DREAM THEATER [1992], PROG METAL
Quando si ascolta per la prima volta un album, si suole tentare anche di definire il genere musicale proposto. Senza pretesa di affibbiare rigide etichette, si può dire che la maggior parte dei dischi, rifacendosi a lezioni pregresse, viene a collocarsi in questa o quella corrente, dalla quale ricava i propri tratti essenziali, con alterne fortune. Talvolta, non così spesso, alcuni di questi dischi riescono ad emergere dalla massa e, rimodellando in chiave personale ciò che altri hanno inventato, si propongono nel tempo come punti saldi del genere in questione. Tuttavia, di tanto in tanto, nascono delle opere profondamente differenti, che si rifiutano di essere costrette entro forme predefinite, sfuggono le definizioni con incrollabile caparbietà e si lasciano accostare solo da altri frutti del genio, spesso differenti nella natura ma pari nel valore. Questa elitaria categoria è formata da quei lavori che, si dice, non adattandosi ad alcun genere, finiscono per crearne uno nuovo. Nel 1992 nasce una di queste opere. Nulla vuol lasciar presagire il capolavoro: né il nome della band, né il contesto storico. Dopo anni in cui si era vista la parola 'progressivo' essere privata della visibilità che avrebbe meritato, sopravvivendo per lo più tra le abili mani di pochi veterani fedeli ad una lunga e nobile tradizione, un demiurgo chiamato Dream Theater plasma la materia incorrotta dei maestri del passato e soffia in essa un’anima metallica, dando vita a qualcosa di nuovo, inaudito, stupefacente. Images and Words è un fulmine a ciel sereno: imprevisto ed imprevedibile si impone a contemporanei e posteri come modello imprescindibile di una concezione musicale della quale fissa definitivamente i caratteri fondamentali. Caratteri che sono impressi a fuoco nelle otto tracce dell’album, otto diamanti incastonati nella corona dei futuri re del prog, di fattura tale che ciascuno di essi può trovare un proprio pari solo in quello che gli si trova accanto. Vediamoli dunque uno per uno questi otto diamanti, per ammirarne la fattura e saggiarne la tempra. Pull Me Under: Pochi secondi, una manciata di note, e la batteria comincia a scandire un tempo imprendibile, che si protende fino a tuffarsi in un riffing imponente, massiccio, avvolto dall’inquietudine delle tastiere. Poi, finalmente, una voce, parole che guidano i pensieri, a loro volta governate dalla musica. Un caleidoscopio di passioni turbinanti si arrampica lungo le liriche, si innesca nel ponte ed esplode in un coro che farà storia. Imprendibili serpentine ed improvvisi sbalzi d’umore si intrecciano per tessere una trama ipnotica senza fine. E proprio quando nessuno è ancora pronto ad attenderla, ecco che il genio emana la sua improvvisa sentenza di morte. Another Day: Smesso l’abito da cerimonia che celebrava la definitiva resurrezione del prog, i cinque americani indossano ora panni più soffici e delicati. La grazia di pianoforte e chitarra, la passione vibrante nelle linee vocali, le sognanti armonie del sassofono: elementi che insieme creano melodie di rara bellezza, capaci di far dimenticare per un attimo tecnica e complessità delle strutture. Un’escalation di emozioni che trova la sua vetta in un solo con cui Petrucci affonda la mano nel petto dell’ascoltatore per afferrarne i sentimenti, cullarli, giocare con loro, ed infine innalzarli in un mondo segreto e sublime cui pochi sanno arrivare. Al sax di Beckenstein il compito di riportarci, dolcemente, sulla terra. Take the Time: ovvero il nuovo significato della parola 'progressivo'. Gli strumenti si amalgamano in una sinfonia perfetta e dalle molteplici cromature, che giunge all’orecchio leggera e dannatamente piacevole: molti i generi toccati, senza che se ne possa trovare uno definitivo e predominante. La sezione ritmica è da mozzare il fiato, con Portnoy e Myung impegnati a dettare ritmi irresistibili e trascinanti che ogni piede vorrebbe seguire, se solo ne fosse capace. Posto che non ci si può che sbalordire innanzi a siffatto sfoggio di classe, rimane da decidere se farlo per la straordinaria padronanza tecnica o per la capacità di fonderla indissolubilmente alla melodia. Incredibile. Surrounded: Le parole per descriverla cominciano già ad esaurirsi, ma la musica continua. Parte piano, si sviluppa in un imprendibile crescendo, e di nuovo si riaddormenta. Quando è finita, rimane solo un elusivo senso di soddisfazione a testimoniare il valore di quanto udito. Pochi flash, immagini sonore sfuggenti, come lo stupendo solo centrale, descrivono una molteplicità di emozioni che non si lascia raccogliere in una manciata di frasi. Ancora una volta, tecnica impareggiabile al servizio della melodia; ancora una volta, capolavoro. Arrivati a questo punto si rende necessario un breve inciso. Si è parlato fin qui di musica e musicisti, di melodia e tecnica. Si è accennato o poco più, invece, ai testi. Ma questi si dimostrano in realtà uno degli aspetti più importanti di un disco che trova proprio nelle liriche il suo autentico valore aggiunto. Parole che illustrano ciò che gli strumenti dicono in altro modo, quelle parole di cui il nome dell’album sancisce il valore, diventano fondamentali se si vuol tentare di cogliere l’essenza dell’opera. La controprova è imminente: come apprezzare nella sua interezza il valore del prossimo brano senza un’adeguata attenzione per il testo? Metropolis, pt.1: The Miracle and the Sleeper: Non si può dire che in questo disco ci siano vere hits, o si farebbe un torto alle tracce non citate. Tuttavia, se fosse possibile trovarne, Metropolis pt.1 sarebbe una di queste. Tutto in una traccia, tutto in nove minuti e mezzo. Pochi, se si considera quanto viene detto. Genio e follia si mescolano in un’intrepida alchimia che dal primo istante all’ultimo continua a cangiare senza posa, attraverso una moltitudine di passaggi uniti solo da un sottile filo di enigmatico fascino. Si potrebbe scrivere un saggio per parlare compiutamente di questa piccola opera d’arte, e neppure allora la si potrebbe descrivere meglio di quanto essa già non spieghi se stessa. Come è in potere dei soli autentici capolavori, ad ogni ascolto si rivela un nuovo dettaglio, una nuova sfumatura, un nuovo lampo emotivo che sorprende, rapisce, conquista. Quali menti umane hanno potuto innalzare l’arte musicale a sì alte vette? Il minimo che si possa fare per questi cinque pittori sonori è offrire loro un piccolo tributo citandone per esteso ed in grassetto i nomi, in rigoroso ordine alfabetico: James LaBrie, Kevin Moore, John Myung, John Petrucci, Mike Portnoy. A loro tutta la gratitudine di chi ascolta. Under a Glass Moon: Mentre il corpo è ancora annichilito dalla complessa magnificenza dell’ultimo brano, una bella melodia di chitarra e tastiera introduce il capitolo che ha l’onere di non apparire opaco a fianco della straordinaria lucentezza del precedente. Impegno che porta a termine con successo, ma ormai non è più una sorpresa. Passaggi ritmico-melodici agili e variopinti, intensa interpretazione delle linee vocali, liriche sfuggenti e fascinose. Probabilmente in un altro disco di un altro gruppo una song di questa caratura sarebbe considerata senza troppe cerimonie uno degli episodi più riusciti del lotto, qui è semplicemente un’altra grande, immensa canzone: ormai siamo già stati viziati. Wait for Sleep: Due minuti e trentuno secondi. Bastano a Kevin Moore per regalare una nuova gemma. Tutto intorno tace, solo alla soffusa narrazione di LaBrie è concesso fondersi con la melodia, mentre le tiepide melodie di una tastiera notturna dipingono una tela malinconica e solitaria, intima e riflessiva. Le note scorrono con la fluidità di una fonte d’acqua fresca, il tempo si ferma. Rimane solo la musica. Learning to Live: La fine si avvicina, è ora il momento di tirare le somme. A questo fine viene scelta una suite lunga, complessa, che muta più volte pelle lungo l’inesorabile cammino verso l’ultima nota. Il disco che era cominciato con la morte, improvvisa e violenta, ora termina con la vita; e il gruppo si prende tutto il tempo necessario per raccontarla e scatenarsi: Portnoy è un metronomo impazzito che costruisce muri ritmici impossibili ai quali Myung appende con maestria e senza sforzo il proprio arazzo di note; Petrucci sfoggia un repertorio ancor più ampio di quello mostrato sinora, passando con disinvoltura da uno stile all’altro, in frequenti combinazioni con le certosine tastiere di uno straordinario Moore; LaBrie regala attimi di grande passione recitando un testo che è un piccolo poema. Senza dubbio uno degli apici, per tecnica ed estro compositivo, della discografia dei Dream Theater, nonché la migliore tra le conclusioni immaginabili. Quando la musica finisce, resta solo l'impressione di aver sfiorato per un attimo l’infinito, insieme con la consapevolezza dell’irripetibilità di una simile esperienza. Sopravvive anche la voglia di riascoltare ogni singola nota, dal principio, per provare a carpirne gli inesauribili segreti, una voglia che resiste al tempo senza mai trovare piena soddisfazione. La leggenda comincia: come un primigenio faro di Alessandria, Images and Words getta il suo potente fascio luminoso nel mare del futuro, per illuminare la via alle nuove generazioni, e con esse ai suoi stessi creatori. La storia della musica passa anche da qui.
Da Truemetal.it