SEVENTH SON OF A SEVENTH SON: I TESTI

Nel 1988 la band di Steve Harris sforna un concept album dai contorni raffinati e progressivi, fortemente melodico e composto da pezzi sofisticati e particolari, bagnati da ispirazioni tratte dal prog rock. Il tema portante si muove tra il mistico confine tra bene e male, e ricalca la storia del settimo figlio di un settimogenito, il quale acquisisce poteri sovrannaturali e viene pertanto "conteso" tra il bene e il male; le fonti di ispirazione sono molteplici e mai esplicitamente dichiarate, anche se in molti associano questo disco all'opera Il Settimo Figlio (1987) dello scrittore statunitense contemporaneo Orson Scott Card. La nascita del protagonista viene annunciata in Moonchild, opener dai ripetuti cambi di tempo: Lucifero lo minaccia indirettamente, rivolgendosi alla madre, per controllarne i poteri. Dickinson, che interpreta il brano con tono aspro ed evocativo, utilizza nel testo anche elementi del rituale Liber Samekh di Aleister Crowley, e canta: Io sono colui che non ha nascita, l'angelo caduto che ti sorveglia; Babilonia, prostituta scarlatta, mi infiltrerò nella tua gratitudine. Non osare salvare tuo figlio, uccidilo subito e salva i più piccoli. Sarai madre di un bimbo nato strangolato, apparterrai al diavolo, Lucifero è il mio nome! Figlia della luna, ascolta l'urlo della mandragora, Figlia della luna apri il settimo sigillo, Figlia della luna presto sarai mia, Figlia della luna prendi la mia mano stanotte. La toccante Infinite Dreams é, al contempo, un pezzo che tratta di sogni inquietanti, domande sull'esistenza (tema ricorrente nei versi scritti da Harris) e del potagonista del concept che, venuto alla luce ed a conoscenza dei suoi poteri, ne resta affascinato e desidera avere delle risposte certe; parlano in prima persona sia il settimo figlio che Harris stesso: Sonno irrequieto, mente agitata, un incubo finisce ed un altro si feconda, mi assale, sono così impaurito di addormentarmi, ma ho paura di svegliarmi ora, perchè ci sono dentro; aAnche se ha raggiunto una nuova intensità, mi piace che la notte sia così agitata: mi viene da chiedere e mi fa pensare se ci sia altro, sono su un baratro. Non ho paura di cosa ci può essere, ma non so se saprei reagire; sono curioso, quasi lo desidero, ma mi piacerebbe davvero esserci dentro? Non può essere tutto una coincidenza, troppe cose sono evidenti. Mi dici che non credi; Spiritualista? Beh, non sono nè l'uno nè l'altro, ma mi piacerebbe sapere la verità, sapere cosa esiste per avere la prova e scoprire da che parte stai. Dove vorresti finire, in Paradiso o all'Inferno? La canzone cresce e si apre in un finale molto epico, collegandosi poi a Can I Play with Madness, un brano musicalmente discostante dal resto del disco, essendo quasi allegro e gioviale; nel testo, di difficile interpretazione, il settimo figlio si rivolge ad un profeta per avere risposte sul suo futuro, ma il profeta si rifiuta di rispondere, dicendo di non sapere nulla; esortato pesantemente dal giovane, gli rivela che la sua anima brucerà in un lago di fuoco. Posso giocare con la pazzia? Il profeta fissò la sua sfera di cristallo. Posso giocare con la pazzia? Non c'era nessuna visione li dentro. Posso giocare con la pazzia? Il profeta guardava e rideva di me. Posso giocare con la pazzia? Ha detto "Sei cieco, troppo cieco per vedere". Ho urlato al vecchio ad alta voce. Gli ho detto: "Non mentire, non dire che non sai"! Ho detto: "Tu pagherai per questo male, In questo o nel prossimo mondo". Lui mi ha bloccato con uno sguardo ghiacciato, e le fiamme dell'inferno sono divampate nei suoi occhi. Ha detto: "Vuoi conoscere la verità, figliolo"? "La tua anima brucerà nel lago di fuoco". Il disco entra nel vivo con The Evil That Man Do, pezzo stupendo dai toni cupi e vibranti, che si rifà nel titolo ad una frase di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare: su una robusta sezione di basso, Dickinson canta con toni enfatici la tentazione del protagonista, sedotto da una vergine -forse figlia di Satana- fino ad avere un rapporto con lei: L'amore è un rasoio e io ho percorso la linea, su questa lama d'argento; ho dormito nella polvere con sua figlia, i suoi occhi rossi con la carneficina dell'innocenza, ma pregherò per lei, chiamerò il suo nome ad alta voce, vorrei sanguinare per lei, se solo potessi vederla ora. Tuttavia, il protagonista acquisisce qui la consapevolezza del suo ruolo, e va incontro alla rinascita spirituale della titletrack, Seventh Son Of A Seventh Son, nella quale deve decidere se schierarsi dalla parte del bene o da quella del male: Ecco qui riuniti tutti i fratelli, tutti i figli, se separati, cadrebbero; qui si attende la nascita del figlio, il settimo, il divino, il prescelto. Ecco la nascita da una stirpe ininterrotta, nasce il guaritore, il settimo, è il suo momento; inconsapevolmente benedetto e mentre la sua vita avanza, lentamente si scopre il potere che possiede. Dunque essi osservano i progressi che compie, il Bene ed il Male, quale sentiero prenderà? Entrambi cercano di manipolare l’uso dei suoi poteri prima che sia troppo tardi. Oggi è nato il settimo, è figlio di donna, è il settimo figlio, ed egli è sua volta figlio di un settimo figlio; ha il potere di guarire, ha il dono della seconda vista, egli è il prescelto. Così sia scritto, così sia fatto. I toni del pezzo sono solenti e marziali, resi inquietanti da una parte centrale soffusa ed evocativa, prima della cavalcata finale, che conduce a The Prophecy: il protsgonista decide di utilizzare i propri poteri a fin di bene, così il male pianifica una catastrofe da scagliare contro il suo villaggio, sapendo che il settimo figlio saprà prevederla; esso avvisa la sua gente, ma gli uomini dubitano per loro natura del proprio prossimo e, addirittura, accusanoil protagonista di aver scagliato una maledizione sul villaggio, attraverso le sue false profezie. Il piano del Male pevedeva una reazione di dietrofront nel giovane, che di fronte all'avverarsi della catastrofe -che puntualmente si concretizza- avrebbe dovuto rivalutare la sua decisione. Dickinson canta con trasporto le ragioni del giovane: Ora che vedono che il disastro é compiuto, ora gettano tutte le colpe su di me, e pensano che io abbia portato una maledizione. Loro non sanno che il tormento rimane con me, sapendo che cammino da solo; io vedo attraverso gli occhi del futuro, loro non sanno nemmeno cosa sia la paura, non sanno che sono io quello che è maledetto. Gli incredibili poteri del protagonista si fortificano e aumentano nella celebre The Clairvoyant, forse il passaggio più noto del disco; aperto da un bel riff di basso e sorretto da melodie varie e l'epica malinconica che permea tra i solchi del full-length, il brano narra della paura che monta, nel cuore del giovane, il quale teme di non riuscire più a controllare se stesso ed i suoi poteri; egli si prepara tuttavia ad incontrare il Creatore, ma non riesce a prevedere la sua fine: Mi chiedo perché, mi chiedo come sia possibile che i poteri si rafforzino ogni giorno sempre più; sento una forza, un fuoco interiore, ma temo che non sarò più in grado di controllarlo; c’è un tempo per vivere e un tempo per morire, quando è il momento di conoscere il creatore; c’è un tempo per vivere, ma non è strano che non appena nasci, inizi a morire? Semplicemente guardandoti negli occhi potrebbe vedere il futuro penetrando dritto nella tua mente, vedere la verità e le tue menzogne; ma nonostante tutto il suo potere, non può prevedere la sua morte! La storia si conclude con Only The Good Die Young, altro pezzo da novanta del disco, contraddistinto anch'esso da un'epica struggente: una sorta di riflessione finale sull'ipocrisia umana concepita dal protagonista, che muore giovane, predicando a tutti un tragico destino: Alcuni innocenti pedine sono impegnate in un gioco senza fine. Che la la morte sia un'altra nascita? Un modo per dire addio ai tuoi sogni. Che i non morti vivano con noi? Che essi guardino attraverso i nostri occhi? Camminare sull'acqua é un miracolo a cui tutti voi potete credere. Misura la tua bara, sarà grande quanto la tua avidità? Credo che ti lascerò con i tuoi alfieri e i tuoi sensi di colpa, così fino alla prossima volta. Ti auguro un buon peccato, solo i buoni muoiono giovani, tutti i demoni sembrano vivere per sempre. Quasi una morale rassegnata, che dunque si esterna dal contesto del racconto e lo pone come allegoria della vita, nella quale le anime più nobili sono le prime a perire: un altro disco sopraffino, dunque, sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, ma anche nell'ottica dei valori che esso riflette.
SOMEWHERE IN TIME: I TESTI
Il 1986 vede una piccola svolta nel classico sound della vergine di ferro che, pur rimanendo intricato e fortemente melodico, incentrato sui duelli di chitarra e sull'epica tipica della band, acquisisce nuove sfumature grazie all'introduzione dei sintetizzatori. Per quanto capace di causare qualche discussione tra i fans tradizionalisti, il disco é un altro capolavoro, anche se lascia trasparire un senso di malinconia più spiccato rispetto al passato. L'evocativa opener Caught Somewhere In Time, una trascinante galoppata tra melodie tonanti e maestose, é un pezzo leggermente ironico, che parla di un individuo affascinato dall'idea di viaggiare nel tempo, per correggere i propri sbagli e far girare tutto a proprio favore; un giorno qualcuno gli offre questa favolosa opportunità, ma chiede in cambio la sua anima: Come un lupo nei panni di una pecora, tu cerchi di nascondere i tuoi peccati più profondi e tutte le cose sbagliate che hai fatto; io so dove sei, il tempo è sempre dalla mia parte. Ti faccio un offerta che non puoi rifiutare, hai solo la tua anima da perdere: per l'eternità, lasciati semplicemente andare. L'epica Wasted Years, basata su un riffing ed un chorus divenuti ormai celebri, é stata scritta da Adrian Smith ed é un suo personale invito a godersi il presente, senza rimpiangere il passato, gli "anni sprecati": anche qui c'é un flebile collegamento alla vita on the road, anche se nonostante la nostalgia insita nei viaggi planetari resta un brano positivo, perché questi sono gli anni d'oro, usali finché puoi. I versi sono molto toccanti ed introspettivi: Dalla costa d'oro, per i Sette Mari viaggio in lungo e in largo, ma adesso mi sembra di essere estraneo a me stesso e che non sia io a fare tutte le cose che a volte faccio, ma un altro. Chiudo gli occhi pensando a casa, un'altra città se ne va nella notte. Non è buffo? Non si sente la mancanza di certe cose finchè non le hai perse. E il mio cuore giace lì, e lì giacerà sino al giorno della mia morte. Allora, cerca di capire: non sprecare il tuo tempo rimpiangendo quegli anni perduti! Solleva il viso, e lotta, renditi conto di stare vivendo i tuoi anni migliori! Ho troppo poco tempo a disposizione, tu sei nei miei pensieri, non puoi calmare facilmente questo dolore, quando non riesci a trovare le parole per esprimerlo, e diventa dura resistere un giorno ancora. E questo mi fa venire voglia di piangere, e tendere le mani al cielo. L'assolo melodico é qualcosa di straordinario, commovente a dir poco. La potente Sea Of Madness, retta da una tosta sezione di basso, ha per protagonista un individuo che osserva la condizione di miseria e follia nella quale sguazza l'umanità e cerca di distaccarsene, oppure se ne avvicina lui stesso: Come l’aquila e la colomba, vola così, in alto sulle ali, quando tutto ciò che vedi ti può mettere soltanto tristezza. Come un fiume, scorreremo verso il mare, quando tutto ciò che fai ti può mettere soltanto tristezza, fuori, sul mare di follia! Ancora una volta é dominante la melodia, ma particolarmente struggente é la soffice sezione centrale, riflessiva e pacata, splendidamente adeguata al testo narrato da Bruce. L'ariosa Heaven Can Wait parla di qualcuno che, imemrso in un sonno profondo, sente il suo spirito elevarsi ed abbandonare il corpo, guardandolo dall'alto; osserva la luce bianca (tipicamente descritta da chi ha vissuto esperienze extracorporiali), ma si rifiuta di seguirla, manifesto della determinazione di vivere fino in fondo la propria vita: È questo il momento, è possibile che l’angelo della morte sia venuto per me? Non posso credere che la mia ora sia giunta per davvero! Non mi sento pronto, ci sono così tante cose che non ho fatto, si tratta della mia anima, e non la lascerò andare via! Il Paradiso può attendere, ho voglia della terra di sotto, e lo stesso Inferno è il mio unico nemico! Perchè non ho paura di morire: me ne andrò quando mi sentirò bene e pronto. L'intero disco poggia prevalentemente su tematiche di natura misteriosa, che nelle nostre domande perenni vengono spesso accostate ai percorsi dell'anima e alle pieghe di un destino forse già tracciato, come nel caso di Deja Vu, che parla della sensazione di quando ci sembra di affrontare una situazione conosciuta, rivivendo un luogo, un dialogo o un incontro conosciuto ma di cui abbiamo ricordi vaghi, forse perché visti solo in sogno: Hai mai avuto una conversazione che ti rendi conto di aver già avuto prima: non è strano? Hai mai parlato a qualcuno sentendo di sapere quel che succederà dopo; sembra sia prestabilito! Perché lo sai che lo hai sentito prima, e senti che questo frammento temporale è reale! Perché sai quando riconosci il deja-vu! Il primo riferimento letterario del disco si ha con The Loneliness Of The Long Distance Runner, ispirata all'omonimo libro del 1959 di Alan Stillitoe (poi divenuto film, nel 1962, trasmesso in Italia col titolo Gioventù, Amore e Rabbia): un giovane ribelle, finito in riformatorio per una rapina, viene scelto per rappresentare l'istituto in una gara di corsa: in caso di vittoria, sarebbe stato liberato prima del dovuto. Il ragazzo si accorge di essere un "mezzo", usato dalle istituzioni in cerca di prestigio, e il testo ne rispecchia le riflessioni interiori: Devo continuare a percorre il mio cammino, devo continuare a correre e vincere a tutti i costi, devo continuare ad essere forte, devo essere determinato e spingere me stesso. Musicalmente il pezzo é ricco di svariati cambi di atmosfera e prolungate sezioni strumentali di stupenda melodia. La sinistra ed ancheggiante Stranger In A Strange Land prende il titolo dal romanzo omonimo fantascientifico di Robert A. Heinlein (1961), anche se i contenuti non ne rispecchiano fedelmente le tematiche: i versi maideniani, vergati dalla penna di Smith, si ispirano più che altro ad alcuni articoli di giornale, i quali raccontavano il ritrovamento del corpo di un vecchio marinaio morto, perfettamente conservato tra i ghiacci del polo; il testo é scritto dal punto di vista del protagnista e viene infuocato dall'ennesimo guitar solo avvolgente e trepidante: Straniero in terra straniera, terra di neve e ghiaccio. Sono intrappolato qui, una prigione, sperduto e lontano da casa! Cosa ne è stato degli uomini che iniziarono? Se ne sono andati via tutti, e le anime sono morte. Mi hanno lasciato qui, in questo posto, tutto solo... Sono trascorsi cento anni, e di nuovo gli uomini hanno percorso questa strada per trovare una risposta al mistero; hanno trovato il suo corpo, lì dove cadde quel giorno, preservato nel tempo, perché fosse visto da tutti. Capolavoro assoluto del platter è Alexander The Great, uno dei pezzi migliori mai scritti dagli Iron Maiden: uno spaccato di riff, arpeggi, fraseggi, melodie avvolgenti e atmosfere epiche che é un esempio superlativo del sound tipico e maestoso della vergine di Ferro, così come in passato lo erano stati brani come Hallowed Be Thy Name o Rime Of The Ancient Mariner: naturalmente, Alexander The Great narra della vita e delle imprese del grande conquistatore macedone Alessandro Magno, e lo fa con la solennità e l'imponenza regale che il personaggio merita, risultando assolutamente da brividi. Steve Harris stava leggendo la storia di questo mitico stratega e conquistatore e, trovandola fantastica per una canzone, ha voluto utilizzarla, sotto forma di un elenco cronologico dei fatti (pur con alcune semplificazioni) che gli ha portato via parecchie ore di lavoro: le sezioni strumentali centrali, dalle sfumature più disparate, le melodie eroiche e la prolungata, bollente sezione solista, sono da puro delirio. Con una prestazione coinvolgente e cavalleresca, Bruce Dickinson canta le gesta di Alessandro: Figlio mio, chiedi per te stesso un altro regno, perchè quello che ti lascio é troppo piccolo per te. Vicino all'est, in una zona dell'antica Grecia, in un'antica regione chiamata Macedonia nacque un figlio di Filippo di Macedonia; la leggenda diceva che il suo nome era Alessandro. All'età di diciannove anni divenne il re dei macedoni e giurò di liberare tutta l'Asia minore, a partire dal mar Egeo; nel 334 a.c. sconfisse totalmente gli eserciti della Persia: Alessandro il Grande, il suo nome incuteva paura nei cuori degli uomini, Alessandro il Grande, divenne leggenda tra gli uomini mortali. Re Dario il terzo, sconfitto, fuggì in Persia, gli Sciiti caddero al fiume Giaxarte, allora anche l'Egitto cadde in mano al re macedone e lui fondò una città chiamata Alessandria. Al fiume Tigri incontrò nuovamente re Dario e lo schiacciò ancora nella battaglia di Arbela, entrando a Babilonia, e a Susa trovò tesori; prese Persepoli, capitale della Persia; un re Frigio aveva legato un giogo del carro, Alessandro l'ha tagliato: la leggenda dice che colui che avesse sciolto il nodo sarebbe diventato il padrone dell'Asia. Diffuse l'ellenismo in lungo e in largo, la mente istruita macedone: la loro cultura era un modo di vivere occidentale, lui aprì la strada per il Cristianesimo, marciando sempre più. La faticosa battaglia marciando fianco a fianco: l'esercito di Alessandro linea dopo linea. Non vollero seguirlo in India, stanchi del combattimento, del dolore e della gloria: Alessandro il Grande, il suo nome incuteva paura nei cuori degli uomini; Alessandro il Grande, morì di febbre a Babilonia. Impossibile non sentire i brividi sulla propria pelle, ascoltando la musica e le parole di pezzi come questo, che -oltre a sottolineare l'essenza colta di una band, gli Iron Maiden, fortemente attiva sul versante della storia e del sapere- permettono di sviluppare anche tra i fans più giovani un interesse affascinante verso materie, soggetti ed opere storiche di questo livello.

POWERSLAVE: I TESTI
RINO GISSI, METALLIZED.IT
Dopo essersi consacrati agli apici del movimento metal internazionale, gli Iron Maiden superano anche se stessi confezionando un ulteriore gioiello di melodia e potenza, Powerslave, per molti uno dei loro prodotti migliori per l'efficacia delle trame, la maestosistà messa in musica, la fluidità dei fraseggi di chitarra e l'affascinante apporto visivo, da sempre peculiarità centrale nell'universo della Vergine di Ferro e qui sublimato in un sontuoso scenario egiziano, tra coloratissime piramidi, sfingi, geroglifici, sarcofagi e rappresentazioni esotiche di grande impatto; anche musicalmente e concettualmente si toccano altissimi vertici creativi, grazie a composizioni imponenti ed elaborate, melodie fantastiche e testi colti, intrisi di significati e riferimenti di ogni sorta, ma sopratutto ispirati da tematiche storiche. Si fanno sentire, e non poco, le ricche conoscenze culturali di Bruce Dickinson, unitamente a quelle di Steve Harris, che già dai primi album aveva messo l'accento sull'importanza di testi intelligenti e fuori dal comune, in un certo senso. La prestazione collettiva della band, esaltata dalla prova ridondante del singer e dalle melodie straripanti delle tre asce, trova dunque un coronamento importante e particolareggiato anche dal punto di vista tematico, come del resto era stato anche sui dischi precedenti e come sarà su quelli immediatamente successivi. La roboante e travolgente Aces High, che diverrà opener tradizionale dei live-shows della band, inaugura il disco col suo riffato mitragliante, le sue scorribande intricate ad alta velocità e il suo chorus enfatico: un pezzo particolarmente energico e dinamico, che narra di un pilota della Royal Air Force inglese, impegnato a lottare sui cieli britannici contro la Luftwaffe (aereonautica militare) tedesca durante la battaglia d'Inghilterra (luglio-ottobre 1940); celebre il discorso iniziale, tenuto da Winston Churchill in quei giorni drammatici. Il testo si presenta come una sorta di strategia di battaglia e punta l'obiettivo sulle difficoltà tattiche di un combattimento aereo, ma è anche un triste indicatore di come la guerra diventi la vita stessa dei ragazzi coinvolti: girare, avvitarsi, scendere in picchiata, ritornarci sopra, corri, vivi per volare, vola per vivere, fare o morire; corri, vivi per volare, vola per vivere, gli Assi volano, avviciniamoci per sparare al grosso dei bombardieri, una sventagliata secca e poi giriamo sul fianco, viriamo e prendiamoli da dietro, dove non ci possono vedere, facciamo fuoco di nuovo. La voce di Dickinson tocca vette strepitose ed irraggiungibili, ponendo immediatamente l'accento sulle qualità del singer almeno tanto quanto sul cristallino tepore della sezione solista, come sarà in tutto il platter. 2 Minutes To Midnight é indubbiamente uno dei pezzi più celebri del combo londinese, vocalmente trascinante, dotata di un riffery magistrale e di uno splendido assolo melodico; liricamente parla delle atrocità della guerra, del fascino e dell'orrore di essa, questi due aspetti combinati e il fatto che, purtroppo, ne siamo sia affascinati che disgustati, come affermato da Bruce Dickinson in persona; con una prestazione stellare, il singer si muove tra versi ispirati dall'orologio dell'apocalisse, uno strumento convenzionale attraverso cui gli scienziati del Bulletin Of The Atomic Scientist (università di Chicago) compararono la mezzanotte alla fine del mondo, simboleggiata dalla guerra atomica: le lancette venivano spostate avanti o indietro a seconda del periodo storico e degli eventi politici. La mezzanotte meno due minuti fu toccata soltanto nel 1953, quando l'URSS testò la prima bomba all'idrogeno. Il testo é critico e denigra l'incapacità umana di mantenere l'ordine e la pace sul pianeta, ma é anche uno dei più cruenti e brutali mai scritti dagli Iron Maiden: mentre i motivi per la carneficina tagliano la carne e leccano il sugo, oliamo le fauci della macchina da guerra e le diamo in pasto ai nostri piccoli; le bare e gli stracci dei bimbi tagliati in due e il cervello gelatinoso di quelli che rimangono ad additarti, mentre i pazzi giocano con le parole e ci fanno danzare al loro ritmo, al ritmo dei milioni che muoiono di fame per creare un tipo migliore di arma da fuoco; di nuovo in guerra, il sangue è la macchia della libertà; non pregare più per la mia anima, due minuti a mezzanotte, le lancette minacciono distruzione. La marziale titletrack Powerslave, intrigo di riff pesanti e melodie avvolgenti, aleggiante in un'atmosfera misteriosa e solenne, è ovviamente localizzata tra le piramidi dell'antico Egitto, sotto il caldo sole del Nilo, e narra di un Faraone morente, il quale si lamenta dei limiti del proprio potere: si accorge, infatti, di essere uno schiavo della morte, e di non poter far niente di fronte alla fine imminente. Fioccano riferimenti e citazioni che contribuiscono a collocare il pezzo, storicamente, nell'età dei Faraoni: Cadrò nell'Abisso, l'occhio di Horus riflesso negli occhi della notte che mi guardano; è verde l'occhio del gatto che brilla in questo tempio. Ecco Osiride risorto, risorto di nuovo: perché sono stato soggiogato dal potere? non voglio morire, sono Dio! Perché non posso continuare a vivere? quando il Creatore muore, ovunque c'è distruzione, e alla fine della mia vita sono schiavo del Potere della Morte. E' risaputo che il Faraone veniva ritenuto un vero e proprio Dio in terra, capace durante il suo regno di governare incutendo timore ed ottenendo tutto ciò che desiderasse; ma quando la morte si avvicinava, non pochi sovrani si saranno posti il fatidico dubbio, chiedendosi perché il proprio destino é il medesimo di tutti gli altri mortali. Certo, c'era l'appiglio della mummificazione, capace di donare l'eternità al Figlio del Sole, ma quanti, in punto di morte, ne erano davvero convinti? Quando ingannavo, giocavo sulla paura: la gente mi adorava e cadeva, cadeva sulle ginocchia. Portami il sangue e il vino rosso per il mio successore, perché è un uomo e un dio e anche lui morirà. L'ultima speranza stava nella vita eterna, consegnata assieme a tesori e ricchezze varie ad un sarcofago avvolto dal mistero e dalle presunte maledizioni: Sono freddo ma un fantasma vive nelle mie vene: tace il terrore che regnava, marmo nella pietra, guscio di un uomo, Dio preservato migliaia e migliaia di anni. Ma apri i cancelli del mio inferno e colpirò dalla tomba. E' anche un riferimento celato alla "schiavitù" nei confronti dell'intensa vita on the road a cui é sottoposta la band: non una critica di ciò, ma una constatazione di uno stile di vita fuori dalla norma, sicuramente. Il testo più complesso e denso di interpretazioni é quello dell'imponente Rime Of The Ancient Mariner, brano solenne, progressivo, ricco di riff metallici e cambi di atmosfera, ispirato all'omonimo poema del romantico Samuel Taylor Coleridge (1797-98), pubblicato nella raccolta Lyrical Ballads With A Few Other Poems; il romanzo racconta le vicende di un marinaio che viaggia con un equipaggio di duecento persone e si trova ad uccidere un alabatro (uccello che é segno di buon auspicio) posatosi sulla nave; la nave viene dunque colpita da una maledizione, anche perché gli altri marinai non avevano condannato il gesto del protagonista: tutto l'equipaggio, vittima di spettri, navi fantasma e serpenti infernali, muore in lunga agonia, ad eccezione del marinaio, che sopravvive nel rimorso, costretto a raccontare la vicenda ad ogni persona che incontra. Le interpretazioni sono molteplici, perché Coleridge inserisce riferimenti filosofici, spirituali, mistici, reali e soprannaturali al fine di rendere l'opera un'allegoria della vita: la ciurma incarna l'intera umanità, l'alabatro il patto d'amore che dovrebbe unire tutte le Creature di Dio, la nave il microcosmo dove le azioni malvage di ognuno si ripercuotono sulla collettività. Potrebbe anche essere una parabola del poeta che, come il marinaio, perde il contatto con la natura e cerca disperatamente di ritrovarlo. Harris scrive il testo in forma di riassunto e cita quattro versi originali, in un elaborato lunghissimo e dettagliato nel quale spiccano i momenti più cruenti, quelli dell'incontro col vascello fantasma (laggiù, urla il marinaio, laggiù una nave all'orizzonte: ma come può muoversi senza che il vento le riempa vele e senza la marea? guarda, viene verso di noi, si avvicina come se uscisse dal sole! Guarda, non c'è equipaggio, non c'è vita a bordo ma, aspetta, ci sono la Morte e la Morte in Vita, si giocano la ciurma a dadi: lei vince e il marinaio ora le appartiene, poi uno a uno i marinai cadono morti, 200 uomini; lei, la Morte in Vita, lascia vivere il prescelto), quelli in cui i marinai morti vengono posseduti da spiriti inquietanti (senti i gemiti dei marinai morti, guarda, si muovono e incominciano a risvegliarsi, corpi sollevati da spiriti benigni: nessuno di loro parla e hanno gli occhi spenti, ma la vendetta non è finita, la differenza ricomincia, cade in una trance e l'incubo continua) e quello finale, contentente la morale del racconto: il marinaio rimane solo, poi una barca gli viene incontro: una gioia incontenibile, la barca del timoniere, suo figlio e l'eremita. La sofferenza dell'esistenza ricadrà su di lui mentre la nave, come piombo, affonda nel mare; l'eremita assolve il marinaio dai peccati, il marinaio è costretto a raccontare la sua storia, a raccontarla ovunque vada per diffondere con il suo esempio la Parola: dobbiamo amare tutto ciò che Dio ha creato, e l'ospite è triste ma più saggio, e il racconto continua. Una composizione ambiziosa e complessa, che rappresente un piccolo grande gioiello all'interno di un disco grandioso. Superata la pregevole strumentale Losfer Words (il titolo deriva dall'abbreviazione gergale dell'espressione Lost For Words, cioè senza parole), consueta parata di melodie, galoppate e contorsioni torrenziali, si giunge al riff "ad incastro" dell'aspra Flesh Of The Blade, che cresce in un chorus più aperto e, ispirata dalla passione di Dickinson per la scherma, racconta le gesta di uno spadaccino che si allena per vendicare la morte della famiglia: Da bambino sfidavi i draghi con quella spada di legno così possente; eri San Giorgio o Davide e uccidevi sempre la bestia; le cose cambiano velocemente e hai dovuto crescere alla svelta, una casa di macerie fumanti e i corpi ai tuoi piedi. Morirai come hai vissuto, con il luccichio della lama, in un angolo dimenticato da nessuno; hai vissuto per toccare, per sentire l'acciaio: un uomo e il suo onore, l'odore del cuoio trattato, la maschera di ferro duro come l'acciaio, tagli e affondi e duelli al comando del maestro di spada. Ti ha insegnato tutto ciò che sapeva, di non aver paura di chi è mortale, e sai che compierai la tua vendetta nell'urlo di uomini malvagi. La passione per la spada ritorna anche in The Duellist, che é però tratta dall'omonimo film del 1977, a sua volta ispirato dal racconto The Duel (1908) di J. Conrad: narra dell'eterna sfida a colpi di spada tra degli uomini che, al tempo di Napoleone, si affrontano più volte nel corso della vita per difendere il proprio onore; in realtà, é un manifesto contro la stupidità di chi sceglie di "morire per onore", cosa che viene ritenuta sciocca se inquadrata nell'ottica di una serie di duelli dediti soltanto alla mera dimostrazione di orgoglio e superiorità: combattere per l'onore, combattere per lo splendore, combattere per il piacere, combattere per morire. Musicalmente complessa e dotata di una prolungata sezione strumentale, Back In The Village é il sequel della celebre The Prisoner, contenuta sul masterpiece The Number Of The Beast (sono tornato al villaggio, di nuovo), e racconta di come il protagonista, in realtà, sia prigioniero della sua stessa fantasia e di come non riesca a liberarsi di questo stato: il villaggio coincide con il luogo dei suoi sogni e dei suoi incubi (le domande sono un peso e le risposte sono una prigione per noi; cucine bombardate, i tavoli cominciano a bruciare, ma continuiamo a camminare nella valle; altri cercano di spegnere la fiamma interiore, ma bruciamo più vividamente di prima). Tra le strofe, viene sussurrato un provocatorio ed impercettibile six six six, mentre la frase non sono un numero, sono un nome é la citazione più chiara e diretta di The Prisoner.

OUTCAST

KREATOR [ALTERNATIVE THRASH METAL], 1997
Quello che da molti venne visto come una sorta di declino del metal -e in particolar modo del thrash- negli anni '90 portò alcuni gruppi esponenti di tale movimento ad una brusca virata verso l'utilizzo di sonorità nuove e più sperimentali; i Kreator non sfuggirono a questa sorta di 'purgatorio obbligato' e, dopo aver incominciato a introdurre grosse novità già con Renewale cause For Conflict, nel 1997 diedero alle stampe il discusso Outcast. Dette novità non riguardavano solo lo stile musicale del gruppo di Essen: alla chitarra fu infatti reclutato Tommy Vetterli, ex-Coroner, che porterà con sé qualcosa -forse anche solo il tocco- del caratteristico sound della sua precedente band, nonostante al suo arrivo il songwriting di Outcast fosse quasi del tutto completato. L'inizio lascia abbastanza di sasso. Parte Leave This World Behind e una domanda si fa strada nella nostra mente: è mai possibile che la melodia faccia capolino tra i solchi di un disco del combo teutonico? Con Phobia ritroviamo nelle asce una qualche reminescenza dei vecchi Kreator seppur con gli echi delle grandi innovazioni che il disco reca con sé; la song comunque risulterà immancabile nella setlist dei futuri show dei tedeschi. Uno dei picchi della release è senz'altro Forever, che con le sue vocal malate e i ritmi cadenzati lascia addosso all'ascoltatore come una sensazione di oscura malsanità, precipitandolo in un oblìo allucinato di disperazione che non lascia scampo. L'interpretazione piuttosto melodica e pulita di Petrozza che ascoltiamo nella parte iniziale della successiva Black Sunrise è una rarità che lascia stranito il fan di vecchia data, per poi tornare nel prosieguo della stessa alle più consuete urla notoriamente appartenenti allo stile del frontman. Enemy Unseen ha un attacco inziale che può addirittura ricordare alcuni pezzi dei conterranei Rammstein, mentre la title-track si fa largo nel nostro cervello opprimendolo col suo incedere solenne e maestoso, incutendo al tempo stesso una sorta di timore e soggezione;anche questa traccia rappresenta sicuramente uno degli highlight del disco. In Whatever It May Take il buon Mille ci esorta a non arrenderci alla sua maniera: c'è chi potrebbe obiettare, però, che la voce filtrata con 'effetto robotico' che si sente verso la fine del brano possa lasciare qualcuno piuttosto interdetto, ma questa -unita al ritmo ossessivo della canzone e soprattutto al testo- risulta invece abbastanza consona ed efficace. Alive Again è caratterizzata da un bel riff massiccio così come A Better Tomorrow che, a tratti, risulta addirittura ipnotica. Outcast è caratterizzato da sonorità quasi industrial e dalla penuria degli indemoniati assolo di chitarra che da sempre sono stati il marchio di fabbrica di Petrozza e soci, ma rispetto agli album che lo hanno preceduto si distingue per un sound molto più cupo e atmosfere grevi ed opprimenti. La pesantezza va a discapito della velocità abituale ma la rabbia rimane invariata, solo essa viene espressa in maniera differente rispetto al thrash sparatissimo a cui la band ci aveva abituati. Non v'è dubbio che i Kreator hanno fatto -e faranno anche nel nuovo Millenio- album migliori, ma Outcast resta comunque un esempio di sperimentazione coraggiosa e per niente banale; alcuni episodi di questo platter sono sicuramente degni di grande attenzione pur avendo bisogno di tempo per essere assimilati appieno: del resto a distanza di anni si può affermare che il disco in questione sia più apprezzato oggi rispetto al periodo appena successivo alla sua uscita. C'è chi lo reputa una piccola gemma e chi invece lo ritiene un terribile passo falso: provate ad ascoltarlo con la mente libera da eventuali pregiudizi e decidete autonomamente da che parte stare. Talvolta la verità sta nel mezzo.

OF WOLF AND MAN

TIRA FUORI LA BESTIA CHE E' IN TE. Anche i Metallica cedono al fascino delle leggende sui lupi mannari e giocano sul filo dell'inquieta sensazione che desta l'immaginare un licantropo che corre tra gli alberi nella gelida notte accarezzato dal vento. Come sempre però c'è una metafora più profonda nelle liriche di Hetfield, che vuole dipingere l' uomo 'bestializzato' che è in ognuno di noi, e trova la sua dimensione solo regredendo all'istinto animalesco. Ognuno di noi si è 'trasformato in lupo' chissà quante volte, in preda alla rabbia o sotto l'effetto di sostanze fuorvianti, o anche solo scatenato dall'headbanging feroce durante un riff o un assolo, un pogo entusiasmante o quanto di esplosivo si liberi in un metallaro ascoltando la propria musica fonte di vita: sembra quasi che James voglia descrivere quella bestialità come 'salvezza', perchè 'la conservazione del mondo è nel selvaggio, perciò cerca il lupo che è in te'; forse perchè l'unica difesa in un mondo difficile è la conservazione stessa del proprio essere bestia, mascherato fino a un certo limite: superato quello, ognuno ha il diritto di far valere il proprio orgoglio e le proprie ragioni. A volte qualcosa fa cadere le inibizioni temporanee imposte dalla società moderna. Dal punto di vista musicale, il pezzo é potente e ben ritmato, trascinante e melodico in perfetto stile Black Album: nulla di eccezionale o al livello del techno-thrash del passato, ma comunque uno dei momenti migliori del disco a cui appartiene.
OF WOLF AND MAN
Off through the new day's mist I run Out from the new day's mist I have come I hunt Therefore I am Harvest the land Taking of the fallen lamb Off through the new day's mist I run Out from the new day's mist I have come We shift Pulsing with the earth company we keep Roaming the land while you sleep Shape shift, nose to the wind Shape shift, feeling I've been Move swift, all senses clean Earth's gift, back to the meaning of life Bright is the moon, high in starlight Chill in the air, cold as steel tonight We shift Call of the wild Fear in your eyes It's later than you realized I feel a change Back to a better day Hair stands on the back of my neck In wildness is the preservation of the world So seek the wolf in thyself Shape shift, nose to the wind Shape shift, feeling I have been Move swift, all senses clean Earth's gift Back to the meaning of wolf and man.
DELL'UOMO E DEL LUPO
Corro attraverso la nebbia dei nuovo giorno, sono venuto dalla nebbia del nuovo giorno, caccio perciò sono, mieto la terra, prendo l'agnello caduto. Corro attraverso la nebbia del nuovo giorno, sono venuto dalla nebbia del nuovo giorno; ci trasformiamo pulsando con la terra, ci facciamo compagnia vagando per la terra mentre dormi. Forma, cambiamento, mi sento rinato, mi muovo veloce, tutti i sensi nitidi. Il dono della terra, torno indietro ai significati dell'uomo e del lupo. Luminosa è la luna alta nella luce delle stelle, fredda è l'aria, come acciaio stanotte. Ci spostiamo, il richiamo della foresta, paura nei tuoi occhi, è più tardi di quanto pensassi Forma, cambiamento, mi sento rinato, mi muovo veloce, tutti i sensi nitidi. Il dono della terra, torno indietro ai significati dell'uomo e del lupo. Sento di mutare forma, di nuovo ad un miglior giorno, i capelli mi si rizzano sul collo; la conservazione del mondo è nel selvaggio, perciò cerca il lupo che è in te. Forma, cambiamento, mi sento rinato, mi muovo veloce, tutti i sensi nitidi. Il dono della terra, torno indietro ai significati dell'uomo e del lupo.
UN MONDO DI BESTIALITA'

ESSENZA SPORCA DELL'UOMO. L'uomo è malvagio, l'uomo è perverso. Giorno dopo giorno ti accorgi di quanto infima e bastarda può essere la razza a cui appartieni, capace di sorriderti in faccia e deriderti alle spalle nel lasso di pochi secondi, fagocitato dal desiderio implacabile di avere, dominata dalla voglia materiale -anche corporea- dell'altro, incapace di volere bene genuinamente e senza secondi fini. Costrinzioni, compromessi, sospetti, invidie: nella vita di ogni giorno c'è puzza di tutto questo, quando non si sfocia in peggio, nei crimini, negli omicidi, nelle cose peggiori che questi porci suini sanno mettere in atto, colti dalla follia delle loro menti malate. L'uomo ha la malvagità insita in sè fin dalla nascita o la matura crescendo e convivendo con una società di falsità, moralismi, delirio di onnipotenza ed esaltazione delle proprie volontà? La risposta non arriverà mai, ma 'Of Wolf and Man' è uno delle tante ammissioni di colpa che la stessa razza umana ha fatto nel corso dei secoli, riconoscendo la propria bestialità e parlandone a viso aperto. Chi sa di non essere perfetto, chi riconosce i propri difetti, può anche cercare di migliorarsi, aprirsi all'altro che lo comprende, limare la sua natura malvagia.

NOTHING ELSE MATTERS

METALLICA, NON IMPORTA NIENT'ALTRO. Il Black Album è il gioiello da classifica dei Metallica, e 'Nothing Else Matters' il singolo che li fa spopolare alla radio. Una canzone d'amore, lenta e malinconica: i fans dell'incandescente thrash combo di Frisco ci hanno messo un pò ad accettare tutto ciò, ma la strada è stata tutta in discesa dopo aver capito le emozioni che questo pezzo sa dettare al di là degli interessi di business. E' un James nuovo, quello che compone la canzone per una sua ex ['Non mi sono mai aperto così tanto']; tuttavia i concetti e i dolori che li dettano sono quelli di sempre ['La vita è nostra, la viviamo a modo nostro': stessa frase di 'Escape'] e tendono a staccarsi con ribrezzo da tutto quello che è esterno: 'Non mi è mai importato quello che fanno, non mi è mai importato quello che sanno'. James ha dichiarato di non ricordare più il motivo per cui l'ha scritta, così ha scelto di dedicarla a tutti i fans dei Metallica. Nei concerti il momento è da brividi, specie leggendo parole come 'Così vicini non importa quanto lontani, cerco la fiducia e la trovo in te; non poteva essere molto di più dal cuore, abbiamo per sempre fiducia in chi siamo'. Messaggio condiviso ampiamente, e sinonimo di grande profondità: anche nelle canzoni più melodiche e mainstream, difatti, i quattro di San Francisco hanno sempre saputo trasmettere messaggi forti e significativi, grazie ai bellissimi testi vergati dalla mano di James Hetfield. Certo, siamo alle prese con una canzone d'amore come molte comparivano nel pieno fulgore degli anni ottanta, ma del resto non è l'amore un sentimento centrale e basilare per l'esistenza di ogni essere umano? Negarne l'importanza o fingere di essere insensibili non fa 'più metallari', ma sa di finto.
NOTHING ELSE MATTERS
So close no matter how far Couldn't be much more from the heart Forever trusting who we are And nothing else matters Never opened myself this way Life is ours, we live it our way All these words I don't just say And nothing else matters Trust I seek and I find in you Every day for us something new Open mind for a different view And nothing else matters Never cared for what they do Never cared for what they know But I know Never cared for what they do Never cared for what they know But I know I never opened myself this way Life is ours, we live it our way All these words I don't just say And nothing else matters Trust I seek and I find in you Every day for us something new Open mind for a different view And nothing else matters Never cared for what they say Never cared for games they play Never cared for what they do Never cared for what they know And I know So close no matter how far Couldn't be much more from the heart Forever trusting who we are No, nothing else matters.
NIENT'ALTRO IMPORTA
Così vicini non importa quanto lontani, non poterebbe esserci nulla di più sentito; abbiamo per sempre fiducia in chi siamo; niente altro importa. Non mi sono mai aperto così; la vita è nostra, la viviamo a modo nostro. E tutte queste parole che non riesco a dire, e niente altro importa. Cerco la fiducia e la trovo in te, ogni giorno qualcosa di nuovo per noi, mente aperta per un'opinione diversa, e niente altro importa. Non mi è mai importato quello che fanno, non mi è mai importato quello che sanno, ma so che non mi è mai importato quello che fanno, non mi è mai importato quello che sanno. Non mi sono mai aperto così, la vita è nostra, la viviamo a modo nostro E tutte queste parole che non riesco a dire, e niente altro importa. Cerco la fiducia e la trovo in te, ogni giorno qualcosa di nuovo per noi, mente aperta per un'opinione diversa, e niente altro importa. Non mi è mai importato quello che fanno, non mi è mai importato quello che sanno, ma so che non mi è mai importato quello che fanno, non mi è mai importato quello che sanno. Così vicini non importa quanto lontani, non poterebbe esserci nulla di più sentito; abbiamo per sempre fiducia in chi siamo; niente altro importa.
HEAVY METAL PER LE MASSE

DIFFONDENDO IL VERBO. La band della gente: grazie al Black Album, trainato proprio da Nothing Else Matters, i Metallica hanno quasi rinnegato quel movimento reazionario da loro stessi guidato, che a inizio anni ’80 aveva portato il thrash metal e il distacco dall’odiata società. Ora i Metallica si fanno portaqtori di un metallo in versione mainstream, andando contro i propri ideali originari e vendendosi alle leggi del mercato. La delusione dei vecchi fans fu enorme, le critiche che la band si prese davvero tantissime. Eppure nel caso Black Album c’è anche una chiave di lettura ampiamente positiva: perché i Metallica, come prima avevano creato per i metalhead una strada alternativa e innovativa,il thrash, ora si ritrovarono nella stessa condizione di voler aprire nuove porte. E ci riuscirono alla grande: quanti, da quel 1991 ad oggi, si sono innamorati dei Metallica grazie a ‘Enter Sandman’ o ‘Nothing Else Matters’, andando a riscoprire le origini della band e da lì spiccare il salto verso il resto del mondo metallico? Tantissimi, inutile negarlo.Chi scriva é tra questi: un tempo catturato da ‘Wherever I May Roam’ e dalle altre canzoni celebri di ‘Metallica’, conosciute grazie ad ‘S&M’: da lì il percorso a ritroso fu completato rapidamente, come un riff al vetriolo di James Hetfield, e in nemmeno un mese l’intera discografia dei Four Horsemen era assimilata e tremendamente esaltante. Grazie ai Metallica si è poi avvertito il richiamo dell’acciaio, alla scoperta di Slayer, Megadeth, Iron Maiden, Judas Priest e via via tutti gli altri, arrivando ad un livello enorme di conoscenze, passioni, stili. Molti avranno ricevuto l’eredità del Verbo anche grazie a ‘Metallica’. Certo, molti si saranno anche fermati al ‘Black Album’, peggio ancora avranno preferito ‘Load’ e ‘Reload’ al loro predecessore; ma costoro non fanno molto testo, quello che conta sono i veri metallari che sono stati inizializzati da ‘Metallica’, un disco con cui Hetfield e soci hanno davvero diffuso il Verbo alle masse, a coloro che mai avrebbero potuto recepire altresì il messaggio. Un messaggio a loro comprensibile, ma che nessuno avrebbe mai indicato se non ci avessero pensato i Quattro Cavalieri, abbandonando le desolate terre brulle e spingendosi nei più evoluti centri urbani, tranquilli ed eleganti, sui loro possenti destrieri di cuoio e metallo.
PIECE OF MIND: I TESTI
RINO GISSI, METALLIZED.IT
Dopo essersi presi per sempre le pagine delle enciclopedie, gli Iron Maiden sterzano verso un sound più progressista e ancor più raffinato, tecnico, intricato ma al contempo maggiormente melodico: in Piece Of Mind, infatti, la pura melodia sopravanza la potenza e l'aggressività, mentre resta spiccata l'epicità connaturata nel sound tipico del quintetto. Anche questa volta non mancano riferimenti letterari, storici e cinematografici: la stupenda ed intensa Where Eagles Dare, fucina di riff e cuciture melodiche a regola d'arte, per esempio, si rifà al romanzo omonimo di Alistair Mc Lean [1967], dal quale fu tratta in seguito anche una pellicola cinematografica; é una storia di azione, spionaggio e avventura ambientata nella Seconda Guerra Mondiale, musicalmente stratificata ed avvincente: Le Alpi Bavaresi tutto intorno sembrano fissarli dal basso, le linee nemiche passate da tanto tempo sono profonde sotto la neve; nella notte cadono dal cielo, nessuno dovrebbe andare dove osano le aquile. Le grida di panico e il rombo dei fucili fanno eco tutt'intorno la valle, la missione é compiuta, riescono a fuggire dal Nido Delle Aquile; hanno osato andare dove nessuno vorrebbe provare, hanno scelto di volare dove osano le aquile. Revelations, musicalmente infarcita di esaltanti cambi di tempo, prende spunto dai libri sacri ai cristiani, non essendo le Rivelazioni altro che il corrispettivo di quanto comunemente tradotto in italiano come Apocalisse di Giovanni, ed esamina le relazioni tra uomo, vita, misticismo e destino, contemplando differenti punti di vista. Quasi una sorta di invocazione ad un Dio che possa salvarci dagli ineluttabili scenari di distruzione nel quale é immerso il nostro pianeta, elemento che peraltro potrebbe apparire come il tentativo di tacere le accuse di satanismo ma che in realtà é solo la conferma di come satanisti non lo siano mai stati, gli Iron Maiden. Tienici tutti assieme, Fiamme con Speranza e Libertà, nessuna tempesta o cattivo tempo scuoteremo la barca; lo vedrai é giunto il momento di chiudere i tuoi occhi. E ancora il vento e la pioggia, per chi sarà il Re: é il Guardiano dell'Anello, Sei tu. Come era stato avventato affibbiare a The Number Of The Beast la fama di pezzo "satanico", allo stesso modo non si può definire Revelations come la prova di un'essenza cristiana nel songwriting della band: é soltanto un riferimento culturale, non per forza il punto di vista dei metallers inglesi, che peraltro auspicano in questo testo un futuro migliore come farebbero, indistintamente, cristiani e non cristiani. Mitologico é anche il contenuto lirico di Flight Of Icarus, anthemico rifacimento del mito di Icaro, figlio dell'inventore del labirinto, Dedalo: Dedalo ed Icaro furono chiusi nel labirinto stesso da Minosse per evitare che ne venissero diffusi i segreti, ma Dedalo progettò delle ali di cera per poter fuggire; nonostante gli ammonimenti del padre a non volare troppo alto, Icaro fu preso dall'ebbrezza del volo e, avvicinatosi troppo al sole, vide le sue ali sciogliersi mestamente, e morì dopo essere collassato in mare: La folla si disperde e compare un ragazzo, guarda il vecchio negli occhi mentre apre le ali e urla alla folla: 'nel nome di dio mio padre, io volo'! Il suo sguardo sembra così vitreo mentre vola sulle ali di un sogno. Ora sa che suo padre ha tradito, ora le sue ali e la sua tomba diventano cenere. Letterario e 'colto' é anche il pezzo più amato e celebrato del disco, la straordinaria The Trooper, rampante galoppata a briglia sciolta ricca di melodie e ritmi incalzanti; il testo é ispirato al poema The Charge Of The Light Brigade di Lord Alfred Tenninson [1854] e narra della battaglia di Balaclava del 25 ottobre 1854, avvenuta nella Guerra di Crimea: un episodio passato alla storia militare della Gran Bretagna coinvolse i soldati della brigata leggera che, per un errore di comunicazione, si ritrovarono circondati dai russi e, con enorme coraggio, decisero di affrontarli frontalmente, pur sapendo di essere già spacciati. Fu un massacro, ma il loro coraggio viene ancora oggi lodato e ricordato nelle Terre di Sua Maestà: l'epica cavalleresca si fa fibrillante grazie alla musica rampante, che rende bene l'idea di un attacco frontale attraverso i ritmi veloci e i riff esplosivi. l'interpretazione di Bruce Dickinson é eroica e ben incarna il pensiero dei soldati inglesi nella classica giubba rossa: Voi vi prenderete la mia vita ma anch’io prenderò la vostra; darete fuoco al vostro moschetto ma vi farò sprecare il colpo. Perciò quando vi aspetterete il prossimo attacco fareste meglio a resistere, non c’è via di scampo. La tromba suona e la carica comincia, però su questo campo di battaglia nessuno vincerà. L'odore acre del fumo e il respiro dei cavalli, mentre mi lancio verso una morte certa: il cavallo suda di paura noi rompiamo le righe per correre. Il potente fragore delle pistole russe, e mentre corriamo verso la muraglia umana le urla di dolore quando i miei camerati cadranno. Saltiamo i corpi stesi a terra, e i russi sparano un’altra volta; siamo così vicini eppure così lontani, non vivremo per combattere un altro giorno; ci siamo avvicinati abbastanza per combattere, quando un russo mi avvista preme il grilletto e io sento il colpo, una raffica abbatte il mio cavallo. E mentre sono disteso a terra fisso il cielo, solo e dimenticato; il mio corpo è intorpidito e la mia gola è secca, senza una lacrima urlerò il mio lamento d'addio. Solenne e piacevole, Quest For Fire é ambientata nell'Europa paleolitica e si rifà all'omonimo film di JJ Annaud [1981], a sua volta riferito al romanzo di HJ Rosny, datato 1911: tribù di uomini primitivi cercavano di difendere e conservare il fuoco, ritenuto un vero e proprio dono della natura e per questo conteso in vere e proprie battaglie: E pensavano che quando il tizzone si spegneva la fiamma della vita sarebbe bruciata e morta: non sapevano che le scintille che facevano il fuoco erano frutto dello sfregare il bastoncino con la roccia, così erravano attraverso foreste e paludi pericolose, e combattevano tribù cannibali e bestie per trovare un altro fuoco e riguadagnare il potere della luce e del calore. La dinamica Sun And Steel tratta del samurai Musashi Miyamoto [1584-1645], ritenuto il più grande spadaccino giapponese della storia, nonché scrittore e protagonista di diverse leggende che vengono spesso mescolate ai reali avvenimenti della sua esistenza; nella canzone viene raccontato di come si allenava all'inverosimile e finì per uccidersi facendo harakiri: Attraverso terra e acqua, fuoco e vento, alla fine sei arrivato: il niente era la fine. Fai un taglio di fuoco e pietre, prende te e la tua lama e vi spezza in due. La luce del Sole cade sul tuo acciaio: morte in vita é il tuo ideale, la vita é come una ruota. Interessante notare il riferimento ai quattro elementi costitutivi della cultura taoista citati [acqua, terra, fuoco e vento], mentre il quinto, il vuoto, viene incontrato soltanto alla fine [alla fine sei arrivato: il niente era la fine]: questo riferimento é fondamentale per ricondurre a Miyamoto il significato del brano, essendo il samurai autore del Libro degli Elementi, suddiviso in cinque capitoli facenti riferimento proprio ai cinque segni costitutivi. Intricata, solenne e capace di districarsi in un crescendo di pathos e melodia, To Tame A Land si rifà al romanzo Dune di Frank Herbert: questi, che diceva di non amare le band rock [sopratutto quelle più pesanti, come gli Iron Maiden] non concesse al quintetto inglese il diritto di poter usufruire del titolo della propria opera, e sarà in seguito ripagato con un celato Herbert deve morire sulla copertina di Somewhere In Time. Il racconto é impostato su un universo molto vasto di creature, razze, luoghi e tecnologie immaginarie, situate nella terra chiamata pianeta Dune. Gli avvolgenti assoli melodici danno grande profondità al pezzo, uno dei più belli dell'intera carriera di questa band inconfondibile. Non mancano tematiche di diversa estrazione, frutto per lo più di fantasie e riflessioni personali allacciate a considerazioni popolari o comuni. Die With Your Boots On fa riferimento ad una possibile guerra apocalittica e alle relative profezie; é inoltre un invito a morire dandosi da fare, senza restare passivi alla propaganda e ai proclami. Il titolo deriva da un'espressione tipica dei western: se devi morire, fallo con gli stivali. In pratica, il pezzo é un'incitazione a non arrendersi di fronte ai problemi e alle catastrofi o alle guerre annunciate da falsi profeti [viene anche citato un francese, probabilmente Nostradamus] o da previsioni improbabili, tese a creare scompiglio tra la gente: Un altro profeta di catastrofi che dice che la nave è perduta, un altro profeta di catastrofi che ti lascia a farne le spese, che ci irrita con le visioni, e ci affligge di terrore: che predice la guerra per milioni nella speranza che ne appaia una. Nessun motivo per chiedere quando, nessuno per chiedere chi debba andare, nessun motivo di chiedere qual'é il gioco, e nessuno di chiedere di chi sia la colpa. Sembra che gli uomini non facciano altro che cercare di capire quando arriverà la fine del tutto, quasi la aspettassero con ansia, salvo poi preoccuparsi e restare attoniti, davanti al terrore, senza affrontare le vere difficoltà dell'esistenza: non mancano dunque riferimenti esistenziali importanti nella vasta discografia maideniana, e mai argomento potrebbe essere così attuale viste le profezie sinistre che da anni dipingono questo 2012 come anno ultimo del nostro pianeta. La discreta Still Life sembra essere basata su una storia immaginaria che parla di un uomo attrato da un lago, che vede nelle sue acque dei volti: questi gli suscitano degli incubi e dei tormenti, fino a quando l'uomo decide di saltarci dentro mortalmente: esso portò con sé la propria donna, sostenendo che gli spiriti del lago lo chiamavano e non solo me, vogliono anche te.

CAUSE FOR CONFLICT

KREATOR [ALTERNATIVE THRASH METAL], 1995
Pensi ai Kreator e ti tranquillizzi subito, sai che non resterai deluso ed anche questa volta potrai goderti una scarica di thrash furioso e martellante. Ad un certo punto, tuttavia, ti assale un dubbio: non sarà mica un album degli anni 90, vero? Ed invece sì, caro amico thrasher, preparati a sperimentalismi, innovazioni ed avvicinamenti ad altri generi solitamente a te non proprio graditi. Torniamo seri. Siamo nel 1995, ovvero a metà del decennio più buio per la scena metal mondiale ed in primis di quella thrash: i Metallica arrancano paurosamente e sfornano, oltre al Black Album, il mediocre Load ed il pessimo Reload, gli Slayer incidono addirittura un album di cover hardcore [Undisputed Attitude], gli Anthrax praticamente si eclissano, i Megadeth vivono sull’onda di Rust In Peace, i soli Pantera spopolano, ma ci sarebbe da fare tutto un discorso su quanto la loro proposta groove fosse assimilabile al thrash delle altre band. Ed i Kreator? Ebbene, anche il gruppo di Essen non riuscì a confermare i successi ottantiani, virando, a partire da Renewal [1992], verso delle sperimentazioni che culminarono nel discusso Endorama [1999]. Cause for Conflict si inserisce in questo quartetto di transizione -completato da Outcast- ed è caratterizzato da un sound molto particolare: vengono in parte abbandonate le atmosfere cupe del predecessore, vi sono influenze industrial e groove, viene dato grande risalto alla sezione ritmica [in particolare al basso di Christian Giesler] e mancano quegli assolo al fulmicotone tipici del genere. I testi sono critici come non mai nei confronti della società e delle sue istituzioni antiliberali, forse frutto di un momento storico di certo non facile per una Germania da poco riunificata. L’opener Prevail e Chatolics Despot [spietata nei confronti della Chiesa] non sono certo dei pezzi old-school come quelli che ritroveremo a partire dal 2001 con Violent Revolution, tuttavia costituiscono una buona sintesi tra lo sperimentalismo novantiano ed i canoni che la band aveva seguito nel decennio precedente. Progressive Proletarians è caratterizzata da numerosi cambi di tempo e da una grande prestazione alle pelli di Joe Cangelosi [ex Whiplash], mentre Crisis of Disorder vede delle chiare influenze dei Pantera, specie per quanto riguarda le chitarre. Hate Inside Your Head non è altro che un filler, un brano privo di spunti interessanti, al contrario di Bomb Threat, dove Petrozza ci urla in faccia tutta la sua rabbia verso questa società. Men Without God e Lost riprendono le caratteristiche dei primi due pezzi, risultando magari adatti anche ai thrasher più oltranzisti, anche grazie ad una maggiore velocità di esecuzione: probabilmente i due episodi più vicini alla produzione ottantiana del gruppo. Demonic è un’altra traccia di livello mediocre, Sculpture of Regret è decisamente interessante perché anticipa le peculiarità del successivo Outcast, nel quale i Kreator percorrono una strada definibile come dark e quasi “mistica”. Celestial Deliverance ed Isolation vanno invece a ritroso, riprendendo le atmosfere cupe e gli sperimentalismi di Renewal. In mezzo a queste due, ecco la bonus track State Oppression, il momento più violento e brutale dell’intera release. Tirando le somme, Cause for Conflict è sicuramente un album difficile da comprendere ed analizzare in maniera limpida, poiché non abbiamo a che fare con i Kreator tout court, ma con la loro versione novantiana, piena di spunti diversi e non sempre così piacevoli. Il risultato finale è comunque un disco gradevole, seppur lontano dai capolavori della band.
RENEWAL

KREATOR [1992], ALTERNATIVE THRASH METAL
Renewal, pubblicato dai teutonici Kreator nel 1992, segnò un significativo cambiamento nello stile della band, cambiamento che all’epoca non fu molto apprezzato dai fan: molti, infatti, rimasero sorpresi perché la linea musicale fino a quel momento seguita da Petrozza e compagni, basata sul thrash più complesso e violento, veniva parzialmente sostituita da un sound sempre potente, ma più statico e lievemente influenzato dalle atmosfere industrial che stavano per sorgere in quel periodo storico. Pochi gli assoli di chitarra, perché la filosofia dell’album è costituita essenzialmente dalla ricerca di atmosfere cupe e groove, sulle quali si dipanano liriche apocalittiche che palesano scenari inquietanti e pessimismo sul futuro dell’umanità. Quando un gruppo decide di tentare nuove soluzioni artistiche, abbandonando strade consolidate, i rischi che si corrono sono molteplici: indubbiamente andrebbe comunque premiato il coraggio, a meno che non si sconfini nel banale; Renewal va in parte rivalutato in quanto si riscontrano alcuni ottimi brani nel contesto di una musica che potremmo definire una sorta di thrash alternativo, nel quale però le linee vocali e le direzioni sonore sembrano eccessivamente ripetitive e statiche, simili canzone dopo canzone. L’opener Winter Martirium fa subito intendere che i Kreator non hanno perso la loro aggresività: la ritmica è superba -Ventor eccelle alle pelli- poi il pezzo esplode in un vortice sonoro nel quale Petrozza vomita con veemenza la sua rabbia; il finale muta in continuazione con rallentamenti ed accelerazioni che stordiscono l’ascoltatore. La title track è pesante come un macigno, strutturata in un mid tempo convenzionale e con un tema portante bellissimo. Reflection ha un incedere meno sostenuto e vagamente melodico, e nel complesso si tratta di una delle canzoni meno riuscite. Con Brainseed si ritorna al thrash più classico, mentre un possente drumming apre Karmic Wheel, brano dall’andamento marziale, che ad un certo punto si stempera a favore di un andamento soffuso e glaciale, per poi riprendere intensità nella parte finale. Realitaskontrolle è un mero riempitivo di suoni campionati, più consono in un album dei Nine Inch Nails; Zero The None pone in maggior evidenza un grande Petrozza, anche se si tratta di una traccia un po’ monocorde; di tutt’altra levatura Europe After Rain: devastante, arcigna e caratterizzata da un cambio di tempo spettacolare, che trascina l'ascoltatore fino alla devastazione finale. Infine, l’anomala Depression Unrest chiude degnamente l’album, in virtù della sua coinvolgente tematica melodica. Le sperimentazioni industrial e groove verranno riprese in Cause For Conflict e Outcast, anche se meno marcatamente, mentre in Endorama si virerà pericolosamente su un indigesto gothic/heavy metal; poi fortunatamente i Kreator torneranno al sound che li ha resi famosi. Renewal è un full lenght diverso, permeato di un crepuscolarismo che potrebbe trovare le sue origini nel particolare e confuso momento storico vissuto dalla Germania in quegli anni: la felicità per la caduta del muro di Berlino e la terribile incertezza e paura del futuro.
THE NUMBER OF THE BEAST: I TESTI

RINO GISSI, METALLIZED.IT
Con l'ingresso in line-up del nuovo cantante Bruce Dickinson, gli Iron Maiden svoltano verso un sound potente e maestoso, che volge lo sguardo al power metal, abbandonando ogni parvenza di sonorità street-rock; vengono centuplicate le celebri galoppate, le sezioni strumentali intricate ed ultra melodiche, le ambientazioni epiche e le tematiche storiche, letterarie, in ogni caso colte e non banali. I duelli di chitarra, i fraseggi armonizzati, le vocals teatrali e l'energia viva che sgorga dal disco lo rende un capolavoro intramontabile nella storia dell'heavy metal. Non sono in pochi a ritenere questo disco come il vero capolavoro della formazione inglese, a fronte di un'ispirazione fortissima e di una nuova direzione stilistica che verrà presa ad esempio nei dischi successivi anche dagli stessi ragazzi di Steve Harris: il platter, inutile girarci attorno, profuma di leggenda, ha il sapore antico e affascinante degli anni ottanta, é imbevuto di quel meraviglioso alone di mistero che solo l'heavy metal dei primordi poteva regalarci, e contiene una sequela importante di canzoni passate alla storia, sia per i loro contenuti lirici che per le imperiose architetture strumentali e melodiche che hanno contribuito a rendere inimitabile lo status-quo della Vergine di Ferro. Impossibile non iniziare l'analisi tematica dalla titletrack, The Number of The Beast, un brano che ha fatto epoca non solo per la musica eccellente ma anche e soprattutto per i contenuti, a lungo ritenuti satanici e blasfemi dai bigotti e superficiali censori della musica dura. Sinistramente introdotta da un breve passo biblico, la canzone si apre oscura, sorretta da un riffing inconfondibile, e si apre esplosiva trainata dall'ugola gagliarda di un Dickinson strepitoso, che si lancia a perdifiato in una cavalcata trascinante alla quale é impossibile resistere. L'interpretazione delle liriche si basa su tre correnti di pensiero principali. Secondo la prima, si fa riferimento ad un incubo avuto da Steve Harris, nel quale venivano compiuti sacrifici umani; la seconda, associa il testo al film Damien Omen II, in cui un tredicenne dai poteri soprannaturali scopre suo malgrado di celare una natura demoniaca: a chi tenta di avvertire la famiglia di Damien di questo orrore capitano disgrazie mortali. La terza interpretazione si rifà alla lettura scolastica del poema Tam O'Shanter di Robert Burns, nel quale il protagonista assiste ad un rituale, forse in sogno o forse nella realtà, e ne resta shockato, disperato. Probabilmente é l'unione di tutti questi elementi ad aver generato The Number of The Beast: la versione ufficiale parla di un incubo avuto da Harris proprio dopo la visione del film citato: Cosa ho visto? Devo credere che ciò che ho visto quella notte era vero e non immaginazione? Quello che ho visto nei miei vecchi sogni erano riflessi della mia mente malata che mi fissava? Perché nei miei sogni c'è sempre questo volto diabolico che mi stravolge la mente e mi getta nella disperazione? La notte era spoglia era inutile trattenersi, perché dovevo vedere se qualcuno mi guardava; nella foschia figure scure si agitano e contorcono, era vero o era l'inferno? 666, il numero della bestia, inferno e fiamme generati per venire liberati. Le torce bruciavano e le sacre litanie innegiavano: quando iniziano ad urlare portano le mani al cielo , nella notte i fuochi risplendono, il rituale è iniziato, l'opera di Satana è compiuta: 666 il numero della bestia, il sacrificio procede stanotte. Non può continuare così, devo informare la polizia. E' ancora vero o è un sogno folle, ma mi sento attirato dalle orde sataniche che cantano: mi sento ipnotizzato, non riesco a evitare gli occhi, 666 il numero della Bestia, 666 il numero per me e te. I due assoli di chitarra, caldi e ribollenti, scorrono veloci e ci fanno ricongiungere col refrain, in maniera ancor più viscerale e coinvolgente. Basterebbe leggere questi versi, per accorgersi che di satanico non c'é proprio nulla: ma si sa, chiedere di usare il cervello a certa gente é eccessivamente pretenzioso. Altro pezzo trascinante e ormai definibile sacro presso i fans della Vergine di Ferro, Run To The Hills é una composizione semplice densa di pathos ed energia, impreziosita da un'ottima sezione solista; il testo fa riferimento alla storia, trattando le vicende degli Indiani d'America, ed é il primo esempio di brano 'realista' del platter: la prima metà é scritta dal punto di vista dei pellerossa (L'uomo bianco è venuto dal mare, ci ha portato dolore e sofferenza, ha ucciso le nostre tribù e la nostra religione, ci ha preso la selvaggina per i suoi bisogni), mentre la seconda da quello dei soldati americani: A cavallo nella polvere e nelle pianure aride, a tutto galoppo nelle pianure, ricacciando i pellerossa nelle loro tane, facendo il loro stesso gioco: uccidi per la libertà, pugnala alla schiena. Il pezzo punta il dito contro le violenze commesse contro le varie tribù, represse senza pietà dalle truppe a stelle e strisce: soldato blu nelle pianure aride, caccia e uccide i loro animali, violenta le donne e fa fuori gli uomini; l'unico indiano buono è quello ammaestrato, gli vendono whiskey e gli rubano l'oro, fanno schiavi i giovani e distruggono i vecchi: scappate sulle colline se ci tenete alla vita. Anche l'opener Invaders, breve e veloce, si rifà ad un episodio storico, l'invasione vichinga in Inghilterra: chiamata alle armi, preparatevi a dovervi difendere, a dovere lottare per la vostra vita: il giorno del giudizio è arrivato, siate pronti non fuggite. Provengono dal mare, il nemico è arrivato sotto il sole accecante, la battaglia deve essere vinta. Gli invasori saccheggiano, gli invasorirazziano. Per estensione, il significato dei versi è applicabile a qualsiasi forma di invasione, tema caro alla band inglese, che non si risparmia in cruenza lirica: le asce e le mazze si scontrano, i feriti crollano al suolo, arti mozzati ferite mortali, corpi insanguinati tutt'attorno, odore di morte e carne bruciata, esausti lottano sino alla morte: i Sassoni sono soprafatti, vittime dei potenti Norvegesi. Nel disco sono anche presenti un paio di tracce dal profilo basso: Gangland, che parla del mondo della criminalità organizzata (omicidi, violenze, killer, fughe e vendette assortite), e Total Eclipse, che narra di elementi catastrofici riguardanti l'oscuramento del Sole e la fine del mondo. Capolavoro assoluto del disco é la maestosa Hallowed Be Thy Name, ancora ispirata a fatti realistici, anche se non storici: un sontuoso intrigo di trame, riff, scorribande epiche e melodie cristalline, fraseggi pazzeschi e lunghe sezioni strumentali da capogiro. Il testo parla dei sentimenti di un condannato a morte che aspetta l'esecuzione: esso si chiede se sia giusto ciò che gli sta capitando, domandandosi perché Dio non lo aiuta: Sto aspettando nella mia fredda cella quando la campana comincia a rintoccare. Rifletto sul mio passato e non ho molto tempo, perche alle cinque mi porteranno al palo della forca. Le sabbie del tempo per me stanno scorrendo lentamente: quando il prete viene a concedermi l’ estrema unzione, io attraverso le sbarre guardo per l’ ultima volta un mondo che è stato crudele con me'. Alcuni passaggi del testo sono molto emotivi e toccanti, esaltati da una sifnonia imponente e ricca, imbastita sapientemente dalle chitarre, dalla voce straripante di Dickinson e dal basso pulsante: 'Le lacrime scorrono perchè sto piangendo, dopo tutto non ho paura di morire. Non credo che che ci sia una fine. Mentre le guardie mi fanno marciare fuori nel cortile, Qualcuno mi dice da una cella 'Che Dio sia con te'. Se c`è un Dio perche mi ha lasciato morire? In coda é anche presente una frase che potrebbe essere interpretata come metafora della vita o che, più semplicemente, ci indica quanto siamo piccoli al cospetto dell'esistenza stessa: Quando saprai che il tuo tempo è vicino alla fine, forse comincerai a capire che la vita quaggiù è solo una strana illusione. Il primo riferimento cinematografico del disco, Children Of The Damned, é un altro pezzo imponente, che si apre come malinconica ballata ed esplode in una pirotecnica sezione conclusiva, nella quale spicca uno sferzante guitar solo dagli intrighi cristallini; essa é ispirata all'omonimo film britannico del 1960, che racconta le vicende di sei bambini dai poteri straordinari e dall'intelligenza fuori dal comune, provenienti da ogni parte del mondo e radunati a Londra con lo scopo di controllarli e sfruttare le loro potenzialità: Cammina come un bimbo, ma attento i suoi occhi ti possono incenerire, buchi neri nel suo sguardo dorato. Dio solo sa che vuole tornare a casa, figli dei Dannati. The Prisoner é ispirata all'omonimo telefilm trasmesso per la prima volta in Gran Bretagna nel 1967/68: il protagonista é un ex agente segrato britannico che viene tenuto prigioniero in un villaggio misterioso da persone che vogliono capire il perché delle sue dimissioni: etichettato come numero sei, tenta più volte la fuga dal villaggio. Il brano presenta valide melodie vocali e sfocia anch'esso in uno splendido assolo di chitarra; può essere interpretato come idealizzazione di una fuga dalla società schematizzante: Non un prigioniero, sono un uomo libero, e il mio sangue ora mi appartiene; non m'interessa dov'era il passato, so dove sto andando. Non sono un numero, sono un uomo libero, vivrò la mia vita come voglio io. 22 Acacia Avenue é un testo che sa di leggenda metropolitana, e riprende la saga della prostituta Charlotte, anche se nella terminologia britannica si tende a indicare col termine 'Acacia Avenue' una strada di periferia appartenente alla middle class; compaiono nuovi riferimenti allo stile di vita estremo della donna (A volte quando sei per strada il modo in cui cammini scatena i desideri degli uomini, quando cammini per strada tutti si fermano e si girano a guardarti; 22 il posto dove tutti andiamo, vedrai dentro é caldo, stanotte la luce rossa brilla. Picchiala, trattala male, falle tutto ciò che vuoi farle, morsicala, eccitala, mettila in ginocchio, insultala abusa di lei, sopporta tutto, accarezzala, molestala, farà sempre ciò che vuoi) ed esortazioni a cambiare: Charlotte perchè non fuggi da questa pazzia, non vedi che ti reca solo tristezza? Quando ricevi i clienti non vedi il rischio delle malattie? Quando avrai 40 anni scommetto che rimpiangerai i giorni in cui ti prostituivi, nessuno vorrà più sapere di te, non avrai più questa bella merce da mostrare. Scappi e non ti rendi conto, non vedi che ti rovinerai? Charlotte hai preso la tua vita e l'hai buttata via, credi che i soldi le diano senso, non capisci che stai facendo male alle persone che ti amano, non scansarle. Tutti gli uomini che non fanno che sbavare, non è una vita per te, poni fine a questo schifo, fai le valigie e parti con me. Ancora pregevoli trame melodiche in primo piano e quel monito finale che sembra confermare la tesi secondo la quale la saga fu composta in riferimento alla cotta di Murray per la prostituta.