RINO GISSI, METALLIZED.IT. PARTE PRIMA
Blind Guardian. Il clangore delle spade echeggia nel bosco, la battaglia impazza sotto un rosso tramonto, truppe a cavallo marciano nelle lande fantastiche, ai piedi di poderosi manieri, mentre negli antichi borghi paesani la vita scorre come ogni altro giorno: il sudore nei campi, i bambini che giocano attorno al pozzo, i menestrelli che intrattengono i popolani attorno ai focolari sotto le stelle. È in uno scenario del genere che potremmo collocare idealmente la meravigliosa eredità musicale dei leggendari Blind Guardian, tedeschi di Krefeld, nell’antica regione della Renania Settentrionale-Vestfalia. Icone dello speed-power metal teutonico, tanto devastanti nell’avanzata frontale a folle velocità quanto sopraffini nell’intessitura di pregevoli melodie medievali, i Blind Guardian hanno attinto a piene mani dal genere potente e veloce plasmato dai primissimi Helloween, prima rendendolo ancora più terremotante ed epico, quindi portandolo ad un successivo livello di eccellenza tecnica e reminiscenze melodiche dai tratti medievali, infine introducendo sottili nervature sinfoniche, nell’arco di una carriera longeva e ricca di masterpieces. Maestose ed intricate, le composizioni presenti nei loro primi sei album in studio restano ancora oggi spettacolari manifesti del power metal più ruggente, epico ed incontaminato: le chitarre sferrano riff granitici e tonanti, corrono a velocità elevate su ritmiche martellanti e attraverso assoli fluidi, di rara bellezza, sintomo di una capacità tecnica notevole, trame complesse ed articolate fungono da sfondo regale per linee vocali enfatiche, drammatiche e memorabili; l’immaginario fantastico su cui i cinque tedeschi hanno imbastito la loro grandezza, inoltre, rappresenta una sorta di magia nella magia, vertendo sui racconti letterari di autori come Tolkien, oltre che su altre suggestioni appartenenti a mondi lontani e realtà oniriche. Uno stile lirico e musicale che ha influenzato e continua ad influenzare generazioni e generazioni, vestigia di una band che non ha mai sbagliato un colpo e che rappresenta un vero e proprio patrimonio dell’intera comunità metallica mondiale. La storia inizia nel 1985 a Krefeld, anticamente annoverata nella contea di Moers ed elevata al rango di città nel 1373: un borgo costituito da diversi quartieri, uno dei quali sorto sui resti di un antico accampamento risalente all’Impero Romano. È in questa realtà intrisa di storia che sorgono i Lucifer’s Heritage, fondati dal chitarrista André Olbrich e dal bassista Hansi Kürsch, che sceglie di impugnare anche il microfono. All’altra chitarra arriva Marcus Dork, mentre dietro alle pelli si colloca Thomas Stauch: con questa line-up venne realizzato un primo demo assai rozzo, Symphonies of Doom, che però attira poche attenzioni; in questa fase iniziale i cambi di formazione erano ancora naturali, così che Hans-Peter Frey rilevò presto Stauch, mentre Christoph Theissen sostituì Dork, completando la seconda incarnazione della band. Così organizzati, nel 1987 i Lucifer’s Heritage pubblicarono il secondo demo, Battalions of Fear, ma si trovarono a dover cambiare moniker prima in Battery quindi in Blind Guardian poiché si accorsero che la gente disdegnava i loro concerti credendoli una black metal band, come testimonia Hansi Kursh: 'Lucifer's Heritage non andava bene, suonava troppo demoniaco e non c'entrava nulla con la musica che facevamo. Allora andava di moda il black metal e molti ci infilavano in quella categoria per colpa del nome. Già al momento di firmare il nostro primo contratto i responsabili della No Remorse avevano inserito la clausola del cambiamento del nome; scegliemmo proprio Blind Guardian perché già all'epoca eravamo tutti interessati a tematiche fantasy, e c'era un album dei Fates Warning che si chiamava 'Awaken the Guardian': questa idea del Guardiano continuava a girarci in testa, la trovavamo realmente forte, abbiamo cercato qualcosa che ci stesse bene assieme e siamo arrivati al guardiano cieco'! Battalions of Fear frutta un tanto agognato contratto con la No Remorse records e nel 1988 la line-up si stabilizza col rientro definitivo di Stauch e l’ingresso del valido chitarrista Marcus Siepen al fianco del rodato Olbrich. Carichi d’entusiasmo ed energia, i cinque ragazzi entrano in studio e danno alla luce il loro primo album, Battalions of Fear, che si rivela una roboante mazzata di speed metal dai tratti quasi thrashy: imbevuto di ottimi contributi melodici ed epicità a fiotti, il disco sembra subito prendere spunto dal power metal degli Helloween di Walls of Jericho, raddoppiandone però la carica, la possenza, eliminandone le sfumature più funny e costituendo un alone di serietà intimidatoria attorno a bordate irresistibili come la titletrack o la stupenda Run for the Night, quest’ultima caratterizzata da riffery tritaossa e da un refrain arioso da cantare in coro. Le chitarre macinano partiture telluriche ed incalzanti, mentre Hansi Kürsch interpreta alla grande l’atmosfera epica col suo vocione ruvido ed evocativo. Trascinanti erano anche The Martyr, con le sue vocals evocative, la stessa Guardian of the Blind o le pregevoli strumentali Trial by the Archon, By the Gates of Moria e Gandalf’s Rebirth, evidenti riferimenti a romanzi di derivazione fantasy; la sontuosa opener Majesty, una suite di sette minuti pregna di adrenalina, assoli da capogiro e riff letali sparati a folle velocità, incarna tutta l’essenza grezza e tipicamente teutonica trasmessa da una band ricca di idee, che inizia da subito a scrivere pagine memorabili nella storia del genere. Anche se questo, forse, non venne colto immediatamente. Hansi Kursh ricorda così la prima fatica della sua band: 'Grande nervosismo, soprattutto in studio, eccitazione, energia, molta energia, forse addirittura di più che negli anni a seguire. Inesperienza, ancora una forte ispirazione da parte degli Helloween, anche se non eravamo una copia,e poco tempo in studio, anche se rispetto alla media abbiamo avuto a disposizione abbastanza denaro. Ci fu un pò di delusione, anche,pe rchè le aspettative erano enormi, dopo il disco ci sentivamo delle rockstar ed invece non era cambiato niente. Facemmo un tour in supporto ai Grinder, con una trentina di spettatori in media a serata, e ci chiedevamo se un giorno o l'altro avremmo potuto vivere di musica, o anche solo se avremmo avuto la possibilità di realizzare un secondo album'. Non potevano immaginare quanto grandi sarebbero diventati nel giro di pochissimi anni. BIOGRAFIE BLIND GUARDIAN: HANSI KURSCH
Schiacciando vigorosamente il piede sull’acceleratore e scoccando ulteriori fondate di melodia vertiginosa e potenza considerevole, i cinque di Krefeld tornano sul mercato l’anno successivo, forti di un disco più maturo e curato dal punto di vista tecnico come Follow the Blind, introdotto da una fuga irresistibile e compatta come Banish from Sanctuary, un piccolo gioiello di power tedesco nonché degno biglietto da visita per il disco: velocità, potenza urticante, ritmiche ancora una volta ultraspeed, headbanging garantito, vocals da brivido e colate bollenti di melodia. Impossibile non esaltarsi di fronte al riff squillante di Damned for All Time o per le sue vigorose accelerazioni, per le tinte fosche ed i ritmi pesanti di Follow the Blind, per la velocità disarmante ed il chorus irresistibile della scatenata Fast to Madness o per il capolavoro Valhalla, una gemma irruente e poderosa nella quale la band omaggia la mitologia norrena e si fregia addirittura del contributo di Kai Hansen, iconico chitarrista degli Helloween: il duetto con Kürsch è emozionante e la canzone, come tutto l’album e l’intera musica dei 'Guardiani', ha la straordinaria capacità di portare il pathos ed il flavour campale a livelli straripanti, nonostante la non indifferente violenza ritmica con le quali queste frustate di power teutonico vengano sferrate. Ricorda Hansi Kursh: 'Tre o quattro pezzi sono veramente buoni, il resto forse un pò più debole: avremmo dovuto stare qualche mese in più in sala prove prima di realzizare questo disco. Soprattutto certe linee vocali o cori non sono eccezionali, ma con questo disco siamo arrivati in Giappone, come curiosità underground tedesca. Nessun tour, solo concerti singoli, soprattutto nei weekend, ma con una buona affluenza. Musicalmente eravamo già migliorati, ma avevamo tutti un lavoro e non potevamo concentrarci totalmente sulla band. C'era un feeling più pessimista nel gruppo, a causa di questo doppio impegno che ci gravava sulle spalle'. La letteratura fantasy e le atmosfere medievali iniziano a far capolino con sempre maggior frequenza, mentre il drumworking pressa con insistenza e le asce scalpellano riff ciclopici: in particolare, la sezione solista di Olbrich matura e si affina vistosamente, suonando da subito avvincente e ricercata. Tutte queste peculiarità trovano la consacrazione in Tales from the Twilight World del 1990, il disco che vale il riconoscimento internazionale e rappresenta la conclusione del primo mini ciclo di una carriera splendida. L’imponente Traveler in Time, ispirata al ciclo di Dune dell'americano Frank Herbert, così come To Tame a land degli Iron Maiden, è un’opener memorabile, sempre più imbevuta di melodia cavalleresca e acuminati fendenti rapidi; ma l’intera scaletta punta su autentiche mazzate ricche di potenza e musicalità, come l’irresistibile Welcome to Dying -un autentico classico del gruppo, una galoppata ultra-speed che si rifà al romanzo Folating Dragon di Peter Straub- e la fantastica e poderosa Goodbye My Friend, canzone epica e dirompente, incentrata sul capolavoro cinematografico Et di Spielberg. La prestazione vocale di Kürsch è ancora imperiosa e arricchisce con refrain trascinanti e gloriosi tutte le tracce in scaletta; le veementi stilettate di The Last Candle, Tommyknockers o della impetuosa Lost in a twilight Hall fanno scuotere costantemente la testa, mentre la strumentale Weird Dreams approfondisce la direzione medievaleggiante che nei dischi successivi sarà sempre più marcata. Le citazioni al Signore degli Anelli iniziano ad emozionare attraverso la toccante Lord of the Rings; il full length è un capolavoro di altissima qualità tecnica, che lancia la band nell’elite delle metal band più rispettate del globo e rappresenta un punto di partenza verso un nuovo ciclo stilistico. Nonostante la velocità e l’irruenza rimangano elementi centrali ed esplosivi, gli arrangiamenti si fanno sempre più curati; fattore che si accentuerà di li a poco, col passaggio dalla fallita No Remorse alla più celebre Virgin Records. Dai racconti del solito Hansi, mai parco di ricordi interessanti: 'tanto divertimento in studio, in misura maggiore sia rispetto a prima che a dopo; le nostre canzoni erano più sfrontate e fresche, la produzione non ottima ma i cori restano ugualmente potenti. per la prima volta abbiamo registrato ad Amburgo, città che offre tante possibilità di divertimento, a livello di feste e birra. Grande atmosfera in studio, abbiamo conosciuto tanta gente simpatica e divertente. Fu il nostro primo successo commerciale in Germania e Giappone, rimanemmo a lungo in classifica e finalmente potevamo vedere il nostro futuro come band professionista. Fortunatamente la nostra label é fallita e noi siamo approdati alla Virgin, cosa che ci ha dato grandi vantaggi in seguito. Arrivò anche il nostro primo tour vero e proprio, assieme agli Iced Earth, altra esperienza molto divertente. Abbiamo fatto un sacco di feste assieme, e per questo abbiamo anche dovuto cancellare qualche data'! Con l’inizio degli anni Novanta, la band aveva creato una sala prove in un antico bunker antibombe risalente alla II Guerra Mondiale, che veniva anche affittato ad altri gruppi; già da allora, Hansi si distingueva anche nel ruolo di manager, con tanto di ufficio nel bunker: fu costruita anche una sala di registrazione, ove venivano incisi i promo-tape, ed era presente un piccolo magazzino dove accumulare birre, CD e merchandising. Non mancava un mini bar, sede di chiarimenti durante e dopo le prove. La trasposizione metallica dell’opera degli antichi cantastorie era evidente già da un bel po’, all’interno dello stile imposto dai metallers di Krefeld, ma si stava per accentuare ulteriormente, lasciando emergere riferimenti ed analogie con la cultura dei Bardi, antichi poeti e cantori dei popoli celtici, inizialmente facenti parte di una casta sacerdotale e istruiti per rappresentare e conservare il sapere collettivo. Presso le popolazioni gaeliche e galliche, i Bardi assunsero la forma di poeti professionisti ingaggiati dai Signori locali per comporre loro degli elogi, mentre nel Romanticismo il termine “bardo” venne reintrodotto per indicare dei poeti lirici: in ogni caso, erano dunque personalità importanti, tutt’altro che giullari, figure troppo affascinanti e mistiche per non suscitare l’interesse dei cultori più sofisticati dell’heavy metal epico. Come gli antichi bardi viaggiavano di corte in corte, sperando nell’ospitalità di qualche signore o di qualche oste che offrisse loro un posto-letto in cambio di liete novelle raccontate attorno al focolare, così i Blind Guardian stavano da tempo portando alla cultura metallica qualcosa di intenso e poco comune, costituito da musica elevata e contenuti profondi, distanti dalla solita accozzaglia di rozzi cliché e piatti stereotipi, spesso e volentieri accostabili al frivolo binomio donne & motori, abusato oltre ogni soglia di normale sopportazione. Nulla di più distante dall'intrigante universo dipinto dai cinque tedeschi.
Se già nei precedenti dischi i Blind Guardian avevano reinterpretato il power metal con una potenza ed un’aura tutta personale e particolare, con Somewhere far Beyond (1992) danno al genere stesso uno scossone ancor più considerevole, prendendo una direzione unica, caratteristica, inconfondibile e forse irrevocabile. Le trame medievali ed i melodici arrangiamenti di derivazione neoclassica si fanno sempre più curati ed importanti nell’economia di un sound che resta epico, roccioso, prestante e veloce nei suoi assalti ultraspeed, ma che stratifica i propri orizzonti articolandosi in brani più complessi e variegati, nei quali la veemenza e la rapidità esecutiva acquistano maggior armonia, e si intersecano con più fluidità in trame non necessariamente sparate a ritmi forsennati. Aperta da un pregevole arpeggio acustico, Time What Is Time cresce in un imponente escalation di possenza, spiccando per i cambi di tempo repentini, le velocità comunque travolgenti, le linee vocali evocative ed irresistibili ed una sezione solista ammaliante; il binomio d’apertura è assolutamente mozzafiato, rafforzato dal devastante e maestoso riffato di Journey Through the Dark, altra scorribanda vertiginosa dal chorus irresistibile: con due pezzi del genere, il disco già tuona importanti pretese di leggenda, e mostra sontuosi riferimenti melodici dai tratti enfatici, sapientemente mescolati alla consueta dinamica tellurica dello speed-power teutonico, eccellente quando si scatena col piede schiacciato a tavoletta sul pedale dell’acceleratore. La produzione dei “Guardiani” poggia su una gamma di riff marziali assolutamente memorabili, una sequenza di intuizioni vigorose e roboanti, che ben si intessono su trame affascinanti e avvolgenti. La breve ballata Black Chamber ed il solenne mid-tempo Theater of Pain spezzano i ritmi serrati e introducono cospicue sonorità medievali, tanto che la sensazione è proprio quella di trovarsi nella secolare fortezza di qualche castellano, arroccata su una rupe e circondata dai boschi. La sensazione permane durante The Quest for Tanelorn e Ashes to Ashes, magistrali nell’abbinare chorus evocativi a nervose accelerazioni da headbanging, ricolme di adrenalina: la tensione esplode cospicua nell’arco di questi altri due pezzi eccellenti, nei quali le scorribande a briglia sciolta si confermano eccezionale trademark del combo europeo. Si giunge così ad un classico da pelle d’oca, The Bard’s Song- Into the Forest, nuovo inno della band nonché ballata acustica di straordinario coefficiente tecnico dedicata alle vestigia dei Bardi; l’atmosfera è sacrale e densa di emozioni, per un brano che dal vivo tocca nel profondo le corde più intime degli amanti di questa grande band. The Bard’s Song- The Hobbit riprende il tema -ed, in parte, alcuni frammenti melodici, oltre che un passaggio vocale- della precedente traccia, dotandole di arcigne chitarre elettriche e maggior carica musicale; la composizione scorre come un mid-tempo epico e ritmato fino ad una vigorosa e caratteristica accelerazione e si collega all’impareggiabile titletrack, Somewhere far Beyond, nella quale vengono condensati tutti gli elementi tipici del five pieces di Krefeld: si accelera, si rallenta, la melodia sgorga e si sublima attraverso assoli stupendi e chorus pregni di pathos. Uno stacco di cornamuse arricchisce la composizione e la rilancia verso un guitar solo avvincente e toccante, importante testimonianza del validissimo lavoro alle sei corde di Olbrich e Siepen: persino la bonus track Trial by Fire, con i suoi ritmi impellenti, i riff aitanti e l’assolo fulminante è talmente bella da poter eclissare da sola canzoni ben più celebrate di band meno dotate. Le parole di Kursh ravvivano la memoria: 'Grande lavoro di songwriting per questo disco, non più così spontaneo come in precedenza. Tecnicamente, Somewhere era motlo migliore dei dischi precedenti, anche a livello di complessità delle canzoni. E' il primo dei nostri album che ha un pò il carattere del concept, attraverso i bardi che concatenano i brani. Era un periodo difficile per me, mio padre stava per morire... Il disco ha riscosso un gran successo, ha aperto molte porte in europa per noi; seguì un altro tour con gli Iced Earth, in sale ancora più grandi, e la nostra prima visita in Giappone'. Il songwriting si fa maniacale e curatissimo anche nella stesura di testi di estrazione letteraria, esaltati dalla performance grandiosa del sempre ottimo Hansi Kürsch: Time What Is Time è ispirata al libro di Philip K. Dick Il Cacciatore di Androidi, The Quest for Tanelorn si rifà al libro di Michael Moorcock Elric di Melniboné, mentre The Bard’s Song: In the Forest e The Bard’s Song: The Hobbit sono ispirate al romanzo di J.R.R. Tolkien Il Signore degli Anelli, infine, Somewhere far Beyond si basa sulla serie di racconti de La Torre Nera di Stephen King. Questi rimandi letterari erano figli del comune interesse per le opere di grandi narratori fantasy, anche se i più accaniti divoratori di tali romanzi erano Hansi e Markus, determinati a creare qualcosa di nuovo che non sembrasse mai forzato. A tal proposito, Hansi Kursh una volta ha esposto un interessante parere: 'Questo tipo di testi é quello che meglio si adatta alla nostra musica, ne siamo tutti convinti, e poi crediamo di saperne qualcosa e di poter realizzare liriche che siano interessanti. Ogni gruppo sceglie di trattare certe tematiche, noi abbiamo deciso di cimentarci in questo campo; i testi li scrivo quasi esclusivamente io, anche se spesso mi arrivano idee ed inputs dagli altri del gruppo, che poi cerco di tradurre in un testo compiuto. Mi piace dare sfumature diverse alle storie che scrivo, ispirandomi ad una fonte 'classica' per poi costruire un'altra vicenda, che a volte non hanno nulla a che vedere col libro'. Grazie ad un’impennata qualitativa vertiginosa, il combo teutonico raccolse una notevole messe di consensi, raggiungendo un successo quasi insperato, soprattutto in Giappone: e proprio nel paese del Sol Levante fu registrato Tokyo Tales, un’impeccabile live-album registrato durante il tour dell’ultimo full length: la poderosa accoppiata Inquisition-Banish from Sanctuary lasciava spazio alle fresche stilettate di Journey Trough the Dark e Time What Is Time, ben amalgamate con vecchie scorribande quali Valhalla, Majesty, Welcome to Dying, Lost in the Twilight Hall o Goodbye My Friend, consegnando alle voraci frange di fans un prodotto di primo livello ed ottima resa sonora, una splendida istantanea della prima importante porzione di carriera di questi infallibili Bardi, apparentemente incapaci di errori. Una tesi che avrebbe trovato ulteriori conferme. Ricorda Hansi. 'In quel tour avevamo tantissima energia da liberare sul palco, ma la produzione di Kalle Trapp ci ha un pò limitato su quel disco live. Voleva modificare un pò troppo il nostro sound: troppi overdubs, troppe correzioni, il suono non é malissimo ma avrebbe potuto essere molto migliore, più diretto. Abbiamo preso la decisione di non lavorare più con Kalle e di cercare qualcun altro per il disco successivo'. Quel 'qualcuno', ricercato in sede di produzione, si chiamava Flemming Rasmussen, aveva firmato i più splendenti capolavori ottantiani dei colossi Metallica e avrebbe dato vita al suono meraviglioso del nuovo disco in studio dei Bardi.
Se già nei precedenti dischi i Blind Guardian avevano reinterpretato il power metal con una potenza ed un’aura tutta personale e particolare, con Somewhere far Beyond (1992) danno al genere stesso uno scossone ancor più considerevole, prendendo una direzione unica, caratteristica, inconfondibile e forse irrevocabile. Le trame medievali ed i melodici arrangiamenti di derivazione neoclassica si fanno sempre più curati ed importanti nell’economia di un sound che resta epico, roccioso, prestante e veloce nei suoi assalti ultraspeed, ma che stratifica i propri orizzonti articolandosi in brani più complessi e variegati, nei quali la veemenza e la rapidità esecutiva acquistano maggior armonia, e si intersecano con più fluidità in trame non necessariamente sparate a ritmi forsennati. Aperta da un pregevole arpeggio acustico, Time What Is Time cresce in un imponente escalation di possenza, spiccando per i cambi di tempo repentini, le velocità comunque travolgenti, le linee vocali evocative ed irresistibili ed una sezione solista ammaliante; il binomio d’apertura è assolutamente mozzafiato, rafforzato dal devastante e maestoso riffato di Journey Through the Dark, altra scorribanda vertiginosa dal chorus irresistibile: con due pezzi del genere, il disco già tuona importanti pretese di leggenda, e mostra sontuosi riferimenti melodici dai tratti enfatici, sapientemente mescolati alla consueta dinamica tellurica dello speed-power teutonico, eccellente quando si scatena col piede schiacciato a tavoletta sul pedale dell’acceleratore. La produzione dei “Guardiani” poggia su una gamma di riff marziali assolutamente memorabili, una sequenza di intuizioni vigorose e roboanti, che ben si intessono su trame affascinanti e avvolgenti. La breve ballata Black Chamber ed il solenne mid-tempo Theater of Pain spezzano i ritmi serrati e introducono cospicue sonorità medievali, tanto che la sensazione è proprio quella di trovarsi nella secolare fortezza di qualche castellano, arroccata su una rupe e circondata dai boschi. La sensazione permane durante The Quest for Tanelorn e Ashes to Ashes, magistrali nell’abbinare chorus evocativi a nervose accelerazioni da headbanging, ricolme di adrenalina: la tensione esplode cospicua nell’arco di questi altri due pezzi eccellenti, nei quali le scorribande a briglia sciolta si confermano eccezionale trademark del combo europeo. Si giunge così ad un classico da pelle d’oca, The Bard’s Song- Into the Forest, nuovo inno della band nonché ballata acustica di straordinario coefficiente tecnico dedicata alle vestigia dei Bardi; l’atmosfera è sacrale e densa di emozioni, per un brano che dal vivo tocca nel profondo le corde più intime degli amanti di questa grande band. The Bard’s Song- The Hobbit riprende il tema -ed, in parte, alcuni frammenti melodici, oltre che un passaggio vocale- della precedente traccia, dotandole di arcigne chitarre elettriche e maggior carica musicale; la composizione scorre come un mid-tempo epico e ritmato fino ad una vigorosa e caratteristica accelerazione e si collega all’impareggiabile titletrack, Somewhere far Beyond, nella quale vengono condensati tutti gli elementi tipici del five pieces di Krefeld: si accelera, si rallenta, la melodia sgorga e si sublima attraverso assoli stupendi e chorus pregni di pathos. Uno stacco di cornamuse arricchisce la composizione e la rilancia verso un guitar solo avvincente e toccante, importante testimonianza del validissimo lavoro alle sei corde di Olbrich e Siepen: persino la bonus track Trial by Fire, con i suoi ritmi impellenti, i riff aitanti e l’assolo fulminante è talmente bella da poter eclissare da sola canzoni ben più celebrate di band meno dotate. Le parole di Kursh ravvivano la memoria: 'Grande lavoro di songwriting per questo disco, non più così spontaneo come in precedenza. Tecnicamente, Somewhere era motlo migliore dei dischi precedenti, anche a livello di complessità delle canzoni. E' il primo dei nostri album che ha un pò il carattere del concept, attraverso i bardi che concatenano i brani. Era un periodo difficile per me, mio padre stava per morire... Il disco ha riscosso un gran successo, ha aperto molte porte in europa per noi; seguì un altro tour con gli Iced Earth, in sale ancora più grandi, e la nostra prima visita in Giappone'. Il songwriting si fa maniacale e curatissimo anche nella stesura di testi di estrazione letteraria, esaltati dalla performance grandiosa del sempre ottimo Hansi Kürsch: Time What Is Time è ispirata al libro di Philip K. Dick Il Cacciatore di Androidi, The Quest for Tanelorn si rifà al libro di Michael Moorcock Elric di Melniboné, mentre The Bard’s Song: In the Forest e The Bard’s Song: The Hobbit sono ispirate al romanzo di J.R.R. Tolkien Il Signore degli Anelli, infine, Somewhere far Beyond si basa sulla serie di racconti de La Torre Nera di Stephen King. Questi rimandi letterari erano figli del comune interesse per le opere di grandi narratori fantasy, anche se i più accaniti divoratori di tali romanzi erano Hansi e Markus, determinati a creare qualcosa di nuovo che non sembrasse mai forzato. A tal proposito, Hansi Kursh una volta ha esposto un interessante parere: 'Questo tipo di testi é quello che meglio si adatta alla nostra musica, ne siamo tutti convinti, e poi crediamo di saperne qualcosa e di poter realizzare liriche che siano interessanti. Ogni gruppo sceglie di trattare certe tematiche, noi abbiamo deciso di cimentarci in questo campo; i testi li scrivo quasi esclusivamente io, anche se spesso mi arrivano idee ed inputs dagli altri del gruppo, che poi cerco di tradurre in un testo compiuto. Mi piace dare sfumature diverse alle storie che scrivo, ispirandomi ad una fonte 'classica' per poi costruire un'altra vicenda, che a volte non hanno nulla a che vedere col libro'. Grazie ad un’impennata qualitativa vertiginosa, il combo teutonico raccolse una notevole messe di consensi, raggiungendo un successo quasi insperato, soprattutto in Giappone: e proprio nel paese del Sol Levante fu registrato Tokyo Tales, un’impeccabile live-album registrato durante il tour dell’ultimo full length: la poderosa accoppiata Inquisition-Banish from Sanctuary lasciava spazio alle fresche stilettate di Journey Trough the Dark e Time What Is Time, ben amalgamate con vecchie scorribande quali Valhalla, Majesty, Welcome to Dying, Lost in the Twilight Hall o Goodbye My Friend, consegnando alle voraci frange di fans un prodotto di primo livello ed ottima resa sonora, una splendida istantanea della prima importante porzione di carriera di questi infallibili Bardi, apparentemente incapaci di errori. Una tesi che avrebbe trovato ulteriori conferme. Ricorda Hansi. 'In quel tour avevamo tantissima energia da liberare sul palco, ma la produzione di Kalle Trapp ci ha un pò limitato su quel disco live. Voleva modificare un pò troppo il nostro sound: troppi overdubs, troppe correzioni, il suono non é malissimo ma avrebbe potuto essere molto migliore, più diretto. Abbiamo preso la decisione di non lavorare più con Kalle e di cercare qualcun altro per il disco successivo'. Quel 'qualcuno', ricercato in sede di produzione, si chiamava Flemming Rasmussen, aveva firmato i più splendenti capolavori ottantiani dei colossi Metallica e avrebbe dato vita al suono meraviglioso del nuovo disco in studio dei Bardi.
Sembrava avessero toccato il cielo, i Blind Guardian, eppure il meglio doveva ancora arrivare: superando anche se stessi, nel 1995 rilasciarono il cattedratico Imaginations from the Other Side, cupo, pesante, ridondante. Devastante e melodico, ancora più che in passato: un capolavoro di tecnica, ulteriormente accentuato nella sua perfetta sincronia tra dirompenti assalti rapidi ed armonie medievali, aggrappato liricamente ad un universo letterario fantastico che si pone come allegoria della vita: la lotta incessante tra il bene e il male, la voglia di fuga ed il sogno di un abbandono ad un mondo surreale ed utopistico. La coppia Olbrich-Siepen intesse una nuova messe di riff statuari e colossali, capaci di ritagliarsi da subito un posto rilevante nella storia dell’intero panorama heavy metal: nulla è lasciato al caso, le trame si fanno sempre più articolate e ricche di poliritmie, ed anche se la velocità resta centrale ed elevatissima è possibile godere di un campionario di soluzioni, ambientazioni, armonie e dinamiche assolutamente sterminato. Il disco era nato attraverso un processo lungo e travagliato: durante le registrazioni, infatti, Hansi fu colpito da alcuni problemi di salute, e Siepen si infortunò ad una mano, venendo successivamente operato; si pensava addirittura che dovesse appendere lo strumento al chiodo. L’atmosfera era tesa e silenziosa, senza scherzi né risate, la situazione sembrava dover precipitare da un giorno all’altro, ma i ragazzi tennero duro e alla fine ne uscirono più forti del fato, più forti di tutto, producendo l’album migliore della loro discografia, quello che la critica unanime tende a considerare l’apice di una ricchissima parabola evolutiva. L’immensa titletrack mette subito le cose in chiaro, con un drumworking asciutto, tellurico, ed atmosfere intimidatorie, guidate dal vocalsim ieratico di Kürsch, alle prese con i soliti chorus pomposi e drammatici; le accelerazioni da capogiro ed un assolo convulsivo dai tratti spettacolari, gli stop con ripartenza e i continui cambi di atmosfera confezionano un brano ineguagliabile, che lascia subito il solco. Si corre a perdifiato e si scuote la testa senza sosta attraverso le galoppate sferzanti ed i riff magistrali di I’m Alive e The Script for My Requiem, episodi monumentali, altrettanto dotati di un riffery imperioso, chorus marziali, rallentamenti e sfumature emozionanti. Sembra difficile comprendere come si possa concentrare in singole canzoni così tante sfaccettature di derivazione epica, medievale, celebrando al contempo i tratti solenni di un sound ineguagliabile e le possenti accelerazioni speed metal necessarie a scatenare il fermento degli headbangers più fervidi; eppure i Bardi di Krefeld ci riescono superbamente, arricchendo la loro opera con episodi intrisi di magia e gloria campale come Mordred’s Song o Bright Eyes (pur dotata di una repentina accelerazione finale), oltre che con un’intensissima ballata dai tratti regali come A Past and Future Secret, che sembra celebrare l’avanzata compunta di un sovrano a cavallo, scandita dallo squillo di trombe ed accompagnata dagli sguardi timorosi dei popolani verso l’accesso al ponte levatoio. Il disco poggia su un sound definito e nitido nei suoni, quadrato e prestante, arroccato attorno al martellante lavoro di Thomas Stauch dietro le pelli; al resto pensano le rocciose chitarre, gagliarde e nerborute in fiondate ritmiche come Born in a Mourning Hall, erculea contrapposizione tra serrate da delirio e refrain che avrebbero potuto risuonare attorno ad un focolare in qualche corte dell’anno Mille, o Another Holy War, uno dei capitoli più avvincenti e convincenti dell’intera discografia dell’act tedesco: una dirompente sfuriata di speed-metal irresistibile, nel riffato quanto nei cori, un brano terremotante e maestoso, incentrato sulla vita di Gesù Cristo. La ricchezza melodica e la striatura armonica che si coglie in coincidenza con la sezione solista è degno contraltare di trame esplosive e riff efficaci, scoccati come frecce dall’arco dei due prodi chitarristi, una costante che si fa sentire in tutto l’album, un masterpiece completato dalla evocativa And the Story Ends, uno spettro di melodie, ritmiche ed ambientazioni talmente consistente da suonare commovente. Il disco rasenta la perfezione.
Non è un caso: praticamente tutte le composizioni di questo full length, così come quelle del precedente, sono mini-opere d’arte, nelle quali gli arrangiamenti sono sofisticati e variegati; il duello costante tra melodie acustiche e sciabolate elettriche raggiunge livelli stellari, articolandosi in trame complesse, assoli squisiti e riff indimenticabili, pesanti come macigni. Parola di Hansi Kursh: 'Fu il disco più difficile a livello di songwrinting, avevamo tante idee ma non volevamo fare un disco troppo simile a Somewhere; allora abbiamo provato e riprovato cercando soluzioni nuove. Ci abbiamo messo sei messi a comporre la titletrack, e ci siamo resi conto che avremmo dovuto andare più veloci con gli altri pezzi. per un mese poi non siamo riusciti a scrivere nulla, e la cosa ci ha reso abbastanza insicuri. per fortuna con gli altri brani siamo riusciti ad andare più spediti. Il periodo in studio é stato molto lungo e continuamente interrotto da problemi familiari e malattie, alla fine é andato tutto il meglio ma é stato davvero stressante'. La sensazione è quella di trovarsi a cavallo, fasciati da lucenti corazze, lanciati al galoppo, a folle velocità: le chitarre sembrano attaccare contemporaneamente da tutte le direzioni, piovendo come dardi avvelenati da un cielo solcato dai falchi. E mentre l’avanzata incalza, all’interno di verdeggianti foreste, ci si avvicina ad un poderoso castello, alternandosi costantemente tra potenza e melodia: modulare la velocità e dare un break agli assalti frontali significa portare l’ascoltatore ora in mezzo a feroci ed eroiche battaglie cavalleresche, scandite dall’incrocio di spadoni e giavellotti, ed ora tra tranquilli villaggi ai piedi di minacciosi manieri, borghi contadini nel quale assistere agli avventurosi racconti dei cantastorie. Ritornando sull'argomento testi, in un'intervista del 1995 fu fatto notare ad Hansen che Chris Boltendahl, leader dei Grave Digger, considerava le tematiche fantasy quasi forzate ed obbligate per una metal bands, perché quei temi sono gli unici desiderati dai 'kids'; la risposta di Hansi fu pronta e stentorea: 'Non sono d'accordo per niente, dipende solo dal tipo di testi che si scrivono; prendi per esempio i Metallica, loro non hanno testi fantasy ma presentano ugualmente liriche stupende, e sono convinto che i loro fans diano giusta importanza anche ai testi, non solo alla musica. Anche i testi dei Grave Digger, per quanto ne so, non sono esclusivamente fantasy; se i testi delll'heavy metal dovessero essere solo fantasy, penso che mi metterei a cercare di proporre qualcosa di diverso, perché non mi piacciono i clichè e penso che ogni genere di testo, se ben concepito, possa essere adatto ad un pezzo metal. Il problema, semmai, é essere ing rado di trattare in maniera esauriente un tema 'serio' all'interno di una canzone, cosa che non é affatto facile. Comunque, vorrei sottolineare la differenza tra il nostro approccio ai testi, che può senz'altro essere definito fantasy, e quello di bands come Grave Digger e Running Wild; se io fossi in loro forse crcherei di sperimentare qualcosa di nuovo, mentre noi abbiamo ancora un sacco di storie interessanti da raccontare. Ogni tipo di testo può funzionare, anche i Dream Theater ad esempio non toccano per niente la fantasy eppure hanno dei testi decisamente intriganti, li trovo anche migliori della loro musica'! Gli anni successivi porteranno i prodi bardi su territori più sperimentali, e così Imaginations from the Other Side resta il più fiero suggello ad una prima parte di carriera irripetibile.
1988 BATTALIONS OF FEAR 1989 FOLLOW THE BLIND 1990 TALES FROM THE TWILIGHT WORLD 1992 SOMEWHERE FAR BEYOND 1995 IMAGINATIONS FROM THE OTHER SIDES 1998 NIGHTFALL IN MIDDLE EARTH 2002 A NIGHT AT THE OPERA 2006 A TWIST IN THE MYTH 2010 AT THE EDGE OF TIME
DISCOGRAFIA COMMENTATA
Battalions Of Fear [1988]: Debutto grezzo e potentissimo per i Guardiani tedeschi, autori di un power metal massiccio dalla ritmica quasi thrash chiaramente ispirato alle sonorità dei connazionali Helloween. Follow The Blind [1989]: Con una maturità artistica più elevata, i giovani tedeschi tornano sul mercato con un altro massiccio esempio di power metal veloce e possente, ma più ricercato nella melodia e nelle liriche fantasy. Tales From The Twilight World [1990]: Completa la prima parte di carriera dei Blind Guardian accentuando ulteriormente la melodia chitarristica al fianco delle prepotenti trame power-speed ereditate dagli Helloween e più enfatizzate in compattezza ed epicità. Somewhere Far Beyond [1992]: Il disco della svolta: la ricercatezza tecnica e stilistica si fa sempre più fine, orientata verso marcate melodie medievaleggianti per una serie di composizioni potenti ed evocatorie che hanno ormai intrapreso uno stile ben definito. Imaginations From The Other Sides [1995]: Il capolavoro definitivo dei Blind Guardian: ormai il sound epico, ultra melodico e potentissimo è un marchio di fabbrica, e i Nostri utilizzano al meglio le intricate trame di chitarra per dare alla luce canzoni memorabili intrise di leggenda ed enfasi. Drum quadrato e martellante, velocità sonica e dinamicità perenne, tridimensionalità dei suoni, riffoni tonanti ed atmosfere incantate che suggellano la gemma più splendente della raffinata produzione dei Guardians. Nightfall In Middle Earth [1998]: La seconda traide di gioielli si conclude con un disco dal maggior sapore sinfonico, che acquisisce una vena melodica superlativa grazie alle meravigliose trame di chitarra. Riff e potenza non vengono esclusi, ma rivestono un ruolo meno roboante in un disco raffinatissimo che va ad esplorare con grande emotività l'enorme perizia tecnica del combo centro europeo. A Night At The Opera [2002]: I Guardians procedono sulla strada stilistica della ricerca sinfonica, con un risultato piacevole ma meno energico ed esplosivo. A Twist In The Myth [2006]: Parziale tentativo di recuperare la vecchia potenza senza perdere le introduzioni melodiche e sionfoniche, ma con risultati non troppo originali e memorabili. At The Edge Of Time [2010]: nonostante l'annunciato ritorno a sonorità più violente, il disco mixa la potenza di 'Twist' alle orchestrazioni di 'Nightfall', cogliendo dunque il meglio dell'ultima porzione di carriera dei Guardian. PHOTO ALBUM.
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