LIVE SHIT, BINGE & PURGE

METALLICA [THRASH e HEAVY METAL], 1993
Quante band ci sono, nella storia del rock e dell'heavy metal, capaci di resistere nei decenni al logorio del tempo grazie alle canzoni, alle innovazioni e alle storie che hanno contraddistinto gli anni migliori della loro epopea? Quante band possono vantarsi di sintetizzare la filosofia e l'essenza di un genere tanto vasto e longevo semplicemente scandendo il loro moniker? Poche, pochissime: Black Sabbath, Judas Priest, Iron Maiden. E Metallica, un ensemble leggendario che Live Shit: Binge & Purge fotografa all'apice della sua forma, fisica e artistica, che dopo aver egemonizzato il trono dell'hard'n'heavy ottantiano con dischi mastodontici quali Master Of puppets e Kill'Em All, si cimenta ora in una sfida ancor più ostica: portare la potenza nelle case di tutti, missione compiuta con l'esplosione patinata del Black Album, pietra della discordia tra fans vecchi e nuovi ma, innegabilmente, prodotto immortale per longevità e impatto socio-mediatico. Metallica aveva chiuso il cerchio del primo, strepitoso decennio dei Four Horsemen, ultimo di cinque dischi stellari; forti di un repertorio ormai sconfinato, i quattro di Frisco erano partiti per un tour ai quattro angoli del globo davvero estenuante, iniziato come 'Wherever We May Roam Tour' (138 date tra ottobre '91 e luglio '92) e terminato come 'Nowhere Else To Roam Tour' (77 date da gennaio a luglio 1993), dopo altre 26 esibizioni al fianco dei Guns'N'Roses tra luglio e ottobre 1992. Infaticabili ed insaziabili, James Hetfield e Lars Ulrich non persero tempo e, appena giunto il momento del meritato riposo, si misero a visionare quintali di videocassette e filmati assortiti di quell'enorme spedizione rockettara che aveva scatenato folle oceaniche, al fine di creare un documentario che tramandasse ai posteri la spettacolare magniloquenza di quella macchina da guerra che erano i Metallica all'apice del connubio tra l'ira scattante e thrashy degli anni ottanta e la teatrale immediatezza dell'era-Black Album, prima che arrivasse un Load qualsiasi a rovinare (in parte, col senno di poi) una reputazione altrimenti immacolata. Live Shit fu subito oggetto di polemiche feroci, a causa dell'elevatissimo prezzo di vendita, dovuto alla presenza di parecchio materiale: 3 cd e 2 videocassette, oltre che toppe e gadget vari, il tutto confezionato in un'elegante cofanetto a forma di custodia. Il materiale audio viene registrato sotto il cielo di Città del Messico, nel 1993, e si apre con i brividi di The Ecstasy Of Gold, naturalmente, prima che Enter Sandman mandi letteralmente in delirio la folla: l'opener di quegli anni era uno dei pezzi forti di quella stetlist, praticamente vitale per molti novizi metalli-fans. Chi però dell'heavy metal conosce le vibrazioni più intense, non potrà che perdere letteralmente la testa quando le cose iniziano a farsi serie, ovvero quando il carico Hetfield 'chiama' Creeping Death come solo lui sa fare: il riff epocale, il ghigno del singer e via con il letale assalto biblico. Quando il ritornello viene cantato dal pubblico si tocca con mano l'eccitazione del momento: meraviglioso il solo di Hammett, con la sua melodia abrasiva, mentre Hetfield scalda a dovere il pubblico nella solenne parte rallentata: l'adrenalina lievita palpabile, i rintocchi di Ulrich scandiscono l'implacabile ripartenza, mentre al microfono si aggiunge il vocione di Newsted, per un risultato finale che vale il primo orgasmo di turno. Si rallenta un pò con Harvester Of Sorrow, macigno di autentica potenza, e Welcome Home (Sanitarium), semilento emozionante nel quale la voce di Hetfield si fa toccante e ruvida come la carezza di un gigante: da brividi, certamente, ma questi due pezzi avrebbero potuto trovare spazio a scaletta più inoltrata, dopo aver esploso qualche pezzo sanguinario in più. E invece i Nostri riatttaccano con Sad Burt True, fin troppo ordinata, per iniziare un viaggio a tutto Black Album. Si prosegue infatti con una roboante versione di Of Wolf And Man e gli accendini accesi nella malinconica The Unforgiven. Rispettato il contratto e le richieste dei fans modaioli, gli ex thrashers si cimentano in un medley di pezzi tratti da And Justice For All (Eye Of The Beholder, Blackened, <>Frayed End Of Sanity), disco la cui intricatezza portò l'accantonamento temporaneo delle riproposizioni live integrali in quel periodo. Il primo disco si conclude con una sfida di assoli, di basso e chitarra, davvero fin troppo prolissa: diciotto minuti! Il secondo cd è inaugurato dal riffone di Trough The Never, pezzo che risulta più esplosivo che su disco; la notte avanza e si viene a creare il celebre scenario che introdce all'apocalittica For Whom The Bell Tolls: Hetfield 'presenta' Ulrich, il quale inizia a scandire gli inconfondibili e truci rintocchi di batteria. La marcia solenne viene autoritariamente condotta dal solo di basso di Newsted, mentre l'anima del compianto Cliff Burton aleggia nei solchi in questo monolitico monito di rispetto e onore. Ultimo momento di pausa viene concesso dalla leggendaria melodia di Fade To Black, capace di caldare i cuori più duri senza mai scadere nella commercialità, anzi sfociando in quel memorabile assolo che è sempre fonte di forti sensazioni, oggi come vent'anni fa. James scalda ulteriormente la folla, già cotta a puntino, invitandola a ripetere sempre più forte le sue parole: ma quando gli 'oh yeah!' si trasformano nel bisillabo 'Master!' tutti intuiscono e il delirio già impazza incontrollabile; tempo di pronunciare le restanti paroline 'of Puppets' e il più grande riff della storia dell'heavy metal si precipita sul moshpit scatenato come una devastante pioggia nucleare. E' naturalmente Master Of Puppets, escecuzione stellare, peccato solo che la band avesse preso in quel periodo il brutto vizio di troncarla a metà, castrandola della sublime parte melodica centrale. Segue un altro iperriff da antologia, di quelli che sembrano inarrivabili e incorruttibili dinnanzi allo scorrere del tempo: Seek & Destroy, affidata alle corde voacli del rude Newsted e altamente sconvolgente. Termina nella solita lunghissima jam session, e lascia ad un classico per eccellenza come Whiplash il compito di chiudere il massacro: velocità, velocità, velocità. Adrenaline starts to flow- You're thrashing all around- acting like a maniac urla James, osannato dalla massa, prima di innescare l'ultima scossa di terremoto sotto i piedi della gente, ormai sfibrata dal pubblico delirio; la furia corre e travolge tutto senza pietà, a ritmi serratissimi e corrosivi, nella furia più selvaggia del thrash metal proposto da questi incazzatissimi ragazzotti californiani. La festa ricomincia con l'ultima concessione commerciale (la dolce nenia di Nothing Else Matters e il riff orientaleggiante di Wherever I May Roam), prima che il four pieces a stelle e strisce ci trascini in un vorticoso salto nel suo passato glorioso. Si inizia l'operazione-nostalgia con qualche tributo: la band inizia a suonare Am I Evil dei Diamond Head, la sua cover per eccellenza, poi si ferma e attacca con il riff celebre della purpleiana Smoke On The Water, ripassa il motivetto di ...Sandman e torna ad Am I Evil, riagganciandosi laddove si era fermata con l'assolo da urlo di Hammet , il ritmo coinvolgente e quel ritornello tanto semplice quanto trascinante. Segue una divertente e velocissima Last Caress dei Misfits: al termine du quest'ultima, le luci si spengono, esplodono botti di guerra; la gente urla, e il desolante arpeggio di One porta la pelle d'oca tra la caliente gente messicana. la voce di James Hetfield si fa più tenue e interpreta passionalmente questo brano sontuoso, toccante, passando dalle parti sofferenti ai crescendo rabbiosi con energica maestria, fino allo spaziale assolo di Kirk Hammett, perla di una lunga conclusione strumentale che definire imponente è riduttivo. Come tutti noi ben sappiamo. I Metallica sono lanciatissimi: abbozzano il riff marziale di Ride The Lightning, esplodono un'altra cover (So What degli AntiNowhere League) e poi di colpo mitragliano la platea con una tiratissima Battery, una delle perle più veloci, violente e leggendarie della casa: Hetfield, in forma straripante, guida l'assalto, Ulrich esplode bordate letali e chirurgiche, Hammett e Newsted lacerano i nervi contratti dei deiranti presenti; l'assolo è la prova del nove per chi ancora non si era 'bagnato': thrash furente, battentre, una rincorsa mozzafiato con mostruosa galoppata finale, salutata dal boato planetario del pubblico! Il sudore cola a fiotti, l'adrenalina ha preso possesso delle menti sgovernate di ogni singolo spettatore, ma il cinico Hetfield non concede un attimo di sosta e continua a violentare le emozioni cerebrolese dei suoi adepti, urlando forte il nome del nuovo inno che la corazzata di nero vestita va ad intraprendere: The Four Horsemen! Riff leggendario, pezzo che gronda storia: la cavalcata, ricca di cambi di tempo e di un assolo urticante, è pazzesca, sopratutto ricordandoci che fu scritta da dei ventenni. Il fuoco resta acceso, grazie al groove della thrashissima Motorbreath, una mazzata nella quale spiccano i solismi bollenti di Hammett e che è incalzata da una potentissima versione di Stone Cold Crazy, degno tributo ai rocker di classe inglesi Queen. Altrettanto valido è il materiale video contenuto nel prezioso cofanetto. Il primo dei due dvd riprende il materiale originariamente suddiviso in due VHS, risalente agli show di San Diego del 13 e 14 gennaio 1992. La scaletta non si discosta molto da quella presente sui cd audio; il secondo dvd è un documento forse ancora più prezioso, che ritrae la band impegnata a Seattle il 29 e il 30 agosto 1989, dunque prima dell'avvento del tanto discusso Black Album: qui ci sono solo pezzi 'true', ci sono Blackened e ..And Justice For All in versione integrale, c'è The Thin That Should Not Be, ci sono gli anni '80! Grazie a questo succoso materiale video è possibile rivedere in azione una delle più spettacolari macchine da guerra sfornate in ambito hard'n'heavy, con immagine nitide e spettacolari capaci di riavvolgere il nastro del tempo. La qualità è ottima, e certi tentativi di 'effetto speciale' un pò banali -come per esempio il sovraporre le immagini dei musicisti a quelle del pubblico- non fanno che aumentare il sapore retrò di quest'opera, che dev'essere tutt'altro che moderna o 'vicina' a quello che la musica, i Metallica e il pubblico potrebbero essere oggi: il bello è il riassaporare le gustose notti magiche di una band all'apice nel suo decennio d'oro (1983-1993), capace di abbracciare un repertorio mastodontico e affascinante come pochi altri potrebbero vantare. Il giudizio su Live Shit: Binge & Purge non può dunque che essere positivo, al di là dell'elevato costo di produzione che tanto ha fatto mormorare la gente. Certo, sarebbe bello acquistare tre cd e due dvd a pochi soldi, chi lo nega? Qui però c'è tanto materiale da restarci secchi, da farci un'overdose, qui c'è tanta qualità e c'è tanta musica con degli attributi grossi così, qui c'è il succo di una carriera leggendaria alla quale il decennio successivo non ha saputo (e potuto) aggiungere nulla, per quanto completa e insuperabile già si era consacrata. Qualche altro punto a favore di questo prodotto? L'enorme enfasi, l'adrenalina che scorre a fiumi, Hetfield capace di gasare i fans come delle molle, l'impatto devastante dei pezzi 'storici', l'essenza di piccolo greatest hits live rivestita dal suddetto; la sa capacità di far provare emozioni forti, sincere, la facilità con la quale permette di riabbracciare i vecchi Metallica, una parte di noi stessi che mai potrebbe essere cancellata e che riemerge implacabile grazie a dischi come questo. Qualche critica, qualche pelo nell'uovo? la scelta troppo copiosa di canzoni del Black Album (ma del resto era il tour di quel disco!), la scelta di non suonare più i pezzi di Justice (esclusa One), gli intermezzi con solos troppo lunghi e prolissi, la scelta di escludere gemme del calibro di Ride The Lightining o Damage Inc e, soprattutto, il 'taglio' più clamoroso e doloroso di tutti. Master Of Puppets non si può troncare a metà (nella versione audio), prima della parte melodica, prima dell'assolo. No, semplicemente no, non si può. Questo, cari Metallica, non ve lo perdoniamo, per il resto diciamo che ve la cavate con un giudizio niente male...
PHANTOM ANTICHRIST
KREATOR [THRASH METAL], 2012
Le premesse sono state pienamente mantenute: nessuno si aspettava un flop, nessuno dubitava del fatto che Phantom Antichrist, nuova miccia dei teutonici Kreator, sarebbe stato un disco dagli attributi colossali. Accostare un prodotto recente ai grandi masterpieces che hanno fatto la storia del genere è sempre indelicato e complesso, ma dire che questo full length rappresenta un episodio tra i migliori della ricca carriera dell’ensamble mitteleuropeo non ci sembra eccessivo: le credenziali per essere il disco thrash dell’anno ci sono, e non sono poche. Sulla scia di tre dischi incisivi e capaci di rispolverare le antiche vestigia [dopo le vacche magre dei Nineties], la milizia di Mille Petrozza e dell’inscalfibile Jürgen 'Ventor' Reil dimostra di non aver perso neppure un decimo della propria foga, seppellendo le giovani leve sotto una sonora lezione di storia, che non si limita alla teoria ma si impernia sulla pratica, sanguinosissima pratica; sanno ancora fare del male, questi signori oltre “gli anta”, e per abbattere i propri ostacoli utilizzano le armi di sempre: potenza e velocità, riff devastanti, letali come lame di una falce, testi impregnati di furore, disgusto sociale, critica politica. Non crediate però che i Kreator restino incancreniti su uno standard vincente ma fossilizzato nel tempo: come promesso dal carismatico leader italo-tedesco, infatti, i panzer passati alla leggenda con Pleasure to Kill introducono cospicui riferimenti alle proprie radici classic heavy, tangibili nelle mirabolanti fughe soliste di ispirazione priestiana e maideniana. Il tutto, ovviamente, riletto con l’ottica irruente tipica dell’act tedesco: la scaletta, come vedremo, sarà costituita da una serie rassicurante di macelli spietati [la titletrack, Death to the World, Civilisation Collapse, United in Hate, Victory Will Come], verrà articolata attraverso alcuni passaggi meno tirati e di classica derivazione heavy [From Flood Into Fire, The Few, the Proud, the Broken, in un certo senso Your Heaven, My Hell] e si concluderà con un assaggio di prestanza più monolitica. Le performances dei singoli elementi risulteranno a dir poco strepitose, ma una menzione particolare la meritano i due highlanders, Mille e Jürgen, ancora una volta autentici trascinatori della corazzata continentale, probabilmente la più in forma tra le band appartenenti alla vecchia guardia del movimento metal mondiale: su questo non si discute. L’album è aperto dalla strumentale Mars Mantra, un’intro sinistra che lascia crescere la tensione e funge da preludio per la titletrack Phantom Antichrist, un olocausto ritmico immediato e annichilente nel quale Reil subito sferra raffiche di doppia cassa spietate su riff innervati di veleno; un refrain semplice e tradizionale, ma sicuramente trascinante, anticipa un’accelerazione ancora più veemente del pezzo, portando il delirio ai massimi livelli: il brano, velocissimo e forsennato, scatena inevitabilmente l’headbanging e si rivela una delle migliori composizioni della band da vent’anni a questa parte, ma presenta anche interessanti varianti all’interno dei suoi quattro minuti e mezzo di durata. Un pesante rallentamento centrale, infatti, è incalzato da una nuova linea vocale e ritmica, tese a costituire un intermezzo prima che la canzone ritorni al vibrante canovaccio-guida, sfociando in seguito nel primo assolo lancinante del platter: emergono immediatamente le spruzzate di heavy che rivestono le brillanti fiammate soliste, e nel frattempo Petrozza si rende subito protagonista di una prestazione brillante, tanto chirurgico alla chitarra quanto rabbioso al microfono. Per quanto stupefacente, la titletrack è comunque una sorpresa relativa, in quanto avevamo potuto saggiarne la pericolosità già qualche settimana prima della pubblicazione del disco, anche grazie alla sua presenza sull’omonimo EP. Il primo grande tuffo al cuore giunge dunque in concomitanza di Death to the World, altra traccia strepitosa, gigantesca, una mazzata devastante al cospetto della quale è umanamente impossibile restare fermi. Gli elementi che ogni affamato di thrash può desiderare ci sono, e in abbondanza: riff nervosissimi, martellante esplosione ritmica, vocals serrate che convergono in un ritornello da pogo disinibito, sorretto da velocità scarnificanti, possenti rallentamenti che fomentano la tensione ed una sezione centrale più quieta, tesa a creare un’ambientazione febbricitante; a questo punto, un assolo velocissimo ed ultra-heavy conferisce il colpo di grazia a chi ancora non si era bagnato, lasciando che i pugni dei fanatici tornino ad ondeggiare al cielo, con un chorus urlato a squarciagola, irresistibile, e la consapevolezza di aver sbattuto la testa contro un altro papabile classico, superbamente all’altezza della discografia storica di questo moniker. Dopo questa seconda, consecutiva bordata -lancinante e rapidissima- possiamo riassaggiare le sane radici heavy dei quattro tedeschi, gustandoci il riff solenne e marziale di From Flood Into Fire, un roccioso mid-tempo che poggia le basi su un atipico refrain corale da pelle d’oca, fortemente anthemico: i Kreator tritaossa li conoscevamo tutti, ma questa loro faccia epica e tradizionale ci mancava. Il risultato è comunque travolgente, e la rapidità non viene certo a mancare dato che dopo due minuti e mezzo si viene sorpresi da un’improvvisa ripartenza da capogiro, scandita da un assolo tonante che rilancia e velocizza il brano; la struttura non lineare scelta dai warriors di Essen produce composizioni mai banali e perennemente provviste di sfumature a sé stanti, che in questo caso coincidono con una decadente sezione dai tratti gotici e decadenti, prima accarezzata da un suadente solo malinconico e poi infiammata da un seconda vampata di note, questa decisamente più violenta ed elettrizzante. Si giunge così alla metà della tracklist: se From Flood Into Fire è stata una sorta di stacco, con tanto di omaggio all’heavy classico, Civilisation Collapse rappresenta, al pari di Death to the World, la bordata più massacrante e fulminante nell’esecuzione, un’altra scheggia letale. L’avvio è tambureggiante ma abbastanza contenuto: dopo un minuto circa, però, una pioggia di riff imbizzarriti si scaglia sull’ascoltatore come una spietata raffica di inaudita violenza, incontenibile e travolgente; un nuovo refrain, crudele ma irrefrenabile, accende ulteriormente la fiamma della follia, mentre Ventor sorregge con velocità impetuosa e glaciale costanza le trame di Mille e Sami Yli-Sirniö, brutali ma al contempo precise e raffinate. Stupendo, ancora una volta, l’assolo di chitarra: impellente, fluido, tagliente ed esaltante nel suo taglio old school, uno dei migliori presenti sul disco. L’intro acustica di United in Hate fornisce una sensazione di calma parziale e surreale, ma è solo un breve esercizio di pietà: un vigoroso assolo di batteria ed un urlo sguaiato di Petrozza lanciano l’ennesima sfuriata col piede a tavoletta sull’acceleratore, tra vocals efferate e rasoiate prepotenti, continui assoli perforanti ed energia che cola come lava dalle casse dello stereo; The Few, the Proud, the Broken è invece la seconda parziale variante ritmica rispetto alle consuete mitragliate da knockout: dotata di notevole potenza, punta su un refrain atipico ed un mood meno serrato, possiede riff classici innervati di discreta melodia e si presenta in ogni caso granitica e piacevole, ancora una volta impreziosita da svariati guitar solos. La presenza di queste tracce “diverse” contribuisce a stratificare l’album e conferirgli varietà, anche se le ultime tre composizioni appariranno leggermente meno ispirate di quelle presenti nella prima, ampia porzione di disco. Your Heaven, My Hell mescola entrambe le facce del sound dei Kreator datati 2012, ma risulta a tratti eccessivamente prolissa: si avvia con riff statuari e rallenta in un toccante arpeggio acustico, su cui Mille canta con voce cupa e pulita, riportando alla mente qualcosa udita nel periodo di Endorama. Niente paura, dopo due minuti il pezzo sprigiona tutta la sua reale forza d’urto, delineandosi come un possente esercizio di thrash dal riffato ipnotico, forse non velocissimo come i tedeschi saprebbero fare ma in ogni caso arrembante. Il ritornello, cantato precedentemente con toni sommessi e puliti nella fase d’avvio, viene qui ripetuto con tono decisamente più abrasivo, parecchie volte; la sezione solista non smette di convincere, avvolgente e dinamica, mentre è ancora il drummer a rendersi protagonista con un finale scrosciante e tellurico. Superati questi due passaggi meno selvaggi, si torna alla consueta barbarie ritmica con Victory Will Come, scandita dagli immancabili riff a rincorsa e dal tupa-tupa compatto e quadrato di Ventor; un buon pezzo, pur se non ancora dirompente e shockante come le tracce precedentemente esaminate, che comunque rasentano l’eccellenza. La conclusiva Until Our Paths Cross Again esibisce un altro avvio melodico e circospetto, si delinea come mid-tempo strascicato e opprimente ed è scandita da linee vocali autoritarie e svilenti; la velocità compare soltanto in folate concise, lasciando più spazio ad una sensazione di claustrofobia e concedendosi soltanto nella digressione centrale, peraltro infervorata da un assolo epilettico. Fin dal primissimo ascolto, la sensazione è chiaramente positiva: il disco girerà continuamente e per parecchio tempo nei vostri lettori, ed ogni volta vi ritroverete a dimenarvi come dei pazzi, sconvolti e travolti dall’ennesimo rituale di violenza imbastito dai Maestri. Chi osa chiamarli nonnetti potrebbe pentirsene.

LA STRADA PER PHANTOM ANTICHRIST

Nessuno può mettere in dubbio che i tedeschi Kreator siano, tra i vecchi alfieri della decade ottantiana, quelli più in forma in assoluto. Per lo meno in studio. dopo la fiacca sperimentale degli anni Novanta, gli efferati esecutori di massacri all'arma bianca come Endless Pain e Pleasure to Kill, infatti, hanno saputo risalire la china, pubblicando tre dischi di tutto rispetto, unanimemente riconosciuti come lavori validi e genuini, nel quale ricompariva finalmente la ridondante baldanza degli esordi, la chirurgica veemenza esecutoria e l'irrinunciabile attitudine scarnificante che avevano reso l'act di Essen uno dei più atroci e devastanti portatori di violenza apparsi sui nostri palcoscenici. L'evoluzione tecnica e melodica, soffusamente iniziata fin dai tempi di Terrible Certainty e culminata nell'espressività techno-thrash di Coma of Souls, era finalmente rispuntata tra i solchi di opere moderne e tradizionaliste al tempo stesso, brutali ma non più ignoranti come qualcuno vorrebbe far credere; e a tre anni dal valido Hordes Of Chaos, la corazzata teutonica torna a far tremare la terra, promettendo nuova energia e rinnovata cruenza. Da diverso tempo annunciato col titolo di Phantom Antichrist, infatti, il nuovo disco targato Kreator non promette altro che una ricetta ormai consolidata nell'ultimo decennio: nessuno si aspetta un passo falso. L'attesa cresce e pulsa, l'opinione pubblica prevede un altro calibro pesante, che probabilmente non andrà a rimpinguare la ristretta cerchia dei capolavori intramontabili ma di sicuro darà ai thrashers di ieri e di oggi parecchi motivi per scuotere la testa. Difficilmente una band tanto longeva riesce ancora oggi a garantire tali premesse, talmente rosee che Phantom Antichrist sembra dover essere quasi per forza un grande disco, una mazzata barbarica ancora una volta trascinante ed irresistibile, così come lo erano stati l'ottimo Enemy of God e Violent Revolution, quest'ultimo accolto con ancor maggior soddisfazione in quanto movimento di svolta, riconquista del trono, tanto per restare in ambito citazionistico. Svelata la tracklist, i fans hanno cominciato presto a sbavare: titoli come Your Heaven In My Hell o Civilisation Collapse lasciano facilmente intuire la terribile azione di disintegro che sarà annessa alle dieci lancinanti scorribande, che diventano undici se vogliamo conteggiare quella Iron Destiny destinata al mercato nipponico; al tempo stesso, queste tracce rimarcano l'andazzo tematico improntato con grande attenzione alla critica sociale e alla disamina razionale dell'odierno ordine mondiale al quale ci ha abituato il singer e chitarrista Mille Petrozza che, non parco di delucidazioni, ha affermato: 'Con un titolo come 'Phantom Antichrist' intendo prendermela con i mass-media, con tutti quei fantocci mossi da ragioni politiche che stanno sopra di loro. Il governo usa i media per monitorare e plasmare il pensiero della gente; l'ispirazione mi é venuta apprendendo dell'uccisione di Osama Bin Laden e della sua tumulazione in mare per ragioni religiose. Dannazione, non esiste proprio quell'usanza nella cultura musulmana, perché allora i media ci hanno promulgato quella fandonia? Perché l'hanno ucciso come un cane senza cercare di tirare fuori qualche informazione prima di farlo fuori? Ad esempio, chi c'era dietro di lui e con lui quando ha organizzato gli eventi dell'11 settembre, come funzionava la sua organizzazione, quali complotti stava architettando ancora per il futuro? Insomma, così facendo ho avuto la conferma che Bin Laden non é mai esistito, oppure che i media ci abbiano sempre e solo fatto sapere quello che ritenevano giusto per noi, per gestirci meglio. Manipolazione, questo é l'Anticristo fantasma di cui racconto, e non c'é proprio nulla di satanico di cui discutere'. In effetti, con un titolo del genere, qualche osservatore meno esperto potrebbe rafforzare la comune equazione secondo cui "metal uguale Satana", e probabilmente quei furbastri dei Kreator non fanno che rinnovare e ammodernare quella tendenza tipicamente ottantiana per cui citare qualche rappresentante infernale a caso aiuti indiscutibilmente ad abbindolare ed affascinare qualche pischello in più: se in età post-adolescenziale le band pioniere cantavano del piacere di uccidere o di figli del male spacciandosi per reali portavoce dell verbo luciferino, oggi si sono acutamente tenuti al passo con i tempi, non rinunciando ai titoloni ad effetto di matrice blasfema, ma nascondendo dietro di questi delle tematiche scottanti ed attuali dalla comprovata profondità e maturità. A rafforzare il fascino che le sulfuree divagazioni esercitano anche su una metal band tanto esperta, rodata e consacrata, ci sta la cover dell'intramontabile The Number Of The Beast che dovrebbe apparire sul singolo trainante, disponibile in rete dal 20 aprile: curioso ed emozionante é udire il vecchio Mille canticchiare quell'innocuo six, six, six che tanto scalpore destò quando fu Bruce Dickinson a scandirlo per la prima volta, nel remoto 1982. Denominatore comunque ai testi di ieri e a quelli di oggi, inutile sottolinearlo, è quella rabbia che scorre veloce e trepidante, quella forza d'urto implacabile che il marchio Kreator ha sempre saputo garantire, quella serie di sassaiole ultraveloci che spezzerebbero le reni ad un toro. Ma siamo proprio sicuri che Phantom Antichrist sarà in tutto e per tutto un inamovibile esercizio di supremazia ribadita nelle coordinate dai panzer tedeschi? Stando a quanto scrive la stampa specializzata dovremmo aspettarci qualche sorpresa: chi ha avuto la fortuna di spararsi un ascolto d'anteprima parla di un disco dall'andamento non lineare, che per buona parte consolida il tiro micidiale tipico del moniker mitteleuropeo ma che, tuttavia, riserva anche partiture ritmiche inconsuete, addirittura tendenti al progressivo; non che la band di Essen stia rimescolando le carte in tavola, sia ben chiaro: gli esperimenti simil-Endorama sono del tutto escludibili, perché la ferocia resterà in primissimo piano, così come l'aggiuntiva componente melodica delle ultime tre releases; però c'é chi parla di recupero della tradizione ottantiana nell'architettura delle composizioni, soprattutto per merito degli arrangiamenti particolareggiati e delle frequenti sezioni soliste esercitate da Petrozza e dal suo collega Sami Yli-Sirnio. Dalla sezione ritmica ci si aspetta invece una performance assai estrema ed irruenta, marchio di fabbrica inconfondibile del perfido Jurgen Reil. E' ancora il vecchio Miland a fornirci qualche spunto di riflessione interessante: 'Con il nostro nuovo disco in studio Phantom Antichrist abbiamo voluto staccarci dalla tipologia di musica che abbiamo prodotto negli ultimi dieci anni della nostra carriera; non intendo rinnegare quella direzione sonora, sia chiaro, ma volevamo tentare di creare qualcosa di diverso, unire a quella consueta pulsione brutale dei connotati distintamente più heavy metal. Ci siamo deliberatamente ispirati alle nostre radici comuni, quelle fatte di Iron Maiden e Judas Priest, dei duelli chitarristici della coppia formata un tempo da Glenn Tipton e KK Downing. Questo é una specie di album tributo a tutte quelle band che ci hanno ispirato da ragazzini, senza dimenticarci un'abbondante dose di vecchio thrash metal, che é naturalmente la fetta più importante del sound dei Kreator. State pur sicuri che il nuovo album conterrà tutti i requisiti per cui siamo conosciuti - brutalità, riff difficili da suonare, lyrics che parlano di cose per le quali essere davvero arrabbiati. Insomma, un trattamento completo'. Indubbiamente dopo tali dichiarazioni l'attesa si fa ancor più spasmodica: e se la cover di The Number Of The Beast non fa che confermare questa volontà di tributo, gli appassionati ed i seguaci del four pieces tedesco si stanno già dividendo: da un lato chi storce il naso di fronte a questo, che sembra una sorta di affievolimento sonoro teso al recupero contestuale delle sonorità classiche del metal ottantiano, dall'altra chi, dopo essersi riempito la pancia con massicce dosi di thrash furioso -che resteranno sempre a disposizione, nel caso si necessiti di un pò di caos- sogna di gustarsi i cari vecchi Kreator in una salsa alternativa, heavy-thrash. La verità come sempre dovrebbe stare nel mezzo: quella componente classica e old school che fa riferimento ai colossi britannici di inizio anni ottanta, difatti, dovrebbe essere soltanto un tassello parziale, che arricchisce e non stravolge un puzzle ad incastro perfetto. Insomma, non aspettiamoci certo un lavoro ibrido o dalle fattezze clamorosamente atipiche, ma teniamo ben presente che stiamo parlando soltanto di piccoli dettagli, ingredienti succulenti ma non centrali, in quella che dovrebbe manifestarsi come pura lapidazione thrash'n'furious. In studio da gennaio, la band da poco entrata nel roster della Nuclear Blast ha pubblicato -come detto- un 7'' in vinile rosso limitato a 250 copie lo scorso 20 aprile, e porterà l'album ufficiale nei negozi a partire dal primo giugno; il full length é stato prodotto nei Fascination Street Studio da Jens Bogren, presenterà due copertine alternative (a seconda del fatto che si acquisti l'edizione standard o quella limitata) e sarà trainato dal video della titletrack, realizzato assieme allo stimato e riconosciuto team Grupa 13. Tutto curato nei minimi dettagli, tutto monitorato e tenuto sotto controllo dagli esponenti della major, nei limiti delle facoltà umane, ovviamente: da qualche giorno Youtube é costellato da video della nuova massacrante titletrack e della stessa cover dello storico cavallo di battaglia maideniano, inizialmente rimossi per violazione di copyrigh ma successivamente lasciati a disposizione degli utenti, visto il loro proliferare ingestibile. Non ci resta che attendere un mesetto abbondante, per poterci finalmente lanciare a capofitto nell'ennesimo sproloquio sonoro partorito dagli alfieri della Sacra Triade, ancora ebbri dell'antico splendore: l'attesa sarà ripagata, statene certi.


THE GOD THAT FAILED

SEGUI IL DIO CHE HA FALLITO? Altra canzone che affonda le radici nell'infanzia di James Hetfield e nelle convinzioni/imposizioni scientifico-cattoliche dei suoi genitori. La madre morì di cancro rifiutando tutte le cure; James non poteva partecipare alle lezioni di salute e medicina, nè fare sport e giocare nelle squadre di football della scuola; lo stesso padre del cantante morirà, diversi anni dopo, malato e affidato solo alla Provvidenza di un Dio che, agli occhi di James, è sempre venuto meno. Il disincanto del ragazzo verso questa religiosità bigotta è sempre stato violento: 'inganno, illusione: decidi tu a cosa credere'. Quella del 'Dio che ha fallito' è un'espressione introdotta negli anni '40 dallo scrittore e giornalista George Orwell per indicare il comunismo, che le masse avevano iniziato ad adorare ma che aveva portato soltanto altro dolore. Musicalmente, il pezzo é discreto, aperto da un malinconico arpeggio dai tratti inquietanti e successivamente capace di inasprirsi, senza tuttavia toccare vertici sorprendenti. Si delinea come roccioso mid-tempo dalle tonalità assai cupe e decadenti, aggrapapto ad un riff tosto e alle linee vocali quasi rassegnate di Hetfield, il quale sputa veleno constatando la triste verità di una società troppo schiava delle suggestioni religiose, un argomento piuttosto ricorrente all'interno del mondo dell'heavy metal.
THE GOD THAT FAILED
Pride you took Pride you feel Pride that you felt when you'd kneel Not the word Not the love Not what you thought from above It feeds It grows It clouds all that you will know Deceit Deceive Decide just what you believe I see faith in your eyes Never you hear the discouraging lies I hear faith in your cries Broken is the promise, betrayal The healing hand held back by the deepened nail Follow the god that failed Find your peace Find your say Find the smooth road on your way Trust you gave A child to save Left you cold and him in grave It feeds It grows It clouds all that you will know Deceit Deceive Decide just what you believe I see faith in your eyes Never you hear the discouraging lies I hear faith in your cries Broken is the promise, betrayal The healing hand held back by the deepened nail Follow the god that failed I see faith in your eyes Broken is the promise, betrayal The healing hand held back by the deepened nail Follow the god that failed Pride you took Pride you feel Pride that you felt when you'd kneel Trust you gave A child to save Left you cold and him in grave.
IL DIO CHE HA FALLITO
Ti sei inorgoglito, senti l'orgoglio, l'orgoglio che hai sentito quando ti sei inginocchiato; non la parola, non l'amore, non quello che hai pensato venisse dall'alto; si nutre, cresce, offusca tutto quello che conosci, inganno illusione, decidi tu a cosa credere. La fede nei tuoi occhi, non senti mai le menzogne scoraggianti? Odo la fede nelle tue grida, la promessa è mancata, tradimento, la mano che guarisce trattenuta dal chiodo che affonda, segui il Dio che ha fallito, trova la tua pace, trova le tue parole, trova la strada facile nel tuo percorso. Hai dato fiducia, un bambino da salvare ti ha lasciato freddo e lui nella tomba. Vedo la fede nei tuoi occhi, la Promessa è rotta, tradimento; la mano che guarisce trattenuta dal chiodo che affonda, segui il dio che è venuto meno; ti sei inorgoglito, senti l'orgoglio, l'orgoglio che hai sentito quando ti sei inginocchiato. Hai dato fiducia, un bambino da salvare ti ha lasciato freddo e lui nella tomba.

NO PRAYER FOR THE DYING: I TESTI

Dopo aver toccato i propri vertici qualitativi con una serie di dischi progressivi ed elaborati, gli Iron Maiden, orfani di Adrian Smith, si affacciano agli anni novanta scarnificando il loro stile e recuperando le proprie radici stradaiole, pubblicando un disco che é più hard-rock che metal, e scivola via abbastanza inosservato, poco ispirato e banalotto, nonostante qualche brano discreto. L'opener Tailgunner, che poggia prevalentemente su un buon chorus vocale, si rifà al mitragliatore di coda degli aerei impegnati nella II Guerra Mondiale, con annessi riferimenti a battaglie, personaggi e luoghi realmente esistiti (Dresda, Colonia, Francoforte); il titolo deriva, a detta di Dickinson, da un film porno sul sesso anale: il cantante trovò efficace il titolo ma, ritenendo di non poter scrivere un testo su un tale argomento, preferì utilizzarlo in chiave bellica: Arrampicati nel cielo,non chiederti mai perchè sei una mitragliatrice. Allegrotta e dotata di un buon ritmo rockegiante, Holy Smoke si scaglia contro i telepredicatori, tanto di moda nei paesi anglosassoni, e sugli scandali da essi destati nel corso degli anni ottanta: Dickinson li paragona a soldati nazisti, a causa della loro consuetudine di bruciare libri e dischi rock. Il Jimmy Reptile citato nel testo é in realtà Jimmy Swaggart, pastore americano fermamente attivo contro la musica rock e autore del libro Musica: La Nuova Pornografia, che ritraeva in copertina proprio Steve Harris. Una copia del libro finì sul comodino di Bruce, che scrisse un testo provocatorio e ironico su un personaggio disgustoso, capace di predicar bene e razzolare male, visti gli scandali in cui fu coinvolto, prostitute comprese: Jimmy Reptile e tutti i suoi amici dicono che, alla fine, saranno con te. A furia di bruciare cd, di bruciare libri sembrano dei santi soldati nazisti. Sorrisi di coccodrillo, aspetta un`attimo finchè la regina TV si toglie il trucco; io ho vissuto nella sporcizia, ho vissuto nel peccato ma continuo ad avere un odore più pulito della merda in cui voi siete immersi. Le parole sono pesanti, alleggerite da una musica leggera e semplice, ma il consiglio é perentorio: Dai retta a me, non spedire soldi. Nel video, casinaro e istrionico rispetto agli epici clip degli anni addietro, compaiono persino il padre di Steve (é il signore che guida il trattore) e, nel finale, una piccola Lauren Harris intenta a suonare il basso retto dal paparino. La titletrack No Prayer For The Dying é il pezzo migliore del lotto, ed anche il più maideniano della serie: si apre su melodie malinconiche e pulite, gode di alcuni sprazzi della cara vecchia epica ottantiana -quasi del tutto assente in questo disco- e sfocia in un finale più dinamico e rampante, come da tradizione. Nel testo, ci si pone domande sul senso della vita, con tanto di invocazione a Dio al fine di ottenere delle risposte: Dio, dammi le risposte alla mia vita, dammi le risposte ai miei sogni, alle mie preghiere, al mio essere. Con un gioco di parole, Public Enema Number One parla dei falsi ambientalisti ipocriti e dei politici che mentono per salvare la propria immagine, lasciandosi alle spalle la sofferenza della gente comune; la parola Enema, utilizzata al posto di Enemy (nemico) é infatti un ironico richiamo al clistere. Fates Warning é l'ennesimo quesito introspettivo: esiste un destino predestinato per l'uomO? E che senso ha porsi queste domande, sapendo che non troveranno mai risposte? Sono più fortunati coloro che vengono risparmiati per un altro giorno, oppure quelli che sono portati via? La band inglese si chiede anche quale siano i ruoli di Dio e del Diavolo relativamente alla morte e alle catastrofi: Un vulcano erutta e spazza via un paese, un uragano devasta le città che sono sulla sua strada; il dolore e la miseria per coloro che sono lasciati alle spalle. Il disco non brilla certo per originalità, sia dal punto di vista lirico che musicale: l'act inglese si cala nella testa di un sicario sadico e freddo, che non uccide per soldi ma per puro gusto personale, attraverso i versi di The Assassin, mentre recupera parte dei suoi riferimenti colti in Run Silent Run Deep, la quale si rifà al romanzo omonimo di Edward Beach Jr (1955), dal quale fu tratto anche un film nel 1958: il tema portante è la sofferenza e l'abnegazione dei soldati impegnati nei sottomarini della II Guerra Mondiale, un tema ricorrente nelle liriche della band; Hook In You é invece un testo ironico, congegnato da Bruce quando si recò a vedere con la moglie Paddy una casa in vendita, abitata da tre omosessuali: il cantante notò la presena di diverse travi con uncini, capendo che uno dei tre tizi praticava il sadomaso e, non potendo scrivere un pezzo sui tre gay, decise di immaginare la vicenda di una copia eterosessuale, con la moglie che -pensando di essere stata tradita- seppellì il marito nel cemento delle fondamenta della casa. Il doppio senso si coglie nella frase Tutti quegli uncini nel soffitto, quella sensazione di essere ben appesi, in quanto l'espressione Well huns indica anche, in slang inglese, dei genitali maschili di grosse dimensioni! In passato, il pezzo era stato ipotizzato come sequel della saga della prostituta Charlotte, a causa di riferimenti ad una donna e al numero 22, il numero civico dell'appartamento. Bring Your Daughter To the Slaughter, per quanto ancora sintonizzata su frequenze rock e pur essendo un brano molto controverso, è uno dei tre pezzi maggiormente degni di nota (assieme a Tailgunner ed alla titltrack) e pare essere fortemente ispirata, nell'interpretazione di Dickinson, al celebre film horror Nightmare. La solenne e conclusiva Mother Russia parla di un Paese, quello sovietico appunto, invaso e massacrato innumerevoli volte nel corso della storia, ed é uno speranzoso auspicio che lì si realizzino pace e libertà: Madre Russia come stai dormendo, i venti freddi di metà inverno soffiano, dagli alberi scivolano i fiocchi di neve, oscillando come fantasmi sulla neve; Madre Russia, maestosa poesia, raccontaci del tempo in cui c’era un grande impero: girandosi indietro il vecchio medita, ricordando un'epoca ormai passata. Madre Russia, la danza dello zar, tieni la testa in alto, sii orgogliosa di quello che sei; ora è finalmente arrivata libertà, cambiando il corso della storia e il tuo passato. Madre Russia, la danza dello zar, tieni in alto la testa, ricordati chi sei! Puoi liberare la rabbia, il dolore? Puoi essere felice? Ora la tua gente è libera. Musicalmente, si avvicina ai vecchi pezzi epici della band, pur essendo meno intricata e fluida, e conclude un disco spesso dimenticato nella ricca discografia della truppa britannica.