CAPITOLO PRIMO: DAGLI ESORDI AGLI ANNI '90
Iron Maiden. Un nome che fa tremare i polsi, un'icona conosciuta e rispettata dentro e fuori gli orizzonti dell'hard'n'heavy: gli Iron Maiden sono spesso accostati all'heavy metal come incarnazione stessa del genere, e anche se ciò è dovuto al pressapochismo di chi ignora l'esistenza di centinaia di altre band, non bisogna sottovalutare questa semplice equazione. Bisogna essere fieri del prestigio che gli Iron Maiden rivestono praticamente in ogni angolo del globo: le t-shirt di Eddie e gli album che hanno dettato la storia di un genere hanno reso possibile il ruolo di band metal per antonomasia, ancor più di chi il genere lo ha plasmato o di chi lo ha portato a conseguenze sonore estreme. La melodia eccitante e i volti rassicuranti di Bruce Dickinson, Steve Harris e compagni sono oggi la sintesi perfetta dello spettacolo heavy metal, ed è affascinante pensare alla Vergine di Ferro come fenomeno di punta dell'intero filone ai tempi delle sue origini, quando il nome Iron Maiden suscitava sussulti di rispetto e ammirazione nei cuori degli headbangers. E' tuttora un mistero come una band heavy metal abbia saputo raggiungere una simile popolarità, forte di stima e rispetto indiscutibibili tra le leggende immortali della musica. Tutto inizia nell'Inghilterra di fine anni settanta, quando il fenomeno punk pareva aver fatto le scarpe all'heavy metal reso grande da Black Sabbath e Judas Priest. Poi, arrivarono loro. Rifiutarono di suonare punk e abbassare la testa, i Maiden: adolescenti ma già con le idee chiare, che attraverso potenti riff, assoli melodici ed un heavy metal fresco ed energico ammutolirono i detrattori e riportarono in auge il proprio genere, andando a comporre un patrimonio musicale che resta di primario valore ancora oggi. L'escalation fu irreversibile, la mascotte Eddie divenne un mito e dopo i primi due album iniziò una galoppata fantastica verso la storia: pagine monumentali di musica bella e potente, intrisa di melodia e tecnica sublime. L'enorme merito degli Iron Maiden è quello di aver afferrato l'heavy metal per mano ed averlo riportato a livelli stellari, impregnandolo di una dinamicità musicale e attitudinale nuova e sferzante, capace di ammodernare il già luminoso sentiero tracciato dai Judas Priest. Un'eredità non da poco. Gli Iron Maiden nascono a Londra nel 1975, fondati dal bassista Steve Harris, che per il nome prese spunto dal film 'La maschera di ferro', in cui compare un attrezzo di tortura chiamato appunto vergine di ferro. Inizialmente alla voce c'è Paul Day, ma prima del debutto discografico l'act cambia diverse formazioni; pur influenzati dal punk, i ragazzi di Steve Harris suonavano già un heavy forte e tecnico, trovando dunque fatica a emergere in un panorama sommerso dal fenomeno punk. Gli Iron Maiden colsero l'occasione della vita quando iniziarono ad esibirsi al Ruskin Arms, uno dei pochi locali dove si suonava heavy metal. Qui fece una delle sue prime apparizioni Eddie, il mostro che sarebbe diventato la mascotte della band: una testa di zombie inizialmente dipinta che in seguito troverà forma in giganteschi e pittoreschi pupazzoni. Con gli anni, alla voce arrivò Paul di Anno, e la band compose un primo demo e canzoni come 'Prowler', 'Sanctuary' e 'Iron Maiden'. Questo demo, intitolato 'The Soundhouse Tape', destò enorme successo nell'unica discoteca metal di Londra, il Soundhouse appunto: gli headbangers locali chiedevano frequentemente la riproposizione di quel nastro scoppiettante, e l'attenzione dei discografici si spostò di colpo su quei cinque ragazzi.
Messi sotto contratto dalla EMI, i giovani metallers si chiudono in studio per rifinire le proprie canzoni e completarle con nuove tracce. Nel 1980 esce finalmente il primo lavoro della Vergine di Ferro, intitolato proprio 'Iron Maiden', che riscuote subito buon successo. L'artwork di copertina, curato da Derek Riggs, raffigurava un primo piano sulla faccia orripilante di Eddie, ancora grezzo e graficamente da affinare, sullo sfondo di una Londra notturna e malfamata. Era coloratissima e destò subito attenzioni e pareri entusiastici [o shockati, a seconda dei casi], aprendo a sua volta una nuova era, che rivoluzionava il modo di disegnare le copertine, i loghi, i booklet. L'album è caratterizzato da un suono molto grezzo e fresco, soprattutto nei timbri utilizzati dalle chitarre. Benché il disco abbia tutte le limitazioni e le logiche inesperienze di un album di esordio, rappresenta comunque un'importante tappa della nascente new wave of british heavy metal. Le sue melodie rocciose e i riff mozzafiato sono da pelle d'oca, e rendono alla grande l'idea di quello che i Maiden erano all'epoca: portatori di un heavy metal esplosivo, vivace, robusto ma con quella spruzzata di punk che lo rendeva ancora più tosto, veloce, innovativoì, nonostante l'ancora palese influenza di matrice hardrock. Di fianco a pezzi energici, diretti e dal riff memorabile come l'opener track Prowler e la conclusiva Iron Maiden, autentico inno della band, figurava un brano intricato, lunghissimo ed eclettico come 'Phantom of the Opera'. Il tutto era arricchito dalle esaltanti Sanctuary e Charlotte The Harlot, dure e intrise di un vivace spirito punk rock laccato di metal. Presenti anche due ballad dolcissime, per non farsi mancare nulla: 'Remember Tomorrow', dotata però di crescendo finale roboante, e 'Strange World', più struggente ed onirica. Il responso fu strepitoso, e lo stesso Paul Di Anno ne conserva un giudizio entusiasta: 'E' stato il miglior disco che abbia mai fatto con i Maiden, senza dubbio. Personalmente non penso che il secondo album abbia rappresentato un miglioramento: la gente va avanti a parlare della produzione, ma io nemmeno me ne accorgo. Tutto ciò che senti é la band che suona, io che canto e quanto sono grandiosi i pezzi. Sono convinto che la vena punk degli Iron Maiden in quel disco fosse al top: le canzoni erano grezze, ruvide, violente, e amo esaltarne questo aspetto. Eravamo completamente diversi da tutto il resto, il nostro primo album lo confermava. I nostri fans, allora come oggi, avevano un'attitudine diversa da tutti gli altri, ci seguivano ovunque. Era un maledetto disco punk metal'. Nei loro primi tour gli Iron Maiden già entusiasmavano le folle: viaggiarono a lungo, accompagnando Judas Priest e Kiss e facendosi presto conoscere ovunque, grazie alla voce sporca e l'attitudine grezza del singer Paul Di Anno. Di Anno era un ribelle dalla forte personalità, la voce ideale per gli Iron Maiden dell'epoca; tuttavia a volte esagerava con le sue follie, soprattutto alcooliche, e ciò portò in seno al gruppo qualche frizione. Tra altri mutamenti di formazione, si arrivò nel 1981 alla pubblicazione di 'Killers', di ancor miglior fatturato tecnico e produttivo. Nonostante la presenza di qualche brano non trascendentale, il disco viaggia spedito trainato dalla travolgente titletrack, dal riffery affilato, e dalla potente 'Wratchild'; si muove sontuoso nell ricche strumentali 'Ides of March' e 'Gengis Khan', gode di diversi grandi momenti di rock metal arrembante ['Murders In The Rue Morgue'] e di qualche spunto più melodico e inconsueto, come Prodigal Son. La copertina era ancora ambientata nelle strade londinesi, ed ancora una volta veniva disegnata da Riggs: sotto il chiarore della luna, un Eddie finalmente definito e a figura intera si rendeva artefice di un omicidio, armato di accetta e ormai carnefice di un qualche borghese, del quale si scorgono solo le mani, aggrappate alla maglietta dello zombie. I polsini di camicia che si scorgono lasciano pensare ad un classico esponente della società-bene, che dunque veniva assassinato, in metafora, dall'avanzare della comunità metallica. In quel periodo gli Iron Maiden andarono però incontro a crescenti dissidi con Di Anno: Harris lo accusò di rovinare la propria voce e la propria vita con l'abuso di alcool, droghe e fumo, e dopo vari scontri lo licenziò.

Gli Iron Maiden si mossero alla ricerca del nuovo vocalist, e la scelta fu fatta assistendo alla strepitosa esibizione concessa dal cantante dei Samson, Bruce Dickinson. Una autentica furia sul palco: elettrico, spettacolare, dotato di una forza vocale pazzesca. Dickinson entrò negli Iron Maiden e presto il gruppo pubblicò 'The Number Of The Beast', disco caratterizzato da nuovi elementi sonori orientati al power metal: un sound più ricco e vario, impreziosito dalla grande tecnica vocale di Bruce e da architetture tecniche sempre più complesse ed avvolgenti. È un lavoro dal sound potente e più ricercato rispetto ai precedenti album, che esibisce la creatività di Steve Harris e di tutta la band: trame strutturali intricate, potenti assalti veloci ed ultra melodiche sezioni strumentali che si divincolano tra riff maestosi e refrain travolgenti vengono sublimati da una coordinazione esecutiva tra i musicisti del tutto sorprendente, oltre che da una grande intesa col nuovo cantante: Dickinson mostra in tutte le tracce la pienezza e la costanza della sua voce invidiabile. Al suo fianco, le chitarre dominano la scena con la consueta carica adrenalinica, producendosi in riff poderosi e irresistibili assalti rapidi ma guadagnando parecchio in fatto di epicità e maestosità: le melodie, fluide e sofisticate, creano intelaiature importanti ed intimidatorie, mescolando ad arte melodia, aggressività ed atmosfera. Uno dei più grandi album della storia del metal, costituito da una sequela di pezzi memorabili: ne è un chiaro esempio la titletrack, col suo riff leggendario ed il suo incedere ora misterioso e poi di colpo travolgente, innervato dalla prestazione straordinaria del singer, da trame chitarristiche avvincenti e da uno degli innumerevoli assoli cristallini della coppia d'asce composta da Smith e Murray. A fare rumore è la ripetizione nel ritornello del presunto numero della Bestia: anche se il brano non fa che parlare di un incubo fatto da Steve Harris, quel presunto riferimento satanico muove la schiera protestante dei perbenisti e dei bigotti moralizzatori cattolici, come ricorda Steve Harris: 'Non abbiamo mai composto canzoni romantiche. Tutti scrivono di quanto amano la propria 'piccola', e tutta quella roba lì. Scrivono di quanto sia dura la vita on the road, ed è vero, di quanto si sentano soli, che può essere vero allo stesso modo; a loro manca il loro amore, con cui vorrebbero tanto stare, e tutto il resto. Ma trovo queste cose piuttosto noiose. Non penso di non possedere in me un pò di romanticismo, ma semplicemente non mi interessa scrivere di queste cose. A differenza di altre band, a noi non interessa neanche focalizzare i versi del gruppo sulle esperienze personali. Un'altra tematica su cui molti scrivono é l'essere macho e conquistare molte ragazze, ma tutto quello che i Maiden hanno scritto su questo genere di cose è Charlotte the Harlot ed Acacia Avenue, che sono pezzi molto diretti. E' un modo per dire alle altre band che siamo in grado di andare oltre quelle cose. Ed é piuttosto divertente! In molti dei nostri brani c'é un umorismo che spesso non viene colto, o viene mal interpretato. Questo é vero sopratutto in The Number of The Beast, che ha un soggetto che molti fautori della persuasione biblica hanno preso troppo seriamente. Abbiamo incontrato dei maniaci o dei fanatici religiosi, nell'America del Sud qualche idiota urlava 'brucia all'inferno, brucia all'inferno' mentre la band scendeva dal palco. Se solo si fossero soffermati sui testi del disco, avrebbero avuto ben pochi motivi per accusare la band. E' stato pazzesco! Ovviamente nessuno li aveva letti. Ancora oggi scoppiamo a ridere quando ci accusano di satanismo'. L'effetto ottenuto dai censori, infatti, fu proprio l'opposto di quello voluto, perchè il clamore destato da quel ritornello blasfemo non fece che accrescere il fascino degli Iron Maiden e l'aurea maligna che l'heavy metal in generale vantava presso i suoi detrattori, nonostante il brano deridesse i rituali satanici invece di appoggiarli. La stessa copertina raffigurava un diavolo che, tra le fiamme dell'inferno, muoveva i fili della nostra società, ma era a sua volta 'mosso' da un Eddie gigantesco, come a voler affermare che il metal é più forte di tutto, anche del male. Altro pezzo colossale del platter è la prolungata e marziale 'Hallowed Be Thy Name', potentissima e solenne, ancora impreziosita de evoluzioni tecniche e melodiche da capogiro, rallentamenti e accelerazioni, stacchi maestosi, una sezione strumentale intricata di rara bellezza e linee vocali mozzafiato; per molti, la canzone migliore dell'intera discografia della band, amatissima anche dagli stessi esponenti del gruppo, come conferma Bruce Dickinson: 'L'atmosfera, le vibrazioni, il pubblico, ogni cosa é fantastica. Ha una profondità tale da dar vita ad un piccolo film nella testa, e tu ti ritrovi semplicemente a narrarlo al pubblico'. Su questo pezzo, scrivono Marco Gamba e Cristiano Canali, autori dell'enciclopedia 'Iron Maiden dalla a alla z' pubblicata dalla Giunti nel 2011: 'Ogni istante di Hallowed Be Thy Name racchiude in sè il talento e la straordinaria capacità creativa di Harris e della sua band, in un tripudio di riff di chitarra, armonizzazioni, fraseggi, cori e assoli che, insieme, hanno fatto epoca e continuano ad emozionare ad ogni concerto'. La scaletta è ricca di canzoni assolutamente perfette, ricche di intuizioni melodiche pulite ed irripetibili, come 'Acacia Avenue', seguito lirico e tematico della vecchia 'Charlotte The Harlot', oppure 'The Prisoner', entrambi pezzi caratterizzati da fantastici guitar solos. Steve Harris e Clive Burr reggono una sezione ritmica mai banale e sempre perfetta, mentre le chitarre di Adrian Smith e Dave Murray si rendono autrici di pura energia che cola piacevole sulle teste degli headbangers in delirio. Tra le hit assolute spicca un inno come 'Run To The Hills', ancora oggi uno dei pezzi più amati dai fans, con l'ennesimo assolo da brividi e le incalzanti parti vocali: un classico basilare in ogni live set.

I Maiden hanno fatto il botto: le lauree in storia e letteratura di Dickinson permettono al combo inglese di spostare l'obbiettivo su tematiche interessanti e assolutamente colte, riferite ad avvenimenti storici, poemi, romanzi e celebri monumenti letterari. Racconta Rob Halford, leader dei Judas Priest: 'Dopo la nwobhm, quel disco dimostrò veramente che gli Iron Maiden erano diventati una potenza mondiale, globale. Il titolo è magnifico, e mostra un altro lato del metal che stava uscendo dal Regno unito. E’ importantissimo per definire il movimento britannico dell’epoca. Ci sono delle risorse importanti nel metal, come in tanta parte della musica, e questa era abbastanza importante’. E' con questo disco che gli Iron Maiden si fanno definitivamente alfieri e portabandiera delle milizie dell'heavy metal. Un album del valore tecnico di 'The Number Of The Beast' mette ulteriormente in primo piano la maestria degli Iron Maiden nell'arrangiare emozionanti fraseggi di chitarra assieme alle vocals teatrali; i due chitarristi attaccano a briglie sciolte, martellando con sezioni intricate sulle quali inserire dei complementi armonici ed una raffica di complessi giri melodici. Le veloci progressioni di chitarra all'unisono diventano l'inconfondibile tratto distintivo della band, raddoppiati dalla potente sezione ritmica guidata dall'eccezionale basso di Steve Harris. I concerti degli Iron Maiden erano spettacoli pirotecnici travolgenti, vortici di luci, colori e suoni, fuochi e scenografie grandiose. A catalizzare l'attenzione ci pensava quel campione del palco di Bruce Dickinson, maestro nel brillare come un gigante, saltando e correndo a più non posso su complessi di scale e passerelle. Bruce coinvolge il pubblico, sa elettrizzarlo solo con un gesto. I testi erano sempre più maturi ed influenti nello spettro sonoro della band, come spiega Steve Harris: 'Ho sempre amato leggere, e appena ho un momento libero prendo in mano un libro. Tra i libri che ho letto e i film che ho visto ci sono anche le ispirazioni per alcuni dei brani degli Iron Maiden; Murders In The Rue Morgue, Phantom Of The Opera, Children Of The Damned provengono da pellicole, mentre Invaders è ispirata all'invasione dell'Inghilterra vista con gli occhi di un sassone. Hallowed Be Thy Name é ispirata ad un prigioniero che attende l'esecuzione, attanagliato dai dubbi sulla morte. L'album contiene dei pezzi che si rifanno a vari temi. Run To The Hills, per esempio, parla degli indiani d'America: la prima metà è scritta dal loro punto di vista, la seconda da quello dei soldati degli Stati Uniti. Volevo provare a ricreare l'idea dei cavalli al galoppo. Quando la suonate, state attenti a non farvela sfuggire di mano'! Tra un tour e l'altro, senza nemmeno preoccuparsi delle ridicole accuse di satanismo giunte dai soliti perbenisti, i Maiden si presero un periodo di pausa meritata alle Bahamas, nel quale ricaricare le pile e porre le basi per una pagina tutta nuova.
In questo periodo furono gettate le fondamenta di 'Piece Of Mind', pubblicato nel 1983 e caratterizzato da un sound meno massiccio e con brani più melodici e complessi, bagnati da una certa influenza progressive-rock; l'Eddie di copertina veniva questa volta sbattuto in un manicomio e sottoposto a camicia di forza. Il batterista Clive Burr viene sostituito dall'istrionico Nicko McBrain, che diverrà in breve il drummer per eccellenza dell'act britannico. Laureato in storia e letteratura, Bruce Dickinson componeva brani colti e di matrice storica, come ad esempio 'Flight Of The Icarus', brillando dunque anche in fase di produzione oltre che in studio e nei soliti, giganteschi, concerti. L'album ebbe molto successo, e la trascinante 'The Trooper' entrò presto nella top gallery della band. Ricordava ancora Harris: 'Quando ripenso ai brani dei nostri vecchi album, spesso mi viene in mente come sarebbe possibile migliorarli; questo però non mi capita con i brani di Piece Of Mind. Era il primo album con McBrain e per qualche motivo ci sentivamo in un momento positivo, e questo penso si percepisca nel disco'. L'anno seguente la band ribadì il suo stato di grazia con l'ancor più memorabile 'Powerslave', un ritorno a suoni più duri e con la stessa attenzione storica che Dickinson mantenne nella composizione. il disco era incentrato su tematiche e liriche storiche, con chiari riferimenti all'Antico Egitto, tangibili fin dalla succulenta copertina: una statua di Eddie troneggiava tra due sfingi e due statue di Anubi, in un enorme tempio egizio costruito ai piedi di una piramide. Geroglifici, colori a forti tinte pastello, sarcofagi, templi e piramidi arricchivano il bellissimo disegno di Derek Riggs, al quale si ispirerà anche la scenografia live. Il trio d'asce composto da Smith, Murray ed Harris conferiva una dimensione stratificata al suono già vario ed esplosivo del five pieces, innervato da pure scariche elettriche di energia e stratificate architetture strumentali; e mentre Dickinson correva da una parte all'altra del palco come un indemoniato, dietro le pelli il sornione McBrain teneva il timone di una band in forma stellare. 'Powerslave' porta a compimento l'evoluzione della band, che si era manifestata palese nei due dischi precedenti e che ora trova la sua consacrazione assoluta, con un album mastoso in cui spiccano le melodie brillanti delle due chitarre gemelle ed i loro virtuosismi intricati. Il parere sul disco di Steve Harris é sempre obiettivo e ponderato: 'Powerslave è forse l'album che sento meno mio, ma per molti nostri fans é l'album principale. Alcuni brani sono delle gemme del nostro repertorio, come Two minutes to Midnight, la titletrack, Aces High, Rime of The Ancient Mariner, ma altri sono lontani dal livello di questi elencati'. Bruce Dickinson: 'Ci sono molte differenze tra quest'album e il suo predecessore, Piece Of Mind. Powerslave è più simile a The Number of The Beast che, a sua volta, ha delle reminescenze del primo disco. Sebbene in generale ci stiamo evolvendo verso un maggior tecnicismo, Piece of Mind era un album più orientato verso la pura tecnica di quanto lo sia Powerslave'. A conti fatti, era un disco più metal, più potente ed anthemico del predecessore. Il successo degli Iron Maiden cresceva in modo implacabile, e la band si tuffò a capofitto in un tour enorme da un capo all'altro del globo. Tutto l'album, a cominciare dalla copertina, è ispirato alla civiltà egizia e ad avvenimenti storici: esso contiene episodi magistrali come 'Two Minutes to Midnight', una traccia dinamica di stampo hardrock trainata da un riff azzeccato e inconfondibile, oppure la travolgente 'Aces High', pezzo potente e tambureggiante dal ritornello melodico e dotato di un attacco frontale trascinante posto in incipit. 'Aces High' apre ancora oggi ogni concerto della vergine di ferro, e viene definito 'un brano particolarmente perfetto' dai biografi Gamba e Canali: 'I riff strabilianti, le parti vocali quasi inarrivabili, il ritornello squillante ed epocale e i due splendidi assoli di Murray e Smith sono entrati da subito nella storia del metal e nella classifica dei migliori momenti mai partoriti dalla band'. Per quanto concerne Two Minutes to Midnight, dotata di un ritornello memorabile, di assoli strabilianti e poderose parti di basso, si esprime Bruce Dickinson: 'Ho scritto io il testo. E' una canzone che parla dell'esperienza della guerra. Il fascino e l'orrore di essa, questi due aspetti combinati e il fatto che, purtroppo, ne siamo sia affascinati che disgustati'. L'oscura titletrack 'Powerslave' riassume bene il notevole spessore tecnico e melodico della band, rafforzato dal taglio progressivo di 'Rime Of The Ancient Mariner', pezzo di estrazione letteraria ispirato da un romanzo di Coleridge. Come affermato da Dickinson, 'il tema del disco é tutto racchiuso nella titletrack: la società dell'antico Egitto e quella odierna hanno molti tratti in comune. Allora come oggi, il potere é nelle mani di pochi privilegiati. Si tratta ancora una volta di un'allegoria: mi piace scrivere testi allegorici. in generale, l'album ha testi piuttosto pessimistici, anche se i versi di Steve sono comunque molto interessati'. Grazie a questa uscita gli Iron Maiden godevano ormai di un seguito di fans considerevole ed affezionato; strepitoso fu il lungo tour di supporto all'album, corredato dal virtuosismo tecnico dei musicisti così come dagli spettacolari effetti scenici: da leggenda la scenografia egizia con Eddie mummificato. Bruce Dickinson era il sicuro ammiraglio di una truppa d'assalto perfetta e spettacolare, con le sue corse sfrenate sul palco, la sua voce imponente e la sua goliardia travolgente: gli Iron Maiden sul tetto del mondo.
Il World Slavery Tour fu il più pesante, estenuante e spettacolare mai affrontato dalla band inglese, iniziato nell'agosto 1984 e terminato nel luglio dell'anno successivo; scrivono le biografie: 'Bellissimo il palco, forse il più acclamato di sempre dai fans della vergine di Ferro. un sarcofago dorato di Eddie si apriva in modo spettacolare, lasciando uscire la sua mummia, che imperava gloriosa dietro la testa di Mc Brain. Celebre anche l'Eddie bendato che correva sul palco, anch'esso di ispirazione egiziana'. Tra geroglifici, piramidi, faraoni, iscrizioni criptiche e sabbie misteriose, rafforzati da un repertorio di canzoni immortali, gli Iron Maiden giganteggiavano sul trono del metal mondiale: 'Live After Death' fu il mastodontico live audio e video tratto dal tour, e fotografava la band all'apice della forma e con tutti i grossi calibri della propria discografia. Per molti, uno dei migliori live metal mai registrati, arricchito dalla splendida copertina firmata da Derek Riggs, la quale raffigurava Eddie fuoriuscire dalla propria tomba, in un magnifico scenario notturno. Nel 1986, ben riposati e rigenerati, gli Iron Maiden tornarono con 'Somewhere In Time', disco influenzato dal progressive per quanto concerne la struttura elaborata dei brani, ma parzialmente contaminato da suoni sintetizzati ed effetti elettronici, in simbiosi con la cover visionaria, densa di dettagli e messaggi nascosti, nella quale un Eddie cyborg si muove in una città futuristica. Spiccano pezzi come la magniloquente e ricca 'Caught Somewhere In Time', che straripava riff, melodie ed intersezioni variegate, l'emozionante 'Wasted Years', con la sua tempesta di note in fase di assolo, 'Stranger in a Strange Land', la sferzante 'Deja Vu' e la maestosa 'Alexander the Great', una composizione immensa ed intricata in labirinti di riff, melodie e assoli avvolgenti, incentrata sulla figura Alessandro Magno, il grande condottiero macedone: quasi dieci minuti di suite, tra continui cambi di tempo ed atmosfera, incroci mirabolanti e intersezioni maestose, scandite dai potenti riff tipici della Vergine di Ferro e dall'interpretazione sontuosa di un Dickinson mai così evocativo e marziale. Ancora una volta in primo piano erano le melodie di chitarra di Adrian Smith e Dave Murray: le evoluzioni delle due asce, cristalline e rapide, all'unisono, sono un marchio di fabbrica inconfondibile del Maiden-sound, assieme alle celebri galoppate, e qualche synth in più non potè in ogni caso intaccare la splendida riuscita della nuove release. Ricorda Murray: 'Abbiamo avuto parecchio tempo per preparare questo disco e non vedevamo l'ora di entrare in studio e lavorare sui pezzi, mentre di solito quando si entra in studio alla fine di un tour non si é molto motivati. Abbiamo ottenuto degli ottimi risultati e siamo fieri di questo disco tanto quanto lo siamo dei precedenti. In passato ci sono stati alcuni brani di cui non eravamo entusiasti, ma su Somewhere In Time tutto é perfetto e non ho rimpianti'. La conferma arrivava da Steve Harris, molto fiero di questo full length: 'I brani di quest'album sono molto più elaborati delle nostre composizioni passate, abbiamo avuto più tempo per dedicarci alla stesura e all'arrangiamento dei pezzi, e questo si sente. La tecnologia usata per incidere l'album é di tutta avanguardia, e coloro che hanno la fortuna di possedere un lettore cd potranno apprezzare appieno la qualità del lavoro. La mia composizione più ambiziosa è stata Alexander the Great, una storia basata su dei fatti reali. Sono molto orgoglioso di questo brano'. Le esibizioni del gruppo erano come al solito stellari, dense di luci ed effetti pirotecnici incredibili, che accatturavano folle impressionanti. L'album diventò subito un altro superclassico del gruppo, anche se non mancarono fans che storsero il naso di fronte ad un'innovazione come quella dei synth, accettata con qualche remora. Dopo due anni di concerti, nel 1988 uscì l'album 'Seventh Son Of A Seventh Son', un disco caratterizzato da uno stile ancora più melodico e orientato verso tecnicismi alla soglia del progressive metal, per perizia tecnica e taglio melodico; pezzi trainanti dell'album erano 'Infinite Dream', 'Can I Play With Madness', 'The Evil That Man Do' e 'The Clairvoyant', un capolavoro di musicalità e precisione stilistica, nonchè la solenne titletrack. L'album era meno aggressivo e permeato da una certa vena epica e malinconica, e vede un Bruce Dickinson più aspro al microfono: fu l'album della definitiva maturazione e dalla complessità metallica veramente spiccata. Si trattava di un concept ispirato dal libro di Orson Scott Card, 'Il Settimo Figlio', in cui un bambino dotato fin dalla nascita di grandi poteri finisce al centro della lotta tra bene e male, entrambi intenzionati ad impossessarsene.
Ci sono tuttavia diverse influenze e ispirazioni mescolate alla storia originale, che lasciano libertà di interpretazione sul soggetto. In Moonchild, il diavolo si rivolge ai genitori del settimo figlio per impossessarsi dei suoi poteri; Infinite Dreams é un flashback che svela come il padre, anche lui settimogenito, veniva da tempo tormentato da inquietanti visioni della vita dopo la morte. Esso contatta un oracolo per interpretare le sue visioni [Can I Play With Madness], mentre poi lascia la scena al concepimento del settimo figlio, che coincide con The Evil that Man Do; in The Prophecy il bimbo diventa profeta e cerca di paventare al popolo le sventure che incombono, ma The Clairvoyant spiega come esso sia un veggente incapace di salvare se stesso. La conclusiva Only The Good Die Young é dunque una valutazione finale, un giudizio allegorico tra la storia narrata e la realtà in cui viviamo. Racconta Bruce Dickinson: 'Invece che affiancare diversi mattoncini,l'un l'altro, abbiamo cercato l'atmosfera giusta, il feeling appropriato. Forse in altre occasioni abbiamo tentato un pò troppo di pianificare il lavoro. mentre stavolta ci siamo lasciati andare di più, abbiamo sperimentato di più. in un certo senso abbiamo rotto lo stampo con cui avevamo plasmato gli scorsi album. C'é molta complessità nel disco, ma non ne risente la fluidità della musica, che permane limpida'. con questo album, i cinque inglesi capirono che la musica non poteva e doveva più rappresentare la totalità della loro esistenza, perché c'è molto da vivere anche al di fuori di un tourbus o di un'arena per concerti. Molto meno successo ebbe, nel 1990, 'No Prayer For The Dying', nonostante un ritorno a stili più duri e privi di sintetizzatori, e nonostante buoni pezzi come 'Bring Your Daughter to the Slaughter'. Il disco fu figlio della volontà di Dickinson di recuperare le radici heavy rock dell'act britannico, riportando le coordinate stilistiche ai tempi di Paul Di Anno, ma la scelta non si rivelò azzeccata e Steve Harris decise di tornare all'heavy-power ormai tipico della sua Creatura. L'uscita, nel 1992, di 'Fear Of The Dark', disco ancora molto melodico, coincise con la parziale rinascita della Vergine di Ferro; l'album venne trascinato dalla title track, una canzone emozionante ricca di cambi di tempo e della consueta perizia tecnica, evincibile in brillanti galoppate melodiche sfociate dalle chitarre di Smith e Murray. Altri pezzi di spicco sono la prima vera ballad scritta dalla band, 'Wasting Love', la solenne 'Afraid To Shoot Strangers', solennemente ispirata nella struttura ad 'Hallowed Be Thy Name', e la movimentata 'Be Quick Or Be Dead', uno dei pezzi più irruenti e 'da pogo' composti dall'act inglese. Purtroppo però dopo questo album Dickinson, che nel frattempo aveva iniziato una carriera solista, decise tra le polemiche di mollare la band e dedicarsi solo alla sua produzione personale. Fu un colpo durissimo per la band, imperniata sulla sua solarità scenica, e per i fans, troppo attaccati alla sua maestosità vocale, praticamente insostituibile. Proprio durante il tour di supporto a Fear of The Dark, Dickinson era apparso quasi svogliato e non tutti furono entusiasti delle sue prestazioni, decisamente più contenute e meno esplosive: in seguito, dichiarerà di essersi limitato a svolgere il proprio lavoro in maniera professionale, preferendo non esibirsi in false dimostrazioni di baldanza e coinvolgimento.

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