: Mike Portnoy chiama la carica e nessuno molla la presa, Myung introduce il pezzo e si lancia impeccabile nelle accelerazioni proposte dalla batteria, LaBrie interpreta i tre esigenti chorus di questa lunga traccia nel migliore dei modi. Momenti di rabbia estrema sono alternati ad una stasi apparente culminante nei pochi accordi che costituiscono The Silent Man, l'unico momento di reale spensieratezza nel cui background compare la voce dello stesso John Purdell. Non posso non ricordare la magnifica esecuzione di questi tre brani nel DVD pubblicato in occasione del live al Roseland di New York. Allacciate le cinture. Come avrete capito Awake è soprattutto la testimonianza del feeling venutosi a creare tra questi cinque musicisti con il passare degli anni, ma soprattutto sigillo dell'alto livello tecnico raggiunto da John Petrucci. Il chitarrista aggiunge una corda alla sua preziosa collezione e si appresta alla micidiale The Mirror, unita nel finale alla seguente Lie a sottolineare la somiglianza nel contenuto delle liriche: profonde distorsioni aprono un nuovo entusiasmante capitolo in cui le tastiere fanno la loro parte con rapido vigore nel primo caso, mentre nel secondo veniamo a conoscenza di un nuovo irripetibile assolo di chitarra imponente nel farci sentire ancora una volta piccoli piccoli. Dopo il riff di basso in armonici naturali in Lifting Shadows Off A Dream che introduce la quiete dopo la tempesta, potrete dire che non è ancora finita. Un intero paragrafo merita di essere dedicato alla traccia di Awake rivelazione del Tourbulence 2002. Mi riferisco ovviamente a Scarred, undici di estasi trascendentale conclusa negli ultimi live con la chiusura di 2112 dei Rush. Tornando al discorso fatto in principio, possiamo considerare questo brano come classico esempio della buona produzione del disco: ogni strumento può essere colto singolarmente nella sua interminabile unità compositiva ed in particolare le spesse corde del basso di Myung che fanno a gara giocando a campana col tempo, una voce angelica schiva i piatti lanciati dal miglior batterista progressivo mai esistito. Raggiungiamo i 3/4 del pezzo e godiamoci le splendide scale eseguite all'unisono da questi quattro maestri; a seguire il brano acquista volume e culmina nella definizione di assolo, l'ennesimo indescrivibile assolo della funambolica sorpresa nel G3/2001. Rendiamo grazie a Kevin Moore perchè è veramente cosa buona e giusta.
IMAGES AND WORDS

DREAM THEATER [1992], PROG METAL
Quando si ascolta per la prima volta un album, si suole tentare anche di definire il genere musicale proposto. Senza pretesa di affibbiare rigide etichette, si può dire che la maggior parte dei dischi, rifacendosi a lezioni pregresse, viene a collocarsi in questa o quella corrente, dalla quale ricava i propri tratti essenziali, con alterne fortune. Talvolta, non così spesso, alcuni di questi dischi riescono ad emergere dalla massa e, rimodellando in chiave personale ciò che altri hanno inventato, si propongono nel tempo come punti saldi del genere in questione. Tuttavia, di tanto in tanto, nascono delle opere profondamente differenti, che si rifiutano di essere costrette entro forme predefinite, sfuggono le definizioni con incrollabile caparbietà e si lasciano accostare solo da altri frutti del genio, spesso differenti nella natura ma pari nel valore. Questa elitaria categoria è formata da quei lavori che, si dice, non adattandosi ad alcun genere, finiscono per crearne uno nuovo. Nel 1992 nasce una di queste opere. Nulla vuol lasciar presagire il capolavoro: né il nome della band, né il contesto storico. Dopo anni in cui si era vista la parola 'progressivo' essere privata della visibilità che avrebbe meritato, sopravvivendo per lo più tra le abili mani di pochi veterani fedeli ad una lunga e nobile tradizione, un demiurgo chiamato Dream Theater plasma la materia incorrotta dei maestri del passato e soffia in essa un’anima metallica, dando vita a qualcosa di nuovo, inaudito, stupefacente. Images and Words è un fulmine a ciel sereno: imprevisto ed imprevedibile si impone a contemporanei e posteri come modello imprescindibile di una concezione musicale della quale fissa definitivamente i caratteri fondamentali. Caratteri che sono impressi a fuoco nelle otto tracce dell’album, otto diamanti incastonati nella corona dei futuri re del prog, di fattura tale che ciascuno di essi può trovare un proprio pari solo in quello che gli si trova accanto. Vediamoli dunque uno per uno questi otto diamanti, per ammirarne la fattura e saggiarne la tempra. Pull Me Under: Pochi secondi, una manciata di note, e la batteria comincia a scandire un tempo imprendibile, che si protende fino a tuffarsi in un riffing imponente, massiccio, avvolto dall’inquietudine delle tastiere. Poi, finalmente, una voce, parole che guidano i pensieri, a loro volta governate dalla musica. Un caleidoscopio di passioni turbinanti si arrampica lungo le liriche, si innesca nel ponte ed esplode in un coro che farà storia. Imprendibili serpentine ed improvvisi sbalzi d’umore si intrecciano per tessere una trama ipnotica senza fine. E proprio quando nessuno è ancora pronto ad attenderla, ecco che il genio emana la sua improvvisa sentenza di morte. Another Day: Smesso l’abito da cerimonia che celebrava la definitiva resurrezione del prog, i cinque americani indossano ora panni più soffici e delicati. La grazia di pianoforte e chitarra, la passione vibrante nelle linee vocali, le sognanti armonie del sassofono: elementi che insieme creano melodie di rara bellezza, capaci di far dimenticare per un attimo tecnica e complessità delle strutture. Un’escalation di emozioni che trova la sua vetta in un solo con cui Petrucci affonda la mano nel petto dell’ascoltatore per afferrarne i sentimenti, cullarli, giocare con loro, ed infine innalzarli in un mondo segreto e sublime cui pochi sanno arrivare. Al sax di Beckenstein il compito di riportarci, dolcemente, sulla terra. Take the Time: ovvero il nuovo significato della parola 'progressivo'. Gli strumenti si amalgamano in una sinfonia perfetta e dalle molteplici cromature, che giunge all’orecchio leggera e dannatamente piacevole: molti i generi toccati, senza che se ne possa trovare uno definitivo e predominante. La sezione ritmica è da mozzare il fiato, con Portnoy e Myung impegnati a dettare ritmi irresistibili e trascinanti che ogni piede vorrebbe seguire, se solo ne fosse capace. Posto che non ci si può che sbalordire innanzi a siffatto sfoggio di classe, rimane da decidere se farlo per la straordinaria padronanza tecnica o per la capacità di fonderla indissolubilmente alla melodia. Incredibile. Surrounded: Le parole per descriverla cominciano già ad esaurirsi, ma la musica continua. Parte piano, si sviluppa in un imprendibile crescendo, e di nuovo si riaddormenta. Quando è finita, rimane solo un elusivo senso di soddisfazione a testimoniare il valore di quanto udito. Pochi flash, immagini sonore sfuggenti, come lo stupendo solo centrale, descrivono una molteplicità di emozioni che non si lascia raccogliere in una manciata di frasi. Ancora una volta, tecnica impareggiabile al servizio della melodia; ancora una volta, capolavoro. Arrivati a questo punto si rende necessario un breve inciso. Si è parlato fin qui di musica e musicisti, di melodia e tecnica. Si è accennato o poco più, invece, ai testi. Ma questi si dimostrano in realtà uno degli aspetti più importanti di un disco che trova proprio nelle liriche il suo autentico valore aggiunto. Parole che illustrano ciò che gli strumenti dicono in altro modo, quelle parole di cui il nome dell’album sancisce il valore, diventano fondamentali se si vuol tentare di cogliere l’essenza dell’opera. La controprova è imminente: come apprezzare nella sua interezza il valore del prossimo brano senza un’adeguata attenzione per il testo? Metropolis, pt.1: The Miracle and the Sleeper: Non si può dire che in questo disco ci siano vere hits, o si farebbe un torto alle tracce non citate. Tuttavia, se fosse possibile trovarne, Metropolis pt.1 sarebbe una di queste. Tutto in una traccia, tutto in nove minuti e mezzo. Pochi, se si considera quanto viene detto. Genio e follia si mescolano in un’intrepida alchimia che dal primo istante all’ultimo continua a cangiare senza posa, attraverso una moltitudine di passaggi uniti solo da un sottile filo di enigmatico fascino. Si potrebbe scrivere un saggio per parlare compiutamente di questa piccola opera d’arte, e neppure allora la si potrebbe descrivere meglio di quanto essa già non spieghi se stessa. Come è in potere dei soli autentici capolavori, ad ogni ascolto si rivela un nuovo dettaglio, una nuova sfumatura, un nuovo lampo emotivo che sorprende, rapisce, conquista. Quali menti umane hanno potuto innalzare l’arte musicale a sì alte vette? Il minimo che si possa fare per questi cinque pittori sonori è offrire loro un piccolo tributo citandone per esteso ed in grassetto i nomi, in rigoroso ordine alfabetico: James LaBrie, Kevin Moore, John Myung, John Petrucci, Mike Portnoy. A loro tutta la gratitudine di chi ascolta. Under a Glass Moon: Mentre il corpo è ancora annichilito dalla complessa magnificenza dell’ultimo brano, una bella melodia di chitarra e tastiera introduce il capitolo che ha l’onere di non apparire opaco a fianco della straordinaria lucentezza del precedente. Impegno che porta a termine con successo, ma ormai non è più una sorpresa. Passaggi ritmico-melodici agili e variopinti, intensa interpretazione delle linee vocali, liriche sfuggenti e fascinose. Probabilmente in un altro disco di un altro gruppo una song di questa caratura sarebbe considerata senza troppe cerimonie uno degli episodi più riusciti del lotto, qui è semplicemente un’altra grande, immensa canzone: ormai siamo già stati viziati. Wait for Sleep: Due minuti e trentuno secondi. Bastano a Kevin Moore per regalare una nuova gemma. Tutto intorno tace, solo alla soffusa narrazione di LaBrie è concesso fondersi con la melodia, mentre le tiepide melodie di una tastiera notturna dipingono una tela malinconica e solitaria, intima e riflessiva. Le note scorrono con la fluidità di una fonte d’acqua fresca, il tempo si ferma. Rimane solo la musica. Learning to Live: La fine si avvicina, è ora il momento di tirare le somme. A questo fine viene scelta una suite lunga, complessa, che muta più volte pelle lungo l’inesorabile cammino verso l’ultima nota. Il disco che era cominciato con la morte, improvvisa e violenta, ora termina con la vita; e il gruppo si prende tutto il tempo necessario per raccontarla e scatenarsi: Portnoy è un metronomo impazzito che costruisce muri ritmici impossibili ai quali Myung appende con maestria e senza sforzo il proprio arazzo di note; Petrucci sfoggia un repertorio ancor più ampio di quello mostrato sinora, passando con disinvoltura da uno stile all’altro, in frequenti combinazioni con le certosine tastiere di uno straordinario Moore; LaBrie regala attimi di grande passione recitando un testo che è un piccolo poema. Senza dubbio uno degli apici, per tecnica ed estro compositivo, della discografia dei Dream Theater, nonché la migliore tra le conclusioni immaginabili. Quando la musica finisce, resta solo l'impressione di aver sfiorato per un attimo l’infinito, insieme con la consapevolezza dell’irripetibilità di una simile esperienza. Sopravvive anche la voglia di riascoltare ogni singola nota, dal principio, per provare a carpirne gli inesauribili segreti, una voglia che resiste al tempo senza mai trovare piena soddisfazione. La leggenda comincia: come un primigenio faro di Alessandria, Images and Words getta il suo potente fascio luminoso nel mare del futuro, per illuminare la via alle nuove generazioni, e con esse ai suoi stessi creatori. La storia della musica passa anche da qui. Da Truemetal.it