RINO GISSI, METALLIZED.IT. PARTE PRIMA
Blind Guardian.
Il clangore delle spade echeggia nel bosco, la battaglia impazza sotto
un rosso tramonto, truppe a cavallo marciano nelle lande fantastiche,
ai piedi di poderosi manieri, mentre negli antichi borghi paesani la
vita scorre come ogni altro giorno: il sudore nei campi, i bambini che
giocano attorno al pozzo, i menestrelli che intrattengono i popolani
attorno ai focolari sotto le stelle. È in uno scenario del genere che
potremmo collocare idealmente la meravigliosa eredità musicale dei
leggendari Blind Guardian, tedeschi di Krefeld, nell’antica regione
della Renania Settentrionale-Vestfalia. Icone dello speed-power metal
teutonico, tanto devastanti nell’avanzata frontale a folle velocità
quanto sopraffini nell’intessitura di pregevoli melodie medievali, i
Blind Guardian hanno attinto a piene mani dal genere potente e veloce
plasmato dai primissimi Helloween, prima rendendolo ancora più
terremotante ed epico, quindi portandolo ad un successivo livello di
eccellenza tecnica e reminiscenze melodiche dai tratti medievali,
infine introducendo sottili nervature sinfoniche, nell’arco di una
carriera longeva e ricca di masterpieces. Maestose ed intricate, le
composizioni presenti nei loro primi sei album in studio restano ancora
oggi spettacolari manifesti del power metal più ruggente, epico ed
incontaminato: le chitarre sferrano riff granitici e tonanti, corrono a
velocità elevate su ritmiche martellanti e attraverso assoli fluidi,
di rara bellezza, sintomo di una capacità tecnica notevole, trame
complesse ed articolate fungono da sfondo regale per linee vocali
enfatiche, drammatiche e memorabili; l’immaginario fantastico su cui i
cinque tedeschi hanno imbastito la loro grandezza, inoltre, rappresenta
una sorta di magia nella magia, vertendo sui racconti letterari di
autori come Tolkien, oltre che su altre suggestioni appartenenti a
mondi lontani e realtà oniriche. Uno stile lirico e musicale che ha
influenzato e continua ad influenzare generazioni e generazioni,
vestigia di una band che non ha mai sbagliato un colpo e che rappresenta
un vero e proprio patrimonio dell’intera comunità metallica mondiale.
La storia inizia nel 1985 a Krefeld, anticamente annoverata nella
contea di Moers ed elevata al rango di città nel 1373: un borgo
costituito da diversi quartieri, uno dei quali sorto sui resti di un
antico accampamento risalente all’Impero Romano. È in questa realtà
intrisa di storia che sorgono i Lucifer’s Heritage, fondati dal
chitarrista André Olbrich e dal bassista Hansi Kürsch, che sceglie di
impugnare anche il microfono. All’altra chitarra arriva Marcus Dork,
mentre dietro alle pelli si colloca Thomas Stauch: con questa line-up
venne realizzato un primo demo assai rozzo, Symphonies of Doom, che però
attira poche attenzioni; in questa fase iniziale i cambi di formazione
erano ancora naturali, così che Hans-Peter Frey rilevò presto Stauch,
mentre Christoph Theissen sostituì Dork, completando la seconda
incarnazione della band. Così organizzati, nel 1987 i Lucifer’s Heritage
pubblicarono il secondo demo, Battalions of Fear, ma si trovarono a
dover cambiare moniker prima in Battery quindi in Blind Guardian poiché
si accorsero che la gente disdegnava i loro concerti credendoli una
black metal band, come testimonia Hansi Kursh: 'Lucifer's Heritage non
andava bene, suonava troppo demoniaco e non c'entrava nulla con la
musica che facevamo. Allora andava di moda il black metal e molti ci
infilavano in quella categoria per colpa del nome. Già al momento di
firmare il nostro primo contratto i responsabili della No Remorse
avevano inserito la clausola del cambiamento del nome; scegliemmo
proprio Blind Guardian perché già all'epoca eravamo tutti interessati a
tematiche fantasy, e c'era un album dei Fates Warning che si chiamava
'Awaken the Guardian': questa idea del Guardiano continuava a girarci
in testa, la trovavamo realmente forte, abbiamo cercato qualcosa che ci
stesse bene assieme e siamo arrivati al guardiano cieco'! Battalions of
Fear frutta un tanto agognato contratto con la No Remorse records e nel
1988 la line-up si stabilizza col rientro definitivo di Stauch e
l’ingresso del valido chitarrista Marcus Siepen al fianco del rodato
Olbrich. Carichi d’entusiasmo ed energia, i cinque ragazzi entrano in
studio e danno alla luce il loro primo album, Battalions of Fear, che
si rivela una roboante mazzata di speed metal dai tratti quasi thrashy:
imbevuto di ottimi contributi melodici ed epicità a fiotti, il disco
sembra subito prendere spunto dal power metal degli Helloween di Walls
of Jericho, raddoppiandone però la carica, la possenza, eliminandone le
sfumature più funny e costituendo un alone di serietà intimidatoria
attorno a bordate irresistibili come la titletrack o la stupenda Run for
the Night, quest’ultima caratterizzata da riffery tritaossa e da un
refrain arioso da cantare in coro. Le chitarre macinano partiture
telluriche ed incalzanti, mentre Hansi Kürsch interpreta alla grande
l’atmosfera epica col suo vocione ruvido ed evocativo. Trascinanti erano
anche The Martyr, con le sue vocals evocative, la stessa Guardian of
the Blind o le pregevoli strumentali Trial by the Archon, By the Gates
of Moria e Gandalf’s Rebirth, evidenti riferimenti a romanzi di
derivazione fantasy; la sontuosa opener Majesty, una suite di sette
minuti pregna di adrenalina, assoli da capogiro e riff letali sparati a
folle velocità, incarna tutta l’essenza grezza e tipicamente teutonica
trasmessa da una band ricca di idee, che inizia da subito a scrivere
pagine memorabili nella storia del genere. Anche se questo, forse, non
venne colto immediatamente. Hansi Kursh ricorda così la prima fatica
della sua band: 'Grande nervosismo, soprattutto in studio, eccitazione,
energia, molta energia, forse addirittura di più che negli anni a
seguire. Inesperienza, ancora una forte ispirazione da parte degli
Helloween, anche se non eravamo una copia,e poco tempo in studio,
anche se rispetto alla media abbiamo avuto a disposizione abbastanza
denaro. Ci fu un pò di delusione, anche,pe rchè le aspettative erano
enormi, dopo il disco ci sentivamo delle rockstar ed invece non era
cambiato niente. Facemmo un tour in supporto ai Grinder, con una
trentina di spettatori in media a serata, e ci chiedevamo se un giorno o
l'altro avremmo potuto vivere di musica, o anche solo se avremmo avuto
la possibilità di realizzare un secondo album'. Non potevano
immaginare quanto grandi sarebbero diventati nel giro di pochissimi
anni.
BIOGRAFIE BLIND GUARDIAN: HANSI KURSCH
Schiacciando
vigorosamente il piede sull’acceleratore e scoccando ulteriori fondate
di melodia vertiginosa e potenza considerevole, i cinque di Krefeld
tornano sul mercato l’anno successivo, forti di un disco più maturo e
curato dal punto di vista tecnico come Follow the Blind, introdotto da
una fuga irresistibile e compatta come Banish from Sanctuary, un
piccolo gioiello di power tedesco nonché degno biglietto da visita per
il disco: velocità, potenza urticante, ritmiche ancora una volta
ultraspeed, headbanging garantito, vocals da brivido e colate bollenti
di melodia. Impossibile non esaltarsi di fronte al riff squillante di
Damned for All Time o per le sue vigorose accelerazioni, per le tinte
fosche ed i ritmi pesanti di Follow the Blind, per la velocità
disarmante ed il chorus irresistibile della scatenata Fast to Madness o
per il capolavoro Valhalla, una gemma irruente e poderosa nella quale la
band omaggia la mitologia norrena e si fregia addirittura del
contributo di Kai Hansen, iconico chitarrista degli Helloween: il duetto
con Kürsch è emozionante e la canzone, come tutto l’album e l’intera
musica dei 'Guardiani', ha la straordinaria capacità di portare il
pathos ed il flavour campale a livelli straripanti, nonostante la non
indifferente violenza ritmica con le quali queste frustate di power
teutonico vengano sferrate. Ricorda Hansi Kursh: 'Tre o quattro pezzi
sono veramente buoni, il resto forse un pò più debole: avremmo dovuto
stare qualche mese in più in sala prove prima di realzizare questo
disco. Soprattutto certe linee vocali o cori non sono eccezionali, ma
con questo disco siamo arrivati in Giappone, come curiosità underground
tedesca. Nessun tour, solo concerti singoli, soprattutto nei weekend,
ma con una buona affluenza. Musicalmente eravamo già migliorati, ma
avevamo tutti un lavoro e non potevamo concentrarci totalmente sulla
band. C'era un feeling più pessimista nel gruppo, a causa di questo
doppio impegno che ci gravava sulle spalle'. La letteratura fantasy e
le atmosfere medievali iniziano a far capolino con sempre maggior
frequenza, mentre il drumworking pressa con insistenza e le asce
scalpellano riff ciclopici: in particolare, la sezione solista di
Olbrich matura e si affina vistosamente, suonando da subito avvincente e
ricercata. Tutte queste peculiarità trovano la consacrazione in Tales
from the Twilight World del 1990, il disco che vale il riconoscimento
internazionale e rappresenta la conclusione del primo mini ciclo di una
carriera splendida. L’imponente Traveler in Time, ispirata al ciclo di
Dune dell'americano Frank Herbert, così come To Tame a land degli Iron
Maiden, è un’opener memorabile, sempre più imbevuta di melodia
cavalleresca e acuminati fendenti rapidi; ma l’intera scaletta punta su
autentiche mazzate ricche di potenza e musicalità, come
l’irresistibile Welcome to Dying -un autentico classico del gruppo, una
galoppata ultra-speed che si rifà al romanzo Folating Dragon di Peter
Straub- e la fantastica e poderosa Goodbye My Friend, canzone epica e
dirompente, incentrata sul capolavoro cinematografico Et di Spielberg.
La prestazione vocale di Kürsch è ancora imperiosa e arricchisce con
refrain trascinanti e gloriosi tutte le tracce in scaletta; le veementi
stilettate di The Last Candle, Tommyknockers o della impetuosa Lost in a
twilight Hall fanno scuotere costantemente la testa, mentre la
strumentale Weird Dreams approfondisce la direzione medievaleggiante che
nei dischi successivi sarà sempre più marcata. Le citazioni al Signore
degli Anelli iniziano ad emozionare attraverso la toccante Lord of the
Rings; il full length è un capolavoro di altissima qualità tecnica, che
lancia la band nell’elite delle metal band più rispettate del globo e
rappresenta un punto di partenza verso un nuovo ciclo stilistico.
Nonostante la velocità e l’irruenza rimangano elementi centrali ed
esplosivi, gli arrangiamenti si fanno sempre più curati; fattore che si
accentuerà di li a poco, col passaggio dalla fallita No Remorse alla
più celebre Virgin Records. Dai racconti del solito Hansi, mai parco di
ricordi interessanti: 'tanto divertimento in studio, in misura maggiore
sia rispetto a prima che a dopo; le nostre canzoni erano più sfrontate
e fresche, la produzione non ottima ma i cori restano ugualmente
potenti. per la prima volta abbiamo registrato ad Amburgo, città che
offre tante possibilità di divertimento, a livello di feste e birra.
Grande atmosfera in studio, abbiamo conosciuto tanta gente simpatica e
divertente. Fu il nostro primo successo commerciale in Germania e
Giappone, rimanemmo a lungo in classifica e finalmente potevamo vedere
il nostro futuro come band professionista. Fortunatamente la nostra
label é fallita e noi siamo approdati alla Virgin, cosa che ci ha dato
grandi vantaggi in seguito. Arrivò anche il nostro primo tour vero e
proprio, assieme agli Iced Earth, altra esperienza molto divertente.
Abbiamo fatto un sacco di feste assieme, e per questo abbiamo anche
dovuto cancellare qualche data'! Con l’inizio degli anni Novanta, la
band aveva creato una sala prove in un antico bunker antibombe
risalente alla II Guerra Mondiale, che veniva anche affittato ad altri
gruppi; già da allora, Hansi si distingueva anche nel ruolo di manager,
con tanto di ufficio nel bunker: fu costruita anche una sala di
registrazione, ove venivano incisi i promo-tape, ed era presente un
piccolo magazzino dove accumulare birre, CD e merchandising. Non
mancava un mini bar, sede di chiarimenti durante e dopo le prove. La
trasposizione metallica dell’opera degli antichi cantastorie era
evidente già da un bel po’, all’interno dello stile imposto dai
metallers di Krefeld, ma si stava per accentuare ulteriormente,
lasciando emergere riferimenti ed analogie con la cultura dei Bardi,
antichi poeti e cantori dei popoli celtici, inizialmente facenti parte
di una casta sacerdotale e istruiti per rappresentare e conservare il
sapere collettivo. Presso le popolazioni gaeliche e galliche, i Bardi
assunsero la forma di poeti professionisti ingaggiati dai Signori locali
per comporre loro degli elogi, mentre nel Romanticismo il termine
“bardo” venne reintrodotto per indicare dei poeti lirici: in ogni caso,
erano dunque personalità importanti, tutt’altro che giullari, figure
troppo affascinanti e mistiche per non suscitare l’interesse dei cultori
più sofisticati dell’heavy metal epico. Come gli antichi bardi
viaggiavano di corte in corte, sperando nell’ospitalità di qualche
signore o di qualche oste che offrisse loro un posto-letto in cambio di
liete novelle raccontate attorno al focolare, così i Blind Guardian
stavano da tempo portando alla cultura metallica qualcosa di intenso e
poco comune, costituito da musica elevata e contenuti profondi, distanti
dalla solita accozzaglia di rozzi cliché e piatti stereotipi, spesso e
volentieri accostabili al frivolo binomio donne & motori,
abusato oltre ogni soglia di normale sopportazione. Nulla di più
distante dall'intrigante universo dipinto dai cinque tedeschi.
Se
già nei precedenti dischi i Blind Guardian avevano reinterpretato il
power metal con una potenza ed un’aura tutta personale e particolare,
con Somewhere far Beyond (1992) danno al genere stesso uno scossone
ancor più considerevole, prendendo una direzione unica, caratteristica,
inconfondibile e forse irrevocabile. Le trame medievali ed i melodici
arrangiamenti di derivazione neoclassica si fanno sempre più curati ed
importanti nell’economia di un sound che resta epico, roccioso,
prestante e veloce nei suoi assalti ultraspeed, ma che stratifica i
propri orizzonti articolandosi in brani più complessi e variegati, nei
quali la veemenza e la rapidità esecutiva acquistano maggior armonia, e
si intersecano con più fluidità in trame non necessariamente sparate a
ritmi forsennati. Aperta da un pregevole arpeggio acustico, Time What
Is Time cresce in un imponente escalation di possenza, spiccando per i
cambi di tempo repentini, le velocità comunque travolgenti, le linee
vocali evocative ed irresistibili ed una sezione solista ammaliante; il
binomio d’apertura è assolutamente mozzafiato, rafforzato dal
devastante e maestoso riffato di Journey Through the Dark, altra
scorribanda vertiginosa dal chorus irresistibile: con due pezzi del
genere, il disco già tuona importanti pretese di leggenda, e mostra
sontuosi riferimenti melodici dai tratti enfatici, sapientemente
mescolati alla consueta dinamica tellurica dello speed-power teutonico,
eccellente quando si scatena col piede schiacciato a tavoletta sul
pedale dell’acceleratore. La produzione dei “Guardiani” poggia su una
gamma di riff marziali assolutamente memorabili, una sequenza di
intuizioni vigorose e roboanti, che ben si intessono su trame
affascinanti e avvolgenti. La breve ballata Black Chamber ed il solenne
mid-tempo Theater of Pain spezzano i ritmi serrati e introducono
cospicue sonorità medievali, tanto che la sensazione è proprio quella
di trovarsi nella secolare fortezza di qualche castellano, arroccata su
una rupe e circondata dai boschi. La sensazione permane durante The
Quest for Tanelorn e Ashes to Ashes, magistrali nell’abbinare chorus
evocativi a nervose accelerazioni da headbanging, ricolme di
adrenalina: la tensione esplode cospicua nell’arco di questi altri due
pezzi eccellenti, nei quali le scorribande a briglia sciolta si
confermano eccezionale trademark del combo europeo. Si giunge così ad
un classico da pelle d’oca, The Bard’s Song- Into the Forest, nuovo
inno della band nonché ballata acustica di straordinario coefficiente
tecnico dedicata alle vestigia dei Bardi; l’atmosfera è sacrale e densa
di emozioni, per un brano che dal vivo tocca nel profondo le corde più
intime degli amanti di questa grande band. The Bard’s Song- The Hobbit
riprende il tema -ed, in parte, alcuni frammenti melodici, oltre che un
passaggio vocale- della precedente traccia, dotandole di arcigne
chitarre elettriche e maggior carica musicale; la composizione scorre
come un mid-tempo epico e ritmato fino ad una vigorosa e caratteristica
accelerazione e si collega all’impareggiabile titletrack, Somewhere far
Beyond, nella quale vengono condensati tutti gli elementi tipici del
five pieces di Krefeld: si accelera, si rallenta, la melodia sgorga e
si sublima attraverso assoli stupendi e chorus pregni di pathos. Uno
stacco di cornamuse arricchisce la composizione e la rilancia verso un
guitar solo avvincente e toccante, importante testimonianza del
validissimo lavoro alle sei corde di Olbrich e Siepen: persino la bonus
track Trial by Fire, con i suoi ritmi impellenti, i riff aitanti e
l’assolo fulminante è talmente bella da poter eclissare da sola canzoni
ben più celebrate di band meno dotate. Le parole di Kursh ravvivano la
memoria: 'Grande lavoro di songwriting per questo disco, non più così
spontaneo come in precedenza. Tecnicamente, Somewhere era motlo
migliore dei dischi precedenti, anche a livello di complessità delle
canzoni. E' il primo dei nostri album che ha un pò il carattere del
concept, attraverso i bardi che concatenano i brani. Era un periodo
difficile per me, mio padre stava per morire... Il disco ha riscosso un
gran successo, ha aperto molte porte in europa per noi; seguì un altro
tour con gli Iced Earth, in sale ancora più grandi, e la nostra prima
visita in Giappone'. Il songwriting si fa maniacale e curatissimo
anche nella stesura di testi di estrazione letteraria, esaltati dalla
performance grandiosa del sempre ottimo Hansi Kürsch: Time What Is Time
è ispirata al libro di Philip K. Dick Il Cacciatore di Androidi, The
Quest for Tanelorn si rifà al libro di Michael Moorcock Elric di
Melniboné, mentre The Bard’s Song: In the Forest e The Bard’s Song: The
Hobbit sono ispirate al romanzo di J.R.R. Tolkien Il Signore degli
Anelli, infine, Somewhere far Beyond si basa sulla serie di racconti de
La Torre Nera di Stephen King. Questi rimandi letterari erano figli del
comune interesse per le opere di grandi narratori fantasy, anche se i
più accaniti divoratori di tali romanzi erano Hansi e Markus,
determinati a creare qualcosa di nuovo che non sembrasse mai forzato. A
tal proposito, Hansi Kursh una volta ha esposto un interessante parere:
'Questo tipo di testi é quello che meglio si adatta alla nostra musica,
ne siamo tutti convinti, e poi crediamo di saperne qualcosa e di poter
realizzare liriche che siano interessanti. Ogni gruppo sceglie di
trattare certe tematiche, noi abbiamo deciso di cimentarci in questo
campo; i testi li scrivo quasi esclusivamente io, anche se spesso mi
arrivano idee ed inputs dagli altri del gruppo, che poi cerco di
tradurre in un testo compiuto. Mi piace dare sfumature diverse alle
storie che scrivo, ispirandomi ad una fonte 'classica' per poi costruire
un'altra vicenda, che a volte non hanno nulla a che vedere col libro'.
Grazie ad un’impennata qualitativa vertiginosa, il combo teutonico
raccolse una notevole messe di consensi, raggiungendo un successo quasi
insperato, soprattutto in Giappone: e proprio nel paese del Sol Levante
fu registrato Tokyo Tales, un’impeccabile live-album registrato
durante il tour dell’ultimo full length: la poderosa accoppiata
Inquisition-Banish from Sanctuary lasciava spazio alle fresche
stilettate di Journey Trough the Dark e Time What Is Time, ben
amalgamate con vecchie scorribande quali Valhalla, Majesty, Welcome to
Dying, Lost in the Twilight Hall o Goodbye My Friend, consegnando alle
voraci frange di fans un prodotto di primo livello ed ottima resa
sonora, una splendida istantanea della prima importante porzione di
carriera di questi infallibili Bardi, apparentemente incapaci di
errori. Una tesi che avrebbe trovato ulteriori conferme. Ricorda Hansi.
'In quel tour avevamo tantissima energia da liberare sul palco, ma la
produzione di Kalle Trapp ci ha un pò limitato su quel disco live.
Voleva modificare un pò troppo il nostro sound: troppi overdubs, troppe
correzioni, il suono non é malissimo ma avrebbe potuto essere molto
migliore, più diretto. Abbiamo preso la decisione di non lavorare più
con Kalle e di cercare qualcun altro per il disco successivo'. Quel
'qualcuno', ricercato in sede di produzione, si chiamava Flemming
Rasmussen, aveva firmato i più splendenti capolavori ottantiani dei
colossi Metallica e avrebbe dato vita al suono meraviglioso del nuovo
disco in studio dei Bardi.
Sembrava
avessero toccato il cielo, i Blind Guardian, eppure il meglio doveva
ancora arrivare: superando anche se stessi, nel 1995 rilasciarono il
cattedratico Imaginations from the Other Side, cupo, pesante,
ridondante. Devastante e melodico, ancora più che in passato: un
capolavoro di tecnica, ulteriormente accentuato nella sua perfetta
sincronia tra dirompenti assalti rapidi ed armonie medievali,
aggrappato liricamente ad un universo letterario fantastico che si pone
come allegoria della vita: la lotta incessante tra il bene e il male,
la voglia di fuga ed il sogno di un abbandono ad un mondo surreale ed
utopistico. La coppia Olbrich-Siepen intesse una nuova messe di riff
statuari e colossali, capaci di ritagliarsi da subito un posto
rilevante nella storia dell’intero panorama heavy metal: nulla è
lasciato al caso, le trame si fanno sempre più articolate e ricche di
poliritmie, ed anche se la velocità resta centrale ed elevatissima è
possibile godere di un campionario di soluzioni, ambientazioni, armonie e
dinamiche assolutamente sterminato. Il disco era nato attraverso un
processo lungo e travagliato: durante le registrazioni, infatti, Hansi
fu colpito da alcuni problemi di salute, e Siepen si infortunò ad una
mano, venendo successivamente operato; si pensava addirittura che
dovesse appendere lo strumento al chiodo. L’atmosfera era tesa e
silenziosa, senza scherzi né risate, la situazione sembrava dover
precipitare da un giorno all’altro, ma i ragazzi tennero duro e alla
fine ne uscirono più forti del fato, più forti di tutto, producendo
l’album migliore della loro discografia, quello che la critica unanime
tende a considerare l’apice di una ricchissima parabola evolutiva.
L’immensa titletrack mette subito le cose in chiaro, con un drumworking
asciutto, tellurico, ed atmosfere intimidatorie, guidate dal vocalsim
ieratico di Kürsch, alle prese con i soliti chorus pomposi e
drammatici; le accelerazioni da capogiro ed un assolo convulsivo dai
tratti spettacolari, gli stop con ripartenza e i continui cambi di
atmosfera confezionano un brano ineguagliabile, che lascia subito il
solco. Si corre a perdifiato e si scuote la testa senza sosta attraverso
le galoppate sferzanti ed i riff magistrali di I’m Alive e The Script
for My Requiem, episodi monumentali, altrettanto dotati di un riffery
imperioso, chorus marziali, rallentamenti e sfumature emozionanti.
Sembra difficile comprendere come si possa concentrare in singole
canzoni così tante sfaccettature di derivazione epica, medievale,
celebrando al contempo i tratti solenni di un sound ineguagliabile e le
possenti accelerazioni speed metal necessarie a scatenare il fermento
degli headbangers più fervidi; eppure i Bardi di Krefeld ci riescono
superbamente, arricchendo la loro opera con episodi intrisi di magia e
gloria campale come Mordred’s Song o Bright Eyes (pur dotata di una
repentina accelerazione finale), oltre che con un’intensissima ballata
dai tratti regali come A Past and Future Secret, che sembra celebrare
l’avanzata compunta di un sovrano a cavallo, scandita dallo squillo di
trombe ed accompagnata dagli sguardi timorosi dei popolani verso
l’accesso al ponte levatoio. Il disco poggia su un sound definito e
nitido nei suoni, quadrato e prestante, arroccato attorno al
martellante lavoro di Thomas Stauch dietro le pelli; al resto pensano le
rocciose chitarre, gagliarde e nerborute in fiondate ritmiche come Born
in a Mourning Hall, erculea contrapposizione tra serrate da delirio e
refrain che avrebbero potuto risuonare attorno ad un focolare in
qualche corte dell’anno Mille, o Another Holy War, uno dei capitoli più
avvincenti e convincenti dell’intera discografia dell’act tedesco: una
dirompente sfuriata di speed-metal irresistibile, nel riffato quanto
nei cori, un brano terremotante e maestoso, incentrato sulla vita di
Gesù Cristo. La ricchezza melodica e la striatura armonica che si
coglie in coincidenza con la sezione solista è degno contraltare di
trame esplosive e riff efficaci, scoccati come frecce dall’arco dei due
prodi chitarristi, una costante che si fa sentire in tutto l’album, un
masterpiece completato dalla evocativa And the Story Ends, uno
spettro di melodie, ritmiche ed ambientazioni talmente consistente da
suonare commovente. Il disco rasenta la perfezione.
Non
è un caso: praticamente tutte le composizioni di questo full length,
così come quelle del precedente, sono mini-opere d’arte, nelle quali
gli arrangiamenti sono sofisticati e variegati; il duello costante tra
melodie acustiche e sciabolate elettriche raggiunge livelli stellari,
articolandosi in trame complesse, assoli squisiti e riff
indimenticabili, pesanti come macigni. Parola di Hansi Kursh: 'Fu il
disco più difficile a livello di songwrinting, avevamo tante idee ma
non volevamo fare un disco troppo simile a Somewhere; allora abbiamo
provato e riprovato cercando soluzioni nuove. Ci abbiamo messo sei
messi a comporre la titletrack, e ci siamo resi conto che avremmo
dovuto andare più veloci con gli altri pezzi. per un mese poi non siamo
riusciti a scrivere nulla, e la cosa ci ha reso abbastanza insicuri.
per fortuna con gli altri brani siamo riusciti ad andare più spediti.
Il periodo in studio é stato molto lungo e continuamente interrotto da
problemi familiari e malattie, alla fine é andato tutto il meglio ma é
stato davvero stressante'. La sensazione è quella di trovarsi a
cavallo, fasciati da lucenti corazze, lanciati al galoppo, a folle
velocità: le chitarre sembrano attaccare contemporaneamente da tutte le
direzioni, piovendo come dardi avvelenati da un cielo solcato dai
falchi. E mentre l’avanzata incalza, all’interno di verdeggianti
foreste, ci si avvicina ad un poderoso castello, alternandosi
costantemente tra potenza e melodia: modulare la velocità e dare un
break agli assalti frontali significa portare l’ascoltatore ora in
mezzo a feroci ed eroiche battaglie cavalleresche, scandite
dall’incrocio di spadoni e giavellotti, ed ora tra tranquilli villaggi
ai piedi di minacciosi manieri, borghi contadini nel quale assistere
agli avventurosi racconti dei cantastorie. Ritornando sull'argomento
testi, in un'intervista del 1995 fu fatto notare ad Hansen che Chris
Boltendahl, leader dei Grave Digger, considerava le tematiche fantasy
quasi forzate ed obbligate per una metal bands, perché quei temi sono
gli unici desiderati dai 'kids'; la risposta di Hansi fu pronta e
stentorea: 'Non sono d'accordo per niente, dipende solo dal tipo di
testi che si scrivono; prendi per esempio i Metallica, loro non hanno
testi fantasy ma presentano ugualmente liriche stupende, e sono
convinto che i loro fans diano giusta importanza anche ai testi, non
solo alla musica. Anche i testi dei Grave Digger, per quanto ne so, non
sono esclusivamente fantasy; se i testi delll'heavy metal dovessero
essere solo fantasy, penso che mi metterei a cercare di proporre
qualcosa di diverso, perché non mi piacciono i clichè e penso che ogni
genere di testo, se ben concepito, possa essere adatto ad un pezzo
metal. Il problema, semmai, é essere ing rado di trattare in maniera
esauriente un tema 'serio' all'interno di una canzone, cosa che non é
affatto facile. Comunque, vorrei sottolineare la differenza tra il
nostro approccio ai testi, che può senz'altro essere definito fantasy, e
quello di bands come Grave Digger e Running Wild; se io fossi in loro
forse crcherei di sperimentare qualcosa di nuovo, mentre noi abbiamo
ancora un sacco di storie interessanti da raccontare. Ogni tipo di
testo può funzionare, anche i Dream Theater ad esempio non toccano per
niente la fantasy eppure hanno dei testi decisamente intriganti, li
trovo anche migliori della loro musica'! Gli anni successivi porteranno
i prodi bardi su territori più sperimentali, e così Imaginations from
the Other Side resta il più fiero suggello ad una prima parte di
carriera irripetibile.
1988
BATTALIONS OF FEAR 1989
FOLLOW THE BLIND 1990
TALES FROM THE TWILIGHT WORLD 1992
SOMEWHERE FAR BEYOND 1995
IMAGINATIONS FROM THE OTHER SIDES 1998
NIGHTFALL IN MIDDLE EARTH 2002
A NIGHT AT THE OPERA 2006
A TWIST IN THE MYTH 2010
AT THE EDGE OF TIME
DISCOGRAFIA COMMENTATA
Battalions
Of Fear [1988]: Debutto grezzo e potentissimo per i Guardiani
tedeschi, autori di un power metal massiccio dalla ritmica quasi
thrash chiaramente ispirato alle sonorità dei connazionali Helloween.
Follow The Blind [1989]: Con una maturità artistica più elevata, i
giovani tedeschi tornano sul mercato con un altro massiccio esempio
di power metal veloce e possente, ma più ricercato nella melodia e
nelle liriche fantasy. Tales From The Twilight World [1990]: Completa
la prima parte di carriera dei Blind Guardian accentuando
ulteriormente la melodia chitarristica al fianco delle prepotenti
trame power-speed ereditate dagli Helloween e più enfatizzate in
compattezza ed epicità. Somewhere Far Beyond [1992]: Il disco della
svolta: la ricercatezza tecnica e stilistica si fa sempre più fine,
orientata verso marcate melodie medievaleggianti per una serie di
composizioni potenti ed evocatorie che hanno ormai intrapreso uno
stile ben definito. Imaginations From The Other Sides [1995]: Il
capolavoro definitivo dei Blind Guardian: ormai il sound epico, ultra
melodico e potentissimo è un marchio di fabbrica, e i Nostri
utilizzano al meglio le intricate trame di chitarra per dare alla luce
canzoni memorabili intrise di leggenda ed enfasi. Drum quadrato e
martellante, velocità sonica e dinamicità perenne, tridimensionalità
dei suoni, riffoni tonanti ed atmosfere incantate che suggellano la
gemma più splendente della raffinata produzione dei Guardians.
Nightfall In Middle Earth [1998]: La seconda traide di gioielli si
conclude con un disco dal maggior sapore sinfonico, che acquisisce una
vena melodica superlativa grazie alle meravigliose trame di
chitarra. Riff e potenza non vengono esclusi, ma rivestono un ruolo
meno roboante in un disco raffinatissimo che va ad esplorare con
grande emotività l'enorme perizia tecnica del combo centro europeo. A
Night At The Opera [2002]: I Guardians procedono sulla strada
stilistica della ricerca sinfonica, con un risultato piacevole ma
meno energico ed esplosivo. A Twist In The Myth [2006]: Parziale
tentativo di recuperare la vecchia potenza senza perdere le
introduzioni melodiche e sionfoniche, ma con risultati non troppo
originali e memorabili. At The Edge Of Time [2010]: nonostante
l'annunciato ritorno a sonorità più violente, il disco mixa la potenza
di 'Twist' alle orchestrazioni di 'Nightfall', cogliendo dunque il
meglio dell'ultima porzione di carriera dei Guardian.
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