PINK BUBBLES GO APE

HELLOWEEN [1991], HARDROCK, HEAVY METAL
'Pink Bubbles Go Ape' segna la fine dell'epoca d'oro delle Zucche di Amburgo, quella iniziata con l'EP di debutto omonimo, proseguita con 'Walls Of Jericho' e sancita definitivamente dal successo di critica e pubblico dei due 'Keeper Of The Seven Keys'. 'Pink Bubbles' deluse a livello artistico, ma sopratutto commerciale: era infatti lecito aspettarsi volumi di vendite superiori a quelli che registrò questo album, tenuto peraltro conto degli ingenti investimenti fatti per le registrazioni e la produzione, affidata a Chris Tsangarides, produttore anche di 'Painkiller' dei Judas Priest. Molta credibilità gli Helloween la perdono con la dipartita di Kai Hansen, il chitarrista leader che lascia la band per fondare i 'gemelli' Gamma Ray, un altro pezzo d storia del power metal europeo. In sé tuttavia questo lavoro non era assolutamente malvagio, poteva anzi vantare pezzi dall'incontestabile valore quali 'Number One', pur nella sua atipicità, l'ottima e articolata 'Mankind' o l'instant classic 'The Chance', queste ultime due scritte dall'allora debuttante Roland Grapow, subentrato al posto di Kai Hansen. Caratteristica saliente del lavoro in questione fu il condizionamento che derivò dal ruolo preponderante, soprattutto se confrontato al passato più prossimo, che assunse il songwriting di un Michael Kiske in preda al proprio Ego, all'epoca forse di dimensioni smisurate, intenzionato com'era a dimostrare che sarebbe stato capace di cantare qualsiasi tipo di canzone, dalla metal song alla semi pop ballad da classifica: praticamente da una 'Kids Of The Century' a 'Your Turn', passando per la simpatica'Goin' Home', insomma. La chiave di lettura più opportuna per questo lavoro sta comunque in questo: pochi anni dopo aver introdotto al grande pubblico il famigerato speed power melodico, gli Helloween decisero di abbandonare, in parte e momentaneamente, il fortunato format sonoro per sperimentare soluzioni nuove, a loro modo innovative, non solo cedendo alla tentazione del lentone strappalacrime ma soprattutto provando a introdurre elementi e influenze inedite per la band di Amburgo. All'ascolto di queste ultime tracce è facile non solo scorgere soluzioni derivate soprattutto dal rock e dal pop, quanto piuttosto un diverso modo di fare musica e di presentarsi al pubblico. L'idea si distaccava sensibilmente dallo stile artistico al quale pubblico e media avevano già inchiodato il monicker Helloween. Probabilmente pensò lo stesso anche Kai Hansen, che infatti abbandonò la band prima della pubblicazione di questo disco, per divergenze d'opinioni sul futuro cammino artistico dei Nostri, sorte, pare, durante il 'Pumpkins Fly Free Tour' del 1988-'89. I frutti della diaspora sono noti a tutti, così come le considerazioni, ovvie, che si possono fare confrontando 'Pink Bubbles Go Ape', con il debut-album dei Gamma Ray, il metallico e dinamico 'Heading For Tomorrow'.
KEEPER OF THE SEVEN KEYS II

HELLOWEEN [1988], POWER METAL
'Keeper Of The Seven Keys Part II' è sicuramente uno degli album speed-power metal di scuola teutonica più apprezzabili che la seconda metà degli anni 80 abbia generato. Gli Helloween, insieme ad altre band colossali come Running Wild E Grave Digger, hanno saputo raccogliere in pieno la lezione impartita loro dai maestri Accept e dalle band internazionali come Iron Maiden e Judas Priest in primis. 'Keeper Of The Seventh Keys II' è un'autentica perla di power speed metal di stampo teutonico. Con questo strepitoso platter la band amburghese ha saldato alcuni importanti canoni del power metal, modernizzandolo e portandolo direttamente nel suo periodo di massimo splendore. Melodie lineari e mai banali si susseguono copiose e arricchite da cambi di tempo, accelerazioni, dinamismo ed energia positiva a fiotti, dettata da un songwriting intelligente e ragionato, costruzioni strumentali vincenti che riescono così a strutturare un ambiente musicale dai molteplici sapori: cupe introduzioni, la potenza del riffing trainante, il flavour epico e melodico dell’incredibile refrain, assoli melodici prolungati e travolgenti. Insomma un concentrato a dir poco brillante della notevole musicalità della band tedesca. La prima parte dell'opera, uscita come disco unico l'anno precedente, aveva segnato una grandissima svolta nella carriera della band tedesca, l'assunzione di Kiske alla voce che permetteva a Kai Hansen di concentrarsi esclusivamente sulla chitarra, eventi che contribuirono sicuramente ad accrescere il livello tecnico e compositivo del combo germanico. Infatti con un Hansen dedito unicamente sul suo strumento ed un vocalist puro di supporto fu un successo assoluto. Dopo una breve intro il disco apre le danze con 'Eagle Fly Free', che si rivela essere un'incredibile fast song scandita da melodici e potenti refrain accompagnati dalla voce di un Kiske sicuramente in stato di grazia, graffiante ed estesa, acuta e potente. Dalla stupenda e carica di pathos 'You Always Walk Alone', giungiamo a 'Rise And Fall', potente traccia intenta a sfoggiare tutta l'efficacia del riffing made in Germany. 'Dr.Stein', incredibile dal travolgentissimo refrain che diventa un classico immancabile nelle esibizioni live della band, spiana la strada alle evocative 'We Got The Right' e March of Time, canzone, quest’ultima, caratterizzata da una pomposa introduzione, preludio alla tempesta di riff scaturita dale asce di Weikath e Hansen. Il brano, dallo spettacolare bridge, risulta essere sicuramente tra i migliori componimenti del lotto, dove un’attenta ricerca della melodia si incontra e si sposa perfettamente al riffing graffiante ed ad un certo flavour epico. Ma lo spettacolo non è certo destinato a concludersi, e la seguente 'I Want Out' lo continua in modo addirittura esemplare. Ottima la prova di Kiske che raggiunge la sua massima espressività producendo linee vocali davvero complesse che scandiscono refrain incisivi e mai banali. Il brano seguente è la title track, un enfatico lento il cui songwriting è affidato a Weikath per quella che si rivela essere la canzone più lunga, complessa ed articolata tra tutte. In essa son contenuti tutti i vari elementi che hanno caratterizzato questo incredibile disco, dai cambi di atmosfera alle orgasmiche parti strumentali, dalle pazzesche vocals di Kiske al retrogusto epico e fantasy generale. A chiudere il platter ci pensa la granitica 'Save Us', un concentrato di potenza intento a porre la definitiva parola fine ad un disco nel quale si intrecciano in maniera a dir poco perfetta potenza, originalità e melodia. Ammesso che la parola fine, per un disco del genere, possa mai esistere. Truemetal.it.

KEEPER OF THE SEVEN KEYS I

HELLOWEEN [1987], POWER METAL
Keeper of the Seven Keys pt. I: questo album è l’inizio di un genere, l’inizio di una stile, è un passaggio obbligato per ogni metallaro che si rispetti. Senza questo album non avremmo il power 'moderno', certo, ma anche il l’Heavy Metal in generale sarebbe stato meno completo. Siamo al cospetto di un gruppo che ha trovato il suo sound perfetto, cioè un Heavy Metal relativamente epico, melodico e soprattutto veloce, che mantiene però sonorità abbastanza pesanti senza un'eccessiva straripanza della sezione ritmica. La formazione ha ingaggiato un cantante migliore del predecessore, lasciando quindi a Kai Hansen il compito di suonare e dando a Michael Kiske, ex Ill Prophecy, la mansione di singer. Ed è forse questo il punto di forza di questo full lenght: la voce di Kiske è intonatissima e altissima, una delle migliori del mondo, e trova modo di esibirsi in ogni canzone. Musicalmente viene portato avanti il discorso iniziato nell’album precedente, con riff similari ma ancor più pomposi e barocchi, assoli armonizzati e chorus forse un po’ più epici e meno aggressivi dei precedenti. Il tutto mescolato con dinamicità e freschezza assoluta e fluida, in un intrigo melodico di grandissimo spessore tecnico-sonoro. Il disco si apre con Initiaton, la solita breve apertura epica tutta tastiere e chitarre, che fa da preludio alla stupenda 'I’m Alive', firmata Kai Hansen. La canzone più happy dell’intero lotto, un monumento all’ottimismo e alla speranza nel futuro, nonostante la vita sia difficile. Il ritornello mette in risalto la straordinaria altezza vocale di Kiske, da brividi. Anche a livello strettamente musicale si rimane stupiti, perchè l’assolo è qualcosa di unico: potente, veloce, emozionante, ed è forse il migliore esempio dell’Helloween-style, suonato tutto da Kai e armonizzato in parte da Weikath, con la giusta dose di virtuosismo ma con melodie estremamente catchy e felicissime. Segue 'A Little Time', una canzone piacevole in particolare nel ritornello, coi cori in sottofondo. 'A Little Time' perde un poco di bellezza se confrontata con la seguente canzone, la stupenda 'Twilight Of The Gods': solo l’intro, veramente al fulmicotone, varrebbe l’intera canzone, ma anche il suo seguito è degno di nota. Una canzone epica, con un tema fantascientifico che tratta la storia di divinità create dagli uomini, che si ribellano, combattendo e distruggendo il mondo. Anche qui Kiske si fa sentire, e Kai e Weiki si prodigano in uno stupendo assolo a due chitarre, chiaramente neoclassico. 'A Tale That Wasn’t Right' è l'unico pezzo di Miki Weikath nell’album, una canzone poco helloweeniana e molto sperimentale. Si tratta di una semi-ballad malinconica, non una pessima traccia, ma non stupisce neppure. Gli Helloween entrano però nel vivo del loro capolavoro sfoderando la stupenda 'Future World', una vera e propria gemma dotata di una ritmica coinvolgente e direi anche simpatica. Lo speed power degli Helloween è ormai ampiamente lievitato e dunque la band va a cimentarsi nel suo capolavoro assoluto, che introduce elementi quasi progressive nel suo sound melodico e già tecnico con la lunghissima ed epicissima 'Halloween', un inno ed un manifesto della durata record di 13 minuti. Essa è una cavalcata con momenti veramente strepitosi e di infinita potenza, accompagnati da parti lente o d’atmosfera con le tastiere in primo piano. Il testo è enigmatico: oltre a parlare della fatidica notte dei fantasmi, si sentono palesi richiami a passi biblici; resta una canzone sul male e il bene, ma con qualche enigma posto a tavolino proprio per arricchirla e darle un valore particolare. L'intricata parte strumentale è assolutamente orgasmica, impreziosita da un assolo prolungato, avvolgente, intriso di splendida melodia e capace da solo di sintetizzare l'essenza estrema del sound helloweeniano del periodo d'oro, i meravigliosi anni '80. Termina il disco la brevissima Follow The Sign, un outro in chitarra, con melodie orientaleggianti, tastiere, rumori della natura ed un inquietante voce bassa di sottofondo, intenta a narrare del 'Keeper Of The Seven Keys', anticipando proprio un verso della title track del disco successivo a questo. Dunque si chiude così questo splendido album, ma lasciando presagire il futuro, che nel breve periodo sarà altrettanto magico per le zucche di Amburgo! IcedTears.com.

WALLS OF JERICHO

HELLOWEEN [1985], POWER METAL
Esordio con il botto per la storica power metal band tedesca. Prodotto con un sound decisamente grezzo e approssimativo [qua e là si possono percepire addirittura dei feedback], l'album trova una delle sue caratteristiche distintive nel cantato al vetriolo, molto poco curato e a volte addirittura stonato di un giovanissimo Kai Hansen, che accompagna tutta l'opera, dandole quel senso di rozzezza ed impatto con le sue sparate in falsetto. Abbiamo tra le mani un heavy metal melodico inspessito notevolmente in potenza e velocità della sezione ritmica, con un risultato che va a porre i semi primigeni del power metal più fantasioso e compatto tipico della scuola teutonica, della quale gli Helloween sono i principali pionieri. Il quartetto di Amburgo non tradisce le aspettative con 'Walls Of Jericho'[ 1986], definendo meglio la sua identità sonora. La strumentale title track apre le danze per composizioni più mature e complesse come 'Ride The Sky' o 'Phantoms Of Death', nonché la maestosa 'No More Tears', rinominata poi 'How Many Tears' e portata al meritato successo dalla straordinaria interpretazione in sede live di un certo Michael Kiske. Sebbene l'ombra degli Iron Maiden sia sempre pesantemente presente, le innovazioni in direzione speed hanno indubbiamente reso le song degli Helloween così speciali, ed evidentemente influenzato le band future. Dal punto di vista delle liriche, l'album non è ostico, con pezzi dal contenuto diretto e attuale, resi alla perfezione grazie all'incontenibile energia della band. Oltre alla già citata 'How Many Tears', tanti riflettori sono puntati sull'anthemica 'Heavy Metal [Is The Law]', ormai divenuta parola d'ordine per moltissimi fans. Chiude il disco 'Judas', singolo riproposto come bonus track non creditata sul successivo 'Keeper Of The Seven Keys'. Anche 'Walls Of Jericho' continua a soffrire dei limiti canori di Kai Hansen, ma la band rimedia a questo punto debole assoldando quel portento della natura che risponde al nome di Michael Kiske, e che di lì a poco permette agli Helloween di fare il definitivo salto di qualità per arrivare nell' Olimpo del power metal.

ENDGAME

MEGADETH [2009], THRASH METAL
Le aspettative, quando in ballo c'è un grande nome, uno di quelli che ha fatto la storia di un genere musicale, sono sempre contrapposte. C'è l'immarcescibile ottimista che si aspetta un capolavoro dalla grande band di turno, e c'è l'eterno sfiduciato che ritiene ormai finita la medesima, ragion per cui non attende altro che spalare fango sulla nuova uscita. La posizione giusta, inutile dirlo, sarebbe quella intermedia, ovvero quella imparziale e pronta a giudicare un disco, o una qualsiasi altra forma d'arte, semplicemente per quello che esprime, non lasciandosi condizionare da elementi esterni, ed è questo il modo col quale si tenterà di formulare un giudizio su Endgame, dodicesimo studio album della creatura di Dave Mustaine, Megadeth. Anticipato dalla terremotante Head Crusher, Endgame vede il debutto in formazione di Chris Broderick (ex di Jag Panzer e Nevermore), chitarrista tecnicamente eccelso il cui ruolo si dimostrerà di assoluta importanza nell'economia del disco. L'apertura è affidata a un pezzo strumentale, Dialectic Chaos, caratterizzato da un giro melodico trascinante e dalle prime schermaglie tra la chitarra di Mustaine e quella di Broderick, duelli che costituiscono uno dei punti di forza dell'intero platter. Il tappeto ritmico intessuto dall'intro sfocia in This Day We Fight!, brano dal riffing nervoso alla Take No Prisoners e con una linea vocale rabbiosa anche se un pò piatta. Una partenza fulminante, immediatamente frenata dal mid-tempo 44 Minutes, che mette in evidenza le altre caratteristiche dei Megadeth del 2009: tempi cadenzati, linee vocali poco convincenti e refrain melodici spesso stucchevoli o poco incisivi. E' già tempo di riprendere a correre a gran velocità con l'adrenalinica 1,320, col suo travolgente riff d'apertura e la ritmica semplice ma irresistibile. Encomiabile il duello finale di assoli, dove ancora una volta risalta l'eccellente lavoro svolto in fase di composizione ed esecuzione da parte di Chris Broderick, perfettamente calato nel nuovo ruolo. Onde evitare uno sterile track-by-track, è il momento di fare ordine ed evidenziare ciò che in sostanza hanno da offrire i circa 45 minuti di Endgame. Innanzitutto, se proprio si vuole fare un confronto con la passata produzione dei Megadeth, esso va fatto in relazione alle ultime due uscite, in quanto le coordinate stilistiche sono pressapoco le stesse. Inutile quindi rimpiangere i fasti di 'Peace Sells But Who's Buying?', il thrash tecnico ed ispirato di 'Rust In Peace', la freschezza acerba di 'Killing Is My Business And Business Is Good', o ancora la svolta melodica ma qualitativamente soddisfacente di Countdown To Extinction. Il nuovo lavoro dei Megadeth contiene richiami a tutte le loro epoche: This Day We Fight! poteva trovarsi su RIP; la bella ed elaborata Endgame su Countdown To Extinction o Youthanasia, per citare due esempi- ma per valutarlo è bene riferirsi a The System Has Failed e United Abominations, dischi molto più vicini in quanto a stile ed attitudine. Endgame non solo esce a testa alta da tale confronto, ma ne esce vincitore, per diversi motivi. Se è vero che il suo più grande difetto è una non chiara direzione musicale (ormai una costante per i Megadeth), è innegabile come il riffing tipicamente megadethiano sia riscontrabile in tutti i brani proposti; sebbene l'alternanza tra brani più marcatamente thrash, heavy e mid-tempo dia una varietà forse esagerata al platter, il tutto è reso omogeneo da una produzione favolosa, potente, pulita, opera dell'esperto Andy Sneap e di Dave Mustaine. Soprattutto, il nuovo parto discografico di MegaDave gode di un'ossatura di brani -le già citate This Day We Fight!, 1,320, la title-track, Head Crusher- che lo rendono un ascolto piacevole, anche per via della buona disposizione delle canzoni nella tracklist. Trova spazio anche una malinconica ballad, The Hardest Part Of Letting Go Sealed With A Kiss, che dopo una prima parte acustica prende il via con tanto di accompagnamento tastieristico dalle reminiscenze addirittura power. Infine, finalmente soddisfacente il lavoro dietro le pelli di Shawn Drover, che offre una prova dinamica ed encomiabile nelle partiture. Endgame non è un capolavoro -su questo non ci piove- ma un album onesto e ben confezionato. Un deciso passo in avanti rispetto al precedente United Abominations, che riporta la band su coordinate stilistiche esplicitamente techno-thrash come ai tempi di Rust In Peace ma non disdegna citazioni da ognuno dei vari capolavori dell'act californiano.

UNITED ABOMINATIONS

MEGADETH [2007], HEAVY METAL
'The System Has Failed' è stato un come back che, dopo le vicissitudini interne di casa Megadeth, ha spazzato via tutti i dubbi sullo stato di salute di una band il cui unico elemento rimasto era il leader e fondatore Dave Mustaine. Poi la notizia, smentita in pochi mesi, di uno stop definitivo ed il ritorno in studio per registrare il nuovo 'United Abominations'. Il sound del disco riparte da quanto fatto sul precedente lavoro e, nel suo percorso, torna a strizzare l’occhio a quanto ascoltato sui precedenti 'Youthanasia' e 'Crypting Writings' senza che la nostalgia prevalga sulla consapevolezza di essere ormai nel nuovo millennio. 'United Abominations' comincia nel migliore dei modi, 'Sleepwalker' e 'Washington Is Next' colpiscono come un macigno, trattasi di due brani veloci ed old style dominati dalle chitarre di Mustaine/Drover e da linee vocali maligne e rabbiose. Etichettare i Megadeth come una formazione thrash è molto riduttivo, le melodie, la tecnica e la struttura dei brani sono figlie del metal più tradizionale e di alta classe. Proprio come heavy metal, modernissimo e veloce -ma non thrash nel senso proprio del termine- possiamo definire questo nuovo corso della band californiana, che si è dunque rimessa in piedi dopo il poprock di 'Risk'. Contestabile invece la scelta del remake di 'A Tout Le Monde', canzone presente sul vecchio 'Youthanasia', dove ad affiancare MegaDave è stata chiamata Cristina Scabbia dei Lacuna Coil: la nuova versione purtroppo non possiede lo stesso fascino dell’originale pur avvalendosi di una produzione migliore, e la performance della Scabbia non brilla di luce propria. Da segnalare la discreta 'Gears Of War', brano scelto come soundtrack dell’omonimo videogioco best seller per l’Xbox 360. I tempi di 'Rust In Peace' sono ormai lontani, d’altronde l’attuale forma dei Megadeth è un chiaro monito, questo vecchio leone è ancora in grado di ruggire.

THE SYSTEM HAS FAILED

MEGADETH [2004], HEAVY METAL
Forrest Gump diceva che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita; ciò che accade quando ci si appresta ad ascoltare un nuovo album dei Megadeth è molto simile. L'incostanza che è ormai parte del DNA di questa band, a partire dalla line up fino ad arrivare alla qualità della musica proposta, ha mietuto in questi anni una importante quantità di vittime sia tra i fan di vecchia data, traditi dall'anonimo quanto inevitabile Cryptic Writings, sia tra i nuovi, con quell'abominio sonoro che porta il nome di Risk, lasciando i 4 in una situazione di stallo. Ci riprova The World Needs A Hero a risollevare le sorti di una band arrivata ormai al capolinea, ma si rivela un altro buco nell'acqua. Passa del tempo e tra vicende alterne inaspettatamente ecco che sorge dal nulla questo The System Has Failed. Che dire, sembrano i Megadeth! Bei pezzi, tirati, tecnici, pieni di assoli (anche se l'assenza del buon vecchio Marty Friedman continua a farsi sentire!) si incrociano con altri più cadenzati, melodici ma sempre di ottima fattura. Tutto bene fino alla traccia numero 7, poi il vuoto. Gli ultimi 5 pezzi non sono granchè. Tutto sommato il disco comunque non è male e si lascia ascoltare con un certo piacere. Il problema a mio parere è un'altro: c'è ancora bisogno dei Megadeth? La musica come ogni altra forma d'arte va associata al periodo storico al quale essa appartiene. La proposta dei Megadeth fino a Countdown to extinction era eccellente, poi c'è stato il cambio di rotta, un po come i Metallica hanno fatto con Load, simbolo di una naturale evoluzione stilistica, e in seguito il disfacimento. Questo disperato tentativo del Mustaine di voler trascinare ancora il nome dei Megadeth proponendo nuovo materiale che però suona come se fosse vecchio può essere un modo per tornare in carreggiata e per riconquistare la fiducia dei vecchi fans, ma ora come ora tutto ciò che viene proposto nel nuovo album sa troppo di già sentito, sia per le sonorità che per gli arrangiamenti, elemento che provoca nell'ascoltatore una perdita di interesse nel giro di pochi ascolti.
THE WORLD NEEDS A HERO

MEGADETH [2001], HEAVY METAL
Fuori dal metal da quasi dieci anni, Mustaine presentò questo 'The World Needs A Hero' come il grande ritorno al genere che tante soddisfazioni gli aveva dato negli anni 80, ma purtroppo nonostante le buone premesse il risultato è un disco di poco sufficiente. Chiusi i rapporti con la Capitol, Mustaine si accasa alla Metal Is Records, una label della Sanctuary. Altra novità consistente riguarda la line-up, al posto del grande Marty Friedman, sempre più innamorato del Giappone e ormai deciso ad impegnarsi esclusivamente sui suoi progetti solisti, arriva nei Megadeth Al Pitrelli, ex Savatage ed Alice Cooper. L’intenzione della band era quella di riavvicinare i fans della prim’ora scrivendo un disco pesante lasciando poco spazio alle sperimentazioni. Chi è fan dei Megadeth dando una veloce occhiata ai titoli si sarà subito soffermato su 'Return To Hangar', tentativo non riuscito di allegarsi a quanto fatto in passato. Presentare un classico come 'Hangar 18' sotto una nuova veste non è sembrata una mossa corretta e neanche azzeccata se andiamo a sentire il risultato finale. La ricerca di una certa orecchiabilità era ancora uno dei pensieri di Mustaine, come dimostrano '1000 Times Goodbye', 'Losing My Senses' e soprattutto la dolce ballad 'Promises', bella canzone ma che non avrà di certo convito i vecchi fans a dare nuova fiducia al gruppo. È l’unico brano firmato anche da Pitrelli, il resto è tutta opera del boss Dave Mustaine. I Megadeth pestano il piede sull’acceleratore in 'Burning Bridges', con la voce di Mustaine a tratti aggressiva come ai bei tempi. Da segnalare anche il bel duetto tra Mustaine e Pitrelli sul finire del pezzo e sulla buona 'Recipe For Hate…Warhorse', dove almeno nella seconda parte, 'Warhorse', i Megadeth si collegano in parte con quanto fatto in passato. Anche 'When' sembra ricordare i Megadeth del passato per via della sua struttura di certo non scontata, mentre 'Dread And The Fugitive Mind' era già presente nella raccolta 'Capitol Punishment', voluta dalla label prima di sciogliere il contratto. Era difficile fare peggio di 'Risk', ma volendo essere un po’ cattivi si potrebbe dire che i Megadeth ce l’hanno messa tutta pur di riuscirci. Per fortuna loro e nostra non ci sono riusciti. Un anno dopo l’uscita di 'The World Needs A Hero' Dave Mustaine, a causa di un incidente che non gli consentiva più di suonare, annunciò tramite il sito della band lo scioglimento dei Megadeth. La band era ormai una brutta copia di se stessa, soprattutto dal vivo si notava una preoccupante freddezza, non c’è dubbio che dopo il momento di pausa qualche segnale di risveglio c’è stato.
RISK
MEGADETH [1999], HEAVY METAL-HARDROCK
Può un colosso del thrash metal piegarsi al declino e alle leggi del mercato fino al punto di ritrovarsi a suonare poprock melodico privo di potenza, velocità e struttura minimamente più profonda di quella che ci propongono centinaia di gruppi da MTV ogni giorno? Evidentemente sì, e i Megadeth sno una delle tante risposte che giganti come Metallica, Anthrax, Kreator e Testament hanno saputo fornirci nei dolorosissimi anni '90. Cè chi si è dato all'hard rock-blues come i Four Horsemen di Load, chi si è buttato sul crossover (gli Anthrax) o l'industrial (i Kreator) e chi, dopo il proprio disco melodico di turno (immancabile) ha provato la direzione opposta, quella del death, intrapresa dai Testament; chi però si è trovato nella condizione peggiore, a quanto pare, sono proprio i Megadeth dell'attaccabrighe Dave Scott Mustaine, uno dei personaggi più irascibili e interessanti del metalrama mondiale: il declino dopo Countdown To Extinction, il corrispondente megadethiano del Black Album, è coinciso in una propensione melodica sempre più marcata in Youthanasia (1994) e Cryptic Writings (1997). Ma ogni limite è stato superato con Risk, nel 1999, un disco che già nel titolo (rischio) si annunciava un flop clamoroso: i padri del thrash ultratecnico e melodico di Rust In Peace spariscono sotto canzoncine frivole e bidimensionali. Da sempre Mustaine ha cercato di imitare e superare l'opera degli invidiati Metallica, nel bene e nel male, a costo di strafare: e questo è accaduto anche con Risk, perchè il chitarrista non si è fermato dinnanzi al colossale fallimento di Load e Reload, ma lo ha ripreso e amplificato portandolo a livelli ancor più dozzinali tesi a monetizzare quasi due decenni di headbanging e sudore. L'album si apre con Insomnia, dal riff orientaleggiante successivamente riproposto in una versione più esasperata. Un buon pezzo, nulla di eccezionale, e soprattutto privo non solo dei classici elementi thrash 'storici' della band californiana, ma nemmeno di quelli più semplicemente heavy sperimentati in dischi quali Countdown To Extinction e Youthanasia; Megadave è uno che sa come attirare le sue prede, e lo fa bene già col secondo pezzo, la misteriosissima Prince Of Darkness, il migliore estratto del platter: oscuro e sinistro come un vicolo buio, il pezzo si apre con la voce bassa di Dave che per quasi due minuti sussurra la sua rabbia in un'atmosfera cupa, che cresce fino al secco riffone portante: allora la canzone lievita piacevole e maligna, con un refrain accattivante e circondata da un alone di misticità che suscita timore e rispetto. Prince Of Darkness resta un episodio piuttosto isolato: Risk si articola immediatamente in una serie di canzoni dalle melodie vocali piacevoli ma troppo radiofoniche, praticamente innocue e senza mordente. Ritmi bassi, rock da classifica, quasi svogliato: song modeste come Wanderlust, Seven e Time: the End vengono solo in parte salvate dagli assoli melodici di Marty Friedman, uno che ci sa fare, sia con l'heavy che col pop, come dimostrerà nel proseguio di carriera a caratteri nipponici; nulla di paragonabile al passato, ovviamente, ma è l'unico appiglio al quale aggrapparsi per non spegnere direttamente lo stereo. In un contesto tale, di un rock molle e da classifica, è quasi automatico che i pezzi migliori siano quelli più commerciali di tutti. Breadline, per esempio: uno degli apici pop del platter, quasi delicata nell'arpeggio, danzereccia nel refrain, dolce nell'intensità del suo ritornello colorato, patinato; qualche elegante riff melodico qua e là, tanto per mettere la parola 'rock' sulle bocche dei nuovi aficionados che inizieranno a indossare t-shirt di Vic Rattlehead senza neanche conoscere Killing Is My Business... (tanto per dirne uno, tra i tanti)! Ma sforziamoci di chiudere gli occhi, pensare di avere a che fare con una band qualsiasi e non con un ex pilastro del thrash metal: se ci riuscite, potrete apprezzare la melodia ritmata e le vocals radiofoniche di I'll Be There, nella quale tutto è ben curato, preciso, orecchiabile, emozionante addirittura, prevedibile probabilmente, ma tutto sommato un riuscito pezzo di poprock. Se ci riuscite, a cancellare il ricordo di un combo d'assalto che una volta furoreggiava ai Clash Of The Titans, potreste anche ritrovarvi a muovere la testolina a tempo ascoltando Ecstasy, la terza hit da MTV in un dischetto gradevole e che potrebbe piacere anche alla nonna, alla zia e alla vicina di casa. Direte voi, meglio qualche canzoncina fischiettabile che la noiosissima solfa di The Doctor Is Calling! Ma qui stiamo parlando dei Megadeth, ragazzi, una costola dei Metallica, e allora non ci sono scuse che tengono, il troppo è troppo. Il passo falso capita a tutti, gli anni '90 sono stati difficili per qualsiasi thrash band a stelle e strisce (e non solo): per i Megadeth Risk rappresenta il fondo del bicchiere, un passo indietro quando già si credeva di aver toccato il pedice. Il fatto è che se in Cryptic Writings i fans avevano criticato un approccio troppo semplice e ammiccante all'heavy sound dei propri beniamini, in Risk non si può fare questo discorso, per il semplice motivo che il tentativo di Mustaine è stato giusto l'opposto: dare un taglio lievemente rock a pezzi pop, nei quali la batteria ha un ruolo irrilevante, nei quali la chitarra di un mostro come Friedman è relegata ai margini, nei quali le melodie vocali diventano principali ma perdono tutta la furia e l'acidità che aveva sempre contraddistinto le prestazioni del rosso attaccabrighe, ora convertito ad una nuova vita fatta di valori e belle parole per tutti. Dove sono finiti i cari vecchi Megadeth? Per questa volta, fuori dallo studio di registrazione: la risalita sarà lenta e prevederà qualche capitolo di espiazione non del tutto riuscito negli anni a venire, sfiorerà lo scioglimento ma alla fine porterà all'emersione dell'animo più puro di questa storica formazione. Tutto è bene quel che finisce bene. Da Metallized.it
CRYPTIC WRITINGS

MEGADETH [1997], HEAVY METAL
Tre anni dopo l’uscita del buon 'Youthanasia' i Megadeth tornano sul mercato con 'Cryptic writings', album ambizioso e discusso in uguale maniera. E’ l’ultimo album dei Megadeth con Nick Menza alla batteria, perchè in seguito il suo posto sarà preso da Jimmy De Grasso, ex Suicidial Tendencies. Si chiude così il periodo con la line-up più amata dai fans, che vedeva coinvolti Marty Friedman alla chitarra e Dave Ellefson, storico bassista e braccio destro di Mustaine. 'Cryptic writings' è un album criticato quasi quanto il suo successore, molte cose sono state dette e molte accuse sono state rivolte a Mustaine. L’accusa più frequente è quella di aver creato il disco a tavolino, ovvero pensando già ai passaggi radio e televisivi. In realtà 'Cryptic Writings' è un buon album di heavy metal melodico nello stile che i Megadeth hanno intrapreso nelle loro due ultime release, ed anzi presenta alcuni brani intrisi di una cattiveria ed una velocità forse maggiori, che non ripercorrono la grandezza del vecchio stile thrash del combo di Mustaine ma che danno uno scossone energico al platter. La voce nasale e oscura del rosso chitarrista cerca inoltre di apporre l'inequivocabile marchio Megadeth sulla produzione di questo lavoro; da ricordare ci sono pezzi quali 'She Wolf', 'Trust' e 'A Secret Place', che però non sembrano soddisfare tutte le richieste dei fans della vecchia guardia, che sognavano un intero album con gli attributi e non solo imperniato su una manciata di tracce discrete. In particolare i primi due pezzi sopracitati saranno una presenza quasi fissa negli anni a seguire nella scaletta dei concerti dei Megadeth, e entreranno nelle preferenze dei fans. I Megadeth pestano il piede sull’acceleratore in 'The Disintegrators' e 'FFF', in cui si sentono influenze hardcore, ma purtroppo sono solo singoli episodi. Il disco è completato da una serie di brani leggeri, che come detto in precedenza potrebbero insidiarsi benissimo nelle rotation più o meno heavy di qualsiasi radio o televisione. Nulla di scandaloso, ma allo stesso modo nulla che fa gridare al miracolo. Prodotto da Dan Huff, l’album risulta debole ma avrà anche lui un discreto successo, diventando quasi subito disco d’oro. Vale il discorso fatto anche per 'Countdown to extinction' e 'Youthanasia', ovvero che chi vuole avvicinarsi al metal può partire proprio da album come questi. Guadagna qualche punto se pensiamo a ciò che i Megadeth hanno fatto nel 1999 con 'Risk'.
YOUTHANASIA

MEGADETH [1994], HEAVY METAL
Con 'Countdown To Extinction' eravamo entrati in una nuova parte di carriera dei Megadeth. Come detto, la band aveva messo da parte il lato grezzo espresso in 'So Far, So Good…So What!', i virtuosismi di 'Rust In Peace', la tipica velocità thrash degli esordi e le strutture intricate dei brani. Tutte scelte che pagarono dal punto di vista commerciale, ma che ovviamente divisero i fans. L’attesa per la nuova release era tanta, tra chi si aspettava un sorta di 'Countdown' parte seconda e chi sperava che fosse accentuato il lato thrash del gruppo. I Megadeth erano sulla bocca di tutti, la pressione sulle loro spalle era tanta. Ritornare sul mercato dopo aver riscosso un successo mondiale è difficile per chiunque. Molte volte abbiamo visto gruppi non reggere la pressione e fallire l’appuntamento con il bis. Partiamo col dire che i Megadeth si erano definitivamente distaccati dal thrash, ormai la strada da seguire era un’altra, ed evidenziava il lato heavy metal della band. I 'deth avevano dimostrato di sapersi adattare ad una struttura classica della canzone e di avere un gusto per la melodia: lo stesso Mustaine cominciava a dare maggior importanza alla voce. L’album presenta almeno tre pezzi sopra le righe, vale a dire la potente opener 'Reckoning Day', 'Train Of Consequences' (il quale relativo video venne censurato da MTV) e la ballad 'A Tout Le Monde', in cui Dave Mustaine canta per metà del ritornello in francese. Tutti e tre i pezzi godono di linee melodiche infallibili che entrano in testa facilmente, e come è ovvio sono diventati singoli. Qualche brano in tono minore è presente, ad esempio 'Elysian fields' o 'I thought I knew it all'. Curioso il testo della conclusiva 'Victory', costruito sui titoli di alcuni dei pezzi famosi del combo californiano. Non è passata inosservata la copertina del disco (opera di Hugh Syme), una delle più belle della storia del metal, che venne censurata in Malesia, Tailandia e Singapore. Il disco fu accolto bene dal pubblico, anche se chi si aspettava un ritorno al thrash rimase deluso. Ma guardando ciò che i Megadeth avrebbero fatto negli anni a venire non si può non rivalutare quest’album. Tutti gli album che usciranno successivamente saranno inferiori a 'Youthanasia'.

COUNTDOWN TO EXTINCTION

MEGADETH [1992], HEAVY METAL
Freschi reduci dal successo ipertecnico del titanico 'Rust In Peace' i Megadeth sembravano avviati a conquistare il trono di miglior thrash metal band. Con una line-up tecnicamente mostruosa, e dopo aver risolto per un pò i problemi con alcool e droga, Dave Mustaine era ormai convinto di aver superato i rivali Metallica. Ma gli anni 80 erano finiti e qualcosa nel music business stava per cambiare. L’esplosione del grunge era ormai alle porte, ma se questa ci poteva stare ciò che sconvolse il mondo metal arrivò sul mercato nel 1991: il 'Black Album' dei Metallica. Tante cose si sono dette su quell’album, e tante ce ne sarebbero da dire. Ha diviso e divide ancora oggi il pubblico, ma una cosa è chiara: i Metallica aprirono una strada e molti gruppi li seguirono con alterne fortune. Ovviamente i Megadeth non furono da meno, data la voglia di Mustaine di confrontarsi con i Metallica. Mustaine ci ha regalato grandi album ma alla fine proprio per la sua voglia di stare un passo avanti alla sua ex band non si renderà conto forse di ciò che la sua band stava creando. Inizia così dal 1992 e da 'Countdown to Extinction' la seconda parte di carriera dei Megadeth, quella del successo planetario. Per provare a fare il grande salto era chiaro che la proposta della band doveva subire un alleggerimento. La tecnica ed i virtuosismi di 'Rust In Peace' furono eliminati quasi totalmente, e questo fu davvero un grave danno considerando ciò che la band aveva dimostrato di essere capace di fare 2 anni prima. Ma il danno maggiore lo subisce la struttura dei pezzi, oramai più vicini ad una forma classica, abbandonando la struttura articolata degli anni passati, diventata un marchio di fabbrica dei Megadeth. Il compito di aprire l’album è affidato a 'Skin O’ My Teeth', che pur essendo un’ottima canzone non riesce ad eguagliare 'Holy Wars' o 'Wake Up Dead'. Sarà uno dei pochi momenti in cui i Megadeth pestano il piede sull’acceleratore, infatti già dal successivo pezzo i tempi rallentano e l’atmosfera si fa pesante. Seguono una serie di pezzi noti come 'Foreclosure Of A Dream', la contorta 'Sweating bullets' o l’hit single 'Symphony Of Destruction' che hanno lanciato i Megadeth oltre i confini del metal, e altri meno noti come 'Captive honour'. Chi non gode di tanta popolarità è anche la finale 'Ashes In Your Mouth', uno dei brani migliori dell’album in cui i Megadeth si ricollegano in parte a quanto fatto anni prima. 'Countdown to extinction' è un album che si fa ascoltare tranquillamente ma che col passare del tempo perde valore. Certo, chi è estraneo al mondo metal e vorrebbe cominciare a farne parte potrebbe partire proprio da un album come questo. I Megadeth con questo disco guadagnarono molti fans, ma non furono pochi quelli che voltarono le spalle alla band sentendosi traditi dalla svolta. Se la guardiamo dalla parte del successo i risultati della scelta sono ottimi [doppio disco di platino e album più venduto della discografia], anche se il 'Black album' resta comunque inarrivabile, ma porteranno la band in crisi negli anni a venire. Ma qualcosa di buono i Megadeth a distanza di pochi anni l’avrebbero fatto.

RUST IN PEACE

MEGADETH [1990], THRASH METAL
Questo è un full length praticamente perfetto. La recensione di 'Rust in Peace' potrebbe finire qui, perfetto è l’unico modo per descrivere la musica contenuta in questo capolavoro assoluto, dal tasso qualitativo straripante. Dave Mustaine piazza il miglior colpo di una carriera formidabile, e porta il suono della sua band ad un apice sonoro invidiabile, nel quale la melodia assassina tipica del thrash metal scorre fluida sulle sei corde con una perizia ed una pulizia magistrali. I virtuosismi dei Megadeth spingono il genere reso celebre dall'underground della Bay Area alla completa maturazione: l'enorme valore dell'eclettico ensemble californiano era stato già con i dischi precedenti la scintilla capace di generare il sottofilone del technical thrash, ma con 'Rust In Peace' la concorrenza viene del tutto azzerata, nel nome di una produzione stellare e di un pugno di canzoni intricate e rifinite ma decisamente orgasmiche e dal taglio moderno, fulmineo. 'Holy WarsThe Punishment Due' apre le danze facendo subito capire il livello incredibile del disco; quintali di riff pazzeschi, un tasso tecnico stellare e un lavoro di songwriting splendido fanno di questa canzone un vero è proprio classico. Le chitarre di Mustaine e Friedman pennellano dei passaggi da brivido, sempre supportate alla grande alla coppia ritmica Ellefson-Menza. Parti tirate si alternano a passaggi più lenti in modo incredibilmente fluido, creando dei cambi di tempo mozzafiato. Anche la voce di Dave è magistrale, in perfetta sintonia con il feeling del brano. 'Hangar 18' è un'altra perla di questo lp: altro riff memorabile, altra prestazione da urlo del gruppo. La tecnica dei 4 musicisti è veramente pazzesca, sia in fase solista che in quella ritmica. Anche in questo caso, come d’altronde in tutto l’album, il livello compositivo è eccelso. Si prosegue con 'Take no Prisoner', brano che si sviluppa su ritmi più elevati, mantenendo sempre una certa melodia. 'Five Magics' è l’ennesimo capolavoro del platter, un inizio cupo che fa da preludio ad una canzone cattiva, a suo modo violenta. Ancora una volta Mustaine stupisce per la facilità con cui riesce a comporre canzoni allo stesso tempo originali ma anche con il marchio Megadeth impresso a fuoco. Il lato 'b' viene aperto da 'Poison was the Cure' che, dopo un inizio oscuro ad opera del basso di Dave Ellefson, parte in quarta con dei riff vagamente punk. In un disco pazzesco come questo, una canzone del genere sembra quasi sotto tono, pur restando comunque un gran pezzo. Con 'Lucretia' si ritorna su picchi qualitativi impressionanti, con ritmiche spaventose e assoli incredibili, sia per feeling che per il tasso tecnico. 'Tornado of Soul' è una canzone spettacolare, uno di quei pezzi da far ascoltare a chiunque osa dire che il metal è solo rumore. Riff di chitarra mostruosi, ritmiche da infarto è una melodia tanto orecchiabile quanto originale. Con 'Dawn Patrol' i Megadeth danno un ulteriore riprova della loro grandezza in fase compositiva, se mai ce ne fosse stato bisogno. Un giro di basso malato ed ipnotico accompagna la voce allucinata di MegaDave in un pezzo stranissimo, che lascia una sensazione di inquietudine, come se dovesse succedere qualcosa di assurdo da un momento all’altro. Il finale e degnamente lasciato a 'Rust in Peace: Polaris', altra gemma di un disco che è un simbolo del Thrash americano. In questo pezzo ci sono tutti i Megadeth del tempo, chitarre splendide, sezione ritmica che dà ad ogni singolo passaggio una potenza devastante e, soprattutto, la voce del grande Mustaine, personaggio a volte discutibile, ma dotato di un carisma e di una voce assolutamente unici. I suoni di 'Rust in Peace' sono da considerare ottimi, anche prendendo come termine di paragone gli standard odierni. Per concludere: questo disco non dovrebbe mancare nella discografia di nessuno, qualunque sia il vostro genere preferito.

SO FAR, SO GOOD, SO WHAT?

MEGADETH [1988], THRASH METAL
So Far, So Good: fino ad adesso tutto bene per i Megadeth, che nel 1987, dopo l’ottimo Peace Sells But Who's Buying?, si trovavano ad essere una delle band più importanti della neonata scena thrash metal statunitense, avendo la possibilità di compiere il loro primo tour da headliners nel Regno Unito; ma durante i concerti i contrasti tra i componenti della band si intensificano, e Dave Mustaine, leader e mente del gruppo, decide di licenziare il chitarrista Chris Poland e il batterista Gar Samuelson, principalmente a causa del loro consumo smodato di sostanze stupefacenti. Dietro le pelli viene dunque ingaggiato un ex tecnico di Samuelson, Chuck Behler, mentre alla seconda chitarra si avvicendano dapprima Jay Reynolds dei Malice e in seguito Jeff Young, insegnante di chitarra che Reynolds aveva incaricato di trascrivere su pentagramma gli assoli di Poland, e che si rivelò talmente adatto al compito tanto che Mustaine decise di ingaggiarlo come axeman. Con la nuova formazione, Dave si mette al lavoro sul successivo lavoro dei Megadeth, costantemente ossessionato dall’ambizione di raggiungere il successo degli ex compagni di band Metallica, obiettivo che riuscirà per la prima volta a raggiungere con ' So Far, So Good So What', le cui vendite supereranno quelle del rivale 'And Justice For All'. Il nuovo disco presenta infatti un notevole cambiamento rispetto ai dischi precedenti: le atmosfere spettrali di Peace Sells vengono abbandonate, la produzione, curata dapprima da Paul Lani e in seguito da Michael Wagener, si raffina ulteriormente, e la melodia trova spazi molto più ampi rispetto al passato; si nota una maturazione anche a livello delle lyrics, con testi intelligenti, profondi e socialmente impegnati. Il disco è introdotto dalla stupenda strumentale Into The Lungs Of Hell, che dopo un incipit dal suono poco invitante si trasforma in un vorticoso assolo di chitarra che trasporta l’ascoltatore direttamente 'nei polmoni dell’inferno', facendo da collegamento tra il nuovo sound e le atmosfere inquietanti di Peace Sells. Set The World Afire è invece un’ottima sfuriata in tipico stile Megadeth, con una varietà di riff taglienti e articolati che supportano la voce grezza e rabbiosa di Mustaine, che si scaglia contro la minaccia delle armi nucleari prospettando una terza guerra mondiale che porterà alla completa distruzione dell’umanità. La traccia successiva è la cover della celebre Anarchy In The U.K. dei Sex Pistols, riarrangiata in una versione più pesante e corposa dell’originale; il pezzo, che vede la partecipazione di Steve Jones, ex chitarrista della punk band britannica, risulta comunque un brano divertente, superiore all’originale dal punto di vista tecnico. Mary Jane è un ritorno ai toni oscuri, resi magistralmente con gli acidi fraseggi chitarristici di Mustaine e Young, per poi concludere con la consueta cavalcata thrash; nella prima parte del brano stupiscono invece le linee melodiche, che creano un’atmosfera particolare e innovativa. Anche 502 rappresenta un ritorno al passato: la batteria incessante, i riff veloci, le linee vocali aggressive ricordano infatti il primo album Killing Is My Business. Segue un pezzo forte della band, In My Darkest Hour, crepuscolare ballad dedicata al grande Cliff Burton, ex bassista dei Metallica tragicamente scomparso in un incidente d’auto. Il brano esplora i temi della morte, della solitudine, della disperazione e del fallimento in amore, con un’eccellente prova di Mustaine, la cui voce roca si esprime al meglio su un sottofondo di arpeggi e riff minacciosi e cadenzati. Un brano che non brilla per intelligenza è Liar, concepito come una lista di insulti destinati a Chris Poland, che Mustaine accusava di aver venduto alcune sue chitarre; musicalmente il brano si rivela invece coinvolgente, grazie a riff veloci e graffianti. Decisamente più matura la conclusiva Hook In Mouth, brano violento e aggressivo dal refrain molto accattivante, dove Mustaine dichiara tutto il suo odio nei confronti di ogni tipo di controllo e di censura, ed in particolare del P.M.R.C., acronimo di Parents Music Resource Center, l’organizzazione nata nel 1985 per iniziativa di alcune mogli di deputati statunitensi allo scopo di censurare i dischi ritenuti offensivi e scandalosi, ed inventrice delle famose etichette 'Parental Advisory: Explicit Lyrics'. In conclusione, So Far, So Good... So What! è un buon disco, dove però ottime canzoni sono alternate ad altre meno riuscite; inoltre, non si ritrova in esso l’omogeneità musicale che aveva contraddistinto i dischi precedenti, e si configura dunque come un [grandissimo] disco di transizione tra i due veri capolavori della band, Peace Sells e Rust In Peace.

PEACE SELLS... BUT WHO'S BUYING?

MEGADETH [1986], THRASH METAL
Il 1986 è l’anno definitivo per quanto riguarda il thrash metal: dopo le prime fasi di assestamento, le più importanti formazioni della scena statunitense producono nello stesso anno autentici capolavori dal sound ossessivo e malato che sconvolgono gli headbangers di tutto il mondo dando luogo ad un’autentica rivoluzione nel campo del metal estremo; basti pensare a quelli che sono forse i due album ancora oggi più osannati dell’intero movimento thrash: Master Of Puppets dei Metallica e Reign In Blood degli Slayer. I Megadeth, reduci da un Killing Is My Business molto interessante per quanto rovinato da una produzione indecente, non sono da meno, mettendo a segno uno degli album più importanti della loro carriera, 'Peace Sells But Who’s Buying'. Il salto stilistico dal disco d’esordio è enorme: Dave Mustaine si distacca definitivamente dalle influenze dei suoi ex compagni di band Metallica definendo quello che sarà il sound caratteristico dei Megadeth degli anni d’oro, e la produzione pur grezza valorizza pienamente la potenza della band. Tutto è terribilmente più tecnico, intricato, curato. La velocità si fa ancor più elettrizzante, il suono è più strutturato ed ogni pezzo assume una personalità propria inconfondibile e dalle atmosfere ampie e diversificate. Anche il songwriting si fa più ragionato, volto non più semplicemente a spaccare i timpani con pezzi veloci e pesanti, ma a tessere atmosfere opprimenti e oscure. Il disco comincia con Wake Up Dead, che mette subito in chiaro ciò con cui avremo a che fare per i resto dell’album: brani dalla struttura elaborata e dai frequenti cambi di tempo, ritmi ossessivi, assoli acidi e taglienti, e la particolare voce di Dave, che esprime con un timbro malvagio e psicopatico tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. Suoni malati e decadenti occupano l’introduzione della successiva The Conjuring, che si sviluppa in seguito in un alternarsi di sfuriate martellanti e riff più lenti e squadrati; come sempre un ruolo molto importante è occupato dai meravigliosi assoli, che grazie alle loro scale arzigogolate trasportano il malcapitato ascoltatore in un vortice di disperazione. Nella title track Peace Sells arriva il momento del bassista Dave Ellefson, che ci regala una introduzione semplice quanto geniale ed entrata di diritto nella storia del metal; il resto della canzone si gioca su toni meno tetri dei pezzi precedenti, con riff cadenzati intervallati da fraseggi chitarristici al vetriolo e un ritornello di grande impatto. Si torna nell’oscurità con Devil’s Island, buon pezzo sulla falsariga dei precedenti supportato ancora dai riff e dagli assoli angoscianti degli axemen. Ma ecco che arriva qualcosa di grosso, il vero capolavoro di Peace Sells, la geniale Good Morning/Black Friday, dove le atmosfere tormentate si fondono con una rabbia cieca dando origine ad una perla oscura di rara bellezza. Il brano comincia su toni lenti e malvagi, tessuti dai classici fraseggi di chitarra acuti e strazianti come urla di dolore, su cui arranca il rantolo disperato di Mustaine; in seguito, la furia esplode in riff ultraveloci e la voce di Dave si fa più stridula nella rabbiosa interpretazione del testo crudo e violento, per poi concludere con un coro ripetitivo e ossessivo. In Bad Omen il gruppo gioca ancora con atmosfere inquietanti, ottenute magistralmente grazie ad un ottimo lavoro di chitarra che abbina riff distorti a tenebrose divagazioni stridule; verso la metà del brano il suono si fa più corposo grazie ad una sezione ritmica complessa e variegata, e gli ultimi sentori dei Metallica di Kill’em All si possono sentire nell’assolo conclusivo. Giunge poi inaspettata I Ain’t Superstitious, cover di un pezzo di Willie Dixon dei primi anni ’60; il brano è riarrangiato in chiave megadethiana con un duetto di scale chitarristiche, ma il suo sentore rockeggiante risulta piuttosto fuori luogo nel contesto del disco. La conclusiva My Last Words vede invece un ritorno alle sonorità di Killing Is My Business, con una struttura semplice, ritmo veloce e parti vocali molto accattivanti. In conclusione, Peace Sells è la risposta sprezzante di Dave Mustaine alla società del benessere americana, un disco grezzo ma ricercato che punta tutto, riuscendoci alla grande, sulla creazione di ambientazioni sonore crude, tetre e negative, un abisso di pessimismo che rischia di ipnotizzare e catturare chiunque ascolti le sue note oscure. Un disco fondamentale per chiunque apprezzi il thrash metal, e un ottimo punto di partenza per chi vuole conoscere i Megadeth nel loro periodo migliore.

KILLING IS MY BUSINESS... AND THE BUSINESS IS GOOD

MEGADETH [1985], THRASH METAL
Metallica, la storia passa sempre da qui. Si perde nella notte dei tempi il diverbio che fece traboccare il vaso tra James Hetfield, Lars Ulrich, da una parte, e il loro chitarrista Dave Mustaine dall'altra. Il bizzoso rosso di La Mesa, pur dando un gran contributo alla nascente causa Metallica, era ormai diventato insopportabile per i suoi compagni: isterico, imprevedibile, destabilizzato da alcool e droghe. Mustaine era un prezzo troppo alto da pagare per la band. Così, dopo l'ennesima bravata, fu allontanato dal gruppo. Fu l'inizio di una rivalità infinita: Mustaine creò i Megadeth, carro armato di metallo che da quel momento ribatterà colpo su colpo le mitragliate dei 'Tallica, ponendosi come altra faccia della stessa medaglia. Non fu facile per Mustaine ricreare la magia del sound del suo ex combo, tanto che l'album di debutto 'Killing Is My Business... And Business Is Good' sembra un tentativo evidente di emulare il celebre 'Kill'Em All'. Il disco si impernia sul medesimo rifferrama thrash, battente e velocissimo; ma, salvo qualche eccezione, si compone di pezzi che restano inferiori alle 10 killer track che splendono nel disco dei rivalissimi. E' fresco e pieno di energia adolescenziale, con tutti i difetti di esperienza che questo comporta, ma proprio questo lo rende più diretto ed epidermico. 'Killing Is My Business..' è bello perché ingenuo e semplice, ma suonato come Bay Area comanda: è un viaggio col piede costantemente sull'acceleratore, esaltante e mai privo della giusta dose di melodia. Il brano migliore, è indubbiamente 'The Mechanix': Mustaine lo scrisse e lo suonò con i Metallica, e ne mantenne i diritti dopo la sua dipartita dalla band; Hetfield e soci ne riscrissero il testo e la rallentarono, intitolandola 'The Four Horsemen' e pubblicandola su 'Kill'Em All'. La canzone si delinea presto su una linea di riff schizofrenici davvero incandescenti, con l'acida voce di Mustaine a rendere il tutto ancora più corrosivo. Nel resto del disco spiccano le lugubri tastiere che aprono 'Last Rites/Loved To Deth' o la controversa 'These Boots', parodia maledetta di un pezzo di Nancy Sinatra. Per il resto, ogni buon thrasher può gustarsi i colpi impazziti della batteria e le ritmiche schizzate che caratterizzano i vari brani, dalla title track a 'Rattlehead'. Nel complesso l'album resta importante, sia per aver segnato la nascita di uno dei pilastri del thrash che per aver contribuito a dare forma e seguito al genere.

FISTFUL OF METAL

ANTHRAX [1984], THRASH METAL
La storia del thrash metal trova le sue origini in una manciata di dischi, tuttora considerati delle vere reliquie per gli adepti del filone più corrosivo, eccitante e veloce del pianeta. Il thrash si originò principalmente dall'incrocio di diverse correnti, avvenuto nel Nuovo Continente grazie al prolifico scambio di cassette che i giovani metalhead locali attuavano al fine di colmare la loro insaziabile sete d'acciaio. La melodia e la tecnica dell'heavy metal inglese, certamente, muoveva un ruolo di primissimo piano nella scena di aficionados americana, che però iniziava anche a coltivare una certa attrazione per l'attitudine bastarda e punkeggiante di band come i Motorhead e, ancor più marcatamente, i Venom, inglesi che muovevano le fila del loro black metal pseudosatanico alle spalle del movimento NWOBHM. In America, la miscellanea tra queste diverse smagliature stilistiche, sorse anche in risposta al dilagante fenomeno del glam metal, troppo colorato ed ammiccante per i ragazzini ribelli che chiedevano uno sfogo più irruento per le proprie frustrazioni represse. La rivolta iniziò a muoversi in città come Los Angeles e San Francisco, nella cui Bay Area la scintilla divenne un focolare: inutile ripercorrere per l'ennesima volta una storia conosciuta anche dai muri. A centinaia di chilometri di distanza, però, il thrash metal stava trovando ulteriore terreno fertile. A New York, nel 1981 nascono gli Anthrax, una di quelle band che andrà a costituire l'ossatura dei celebri Big Four of Thrash Metal. Una band che, sin dal primo colpo sferrato, quel Fistful Of Metal che ora andremo a riscoprire, si pone tra i pionieri e gli artefici di un sound fino a quel momento sconosciuto ed estremo. Qualcuno sostiene che la canzone Metal Thrashing Mad, indiscutibilmente un cavallo di battaglia per i thrashers di ogni generazione, sia nata prim'ancora della definizione di 'thrash metal', e che addirittura questa sia derivata dalla canzone stessa per opera di qualche misconosciuto fanzinaro dell'epoca. Fu la Megaforce Records di John Zazula, che di li a poco scoprirà anche i Metallica, a puntare forte sul debut di questi ragazzi, sorti dall'incontro tra i chitarristi Scott Ian e Danny Lilker. proprio con i Metallica, gli Anthrax condivideranno lo studio di registrazione a New York, stringendo un forte legame di amicizia che li porterà a frequentarli e ad aiutarli nei problemi pratici che degli adolescenti possono trovarsi ad affrontare, quando chiamati a registrare un disco dall'altra parte dell'America. Gli Anthrax all'apice della loro violenza e della sporcizia sonora. Il disco d'esordio degli Anthrax esce nel febbraio 1984, dopo due demo e un singolo, con un artwork tremendamente thrash adolescenziale, e con mezz'ora abbondante di durata è già di per sè un classico. La formazione a cinque prevedeva Neil Turbin al microfono, Dan Spitz e Scott Ian alle chitarre, l'ordinato Charlie Benante alla batteria e Danny Lilker al basso. Una ritmica martellante, riff secchi, esplosivi e letali, refrain da delirio inconteniile, da gridare a squarciagola, la voce stridula ma azzeccatissima del bistrattato Neil Turbin: sarà anche un cantante sublime, il suo successore Belladonna, ma per il thrash più incontaminato ed abrasivo la voce di Turbin era nettamente più azzeccata. Sembrerà una bestemmia, eppure è così, perchè dal disco successivo la band newyorkese si eleverà dal rango di comune thrash band ed evolverà il proprio sound in direzione più melodica ed allegrotta, e non è detto che tutti i puristi abbiano gradito questo cambio di rotta. In Fistful of Metal , il thrasher medio può trovare pane per i suoi denti (nonostante la presenza di un paio di pezzi meno isterici, che conferiscono varietà e melodia al full length), a cominciare dalle velocità farneticanti e dal riffing da psicosi; gli acuti di Turbin violentano ulteriormente la soglia di resistenza inibitoria, già scossa dalle fiondate ritmiche e dai letali assalti sferrati dalle chitarre di Dan Spitz e dell'ancor lungocrinito Scott Ian. I nervi restano tesi come una corda per quasi tutta la durata del disco, e nonostante una tecnica ancora perfettibile i ragazzi dimostrano una buona caratura pratica, delineando trame chitarristiche non piatte e sezioni soliste di grandissimo valore melodico, calde e dallo straordinario gusto armonico, probabilmente ancora ispirate alla tradizione della scuola classic heavy europea, ben combinata con la matrice punk del riffing thrash americano. Gli espedienti degli stop'n'go e delle ripartenze fulminanti, in assolo, vengono utilizzati con sapienza e naturalezza, ma quello che piace particolarmente è l'incastro di improvvise parti serratissime in canzoni dalla struttura di per sè non propriamente devastante; il suono appare così già maturo e delineato, ovviamente non ai livelli di un Among The Living ma sicuramente di grande valore storico e artistico. Quanti fans old school avrebbero preferito ascoltare più a lungo gli Anthrax di Fistful Of Metal? Non pochi, a detta di chi scrive, anche se l'evoluzione di Spreading The Disease permetterà al combo americano di elevarsi dalla massa di comuni thrash metal bands, eccitanti ma inammovibili sul medesimo canovaccio stilistico. Quel che è certo è che Fistful of Metal è di gran lunga superiore a tutto quanto fatto in casa Scott Ian a partire da State Of Euphoria in poi, e su questo non ci piove. La tensione balza subito a mille, perchè il pezzo d'apertura è il più devastante di tutti, il migliore del lotto forse: Deathrider piomba sull'ascoltatore con il suo riffone fottutamente thrash, tra urla, ritmica forsennata, velocità allucinante, la voce graffiante terribilmente underground di Neil Turbin ed un assolo squillante, abrasivo. Stop e ripartenze da delirio, dal primo all'ultimo minuto. Il biglietto da visita è, insomma, incoraggiante. Tuttavia, nei due brani successivi -nonstante siano dei veri e propri hit classici della band- sembra si allenti la pressione: Metal Thrashing Mad, a dispetto del titolo e del valore simbolico del pezzo, è esaltante nel refrain vocale e nel riffing, ma ritmicamente non è particolarmente imbizzarrito e definibile propriamente thrash. Stesso discorso, a maggior ragione, va perpetuato per I'm Eighteen, che poi è una cover di Alice Cooper, e come tale affonda le proprie radici nell'hardrock, marcatamente. Si ritorna finalmente a scuotere le teste con Panic, dotata di riffing frenetico, teso e sferrato a velocità elevata. Il pezzo è peraltro arricchito da un guitar solo di grande bellezza melodica, quasi accostabile alla tradizione classica inglese (leggasi: Iron Maiden), anthemico e infarcito di variazioni, scale, tapping. L'efficace guitarwork in fase solista emerge anche in Subjugator, pezzo dal ritmo coinvolgente ma non da pura follia: questo diventa assolutamente splendido quando, poco prima dei tre minuti, la traccia rallenta, quasi si ferma e riparte improvvisamente con un assolo esorbitante, velocissimo, sorretto da una ritmica fasdt'n'furious. Soldiers of Metal è un altro anthem, che si fa gradire sopratutto per la solennità del riffing-base, Death from Above è un'altra corsa avvincente, mentre Anthrax, dal riffing tenebroso, sintetizza l'inconfondibile approccio e il suono stesso della band di cui porta il nome. La breve strumentale Across the River, dalla ritmica prepotentemente thrash, sfocia in un assolo incendiario immediato che riporta ancora alla mente i primissimi Maiden: e anche il pezzo finale, Howling Furies, viene vitalizzato da una sorprendente sezione solista, più che dall'andamento globale dello stesso. Alla fine, il disco si rivela più che ottimo, e un posto nei classici, per valore storico e affettivo, se lo merita eccome. Seminale.
WORLD PAINTED BLOOD

SLAYER [2009], THRASH METAL
Sovrani indiscussi del thrash metal, gli Slayer ripiombano negli stereo degli headbangers con la solita prepotenza e con una voglia ardente di riconquistare chi era rimasto interdetto dinnanzi agli ultimi lavori in studio. Solo due dischi all'attivo nel nuovo millennio: pochino per chi aveva sfornato pesi massimi della musica dura con ottima continuità a cavallo dei due decenni precedenti, culminati nell'irraggiungibile Reign In Blood e arricchiti da un'evoluzione intelligente che non ha mai preso nemmeno in considerazione l'allontanamento dal tipico sound della band. Mentre i colleghi si ammorbidivano, gli Slayer sono rimasti sempre fedeli a se stessi, alle loro furiose radici punk, alla potenza soffocante della loro musica, alla crudezza disarmante dei loro testi. Non hanno biogno di presentazioni, non hanno bisogno di preamboli: per loro parla la musica, e la loro musica è ancora un durissimo cazzotto 'in your face'. Lasciamo dunque che a parlare sia il nuovissimo World Painted Blood, con i tipici riffs che si rincorrono, la devastante sezione ritmica, i vocalizzi del mite Araya e gli assoli assatanati del truce Kerry King. Potenza e velocità, un mix letale capace di radere al suolo qualsiasi cosa ruoti attorno al vostro stereo. Saranno parole banali, saranno scontate se riferite ad una band che questa definizione l'ha sempre messa in pratica e in maniera esplosiva; eppure altri aggettivi ed altre frasi non esistono per descrivere quanto gli Slayer hanno nuovamente messo in piedi in questo World Painted Blood. La titletrack è il pezzo introduttivo, e passa da strofe veloci ad un ritornello lento e a denti stretti. Insolito il riff di chitarra che dà nuova linfa alla traccia dopo i due minuti di durata, così come intriganti appaiono le urla striate che il plettro di King fa grondare dalla propria ascia. Dopo il finale velocissimo, Unit 731 si segnala come una tipica song slayerana, dalla marcata estrazione punk sia nella velocità che nella durata limitata. Del resto gli Slayer sono stati tra i principali autori dell'incontro tra heavy metal e hardcore punk, e la loro anima più genuina non può che sgorgare immediatamente in tutta la sua furia. Il passato emerge ancor più palesemente in Snuff, aperta come l'indimenticabile Captor Of Sin: un assolo adrenalinico sparato a mille e Kerry King che sparoneggia con sfuriate fulminanti per tutta la durata del brano. Anche Hate Worldwide ricalca questa struttura, con i suoi tre minuti scarsi di durata e le ripartenze a cento all'ora. Tre pezzi tiratissimi per scuotere come gli Slayer hanno sempre saputo fare, tre schegge dinamitarde per mettere subito le cose in chiaro: non siamo da pensione. Nel corso del platter, i californiani sembrano voler ripercorrere tutto l'arco della loro carriera: così si passa da queste scintille di thrash old school alla potenza sulfurea di Beauty Trough Order, che con i suoi ritmi sostenuti (perlomeno in avvio, prima dell'assolo) si ricongiunge idealmente alla direzione intrapresa dalla band all'epoca di South Of Heaven. Un drum incessante dell'indemoniato Dave Lombardo si fa sempre più incontenibile in Public Display Of Dismemberement, caratterizzato da un bel riffone d'apertura. Human Strain assomiglia invece all'epoca di fine Nineties, con le vocals del buon Araya che abbandonano le urla a getto continuo per dedicarsi ad uno stile quasi rappato (definizione da prendere assolutamente con le pinze per evitare fraintendimenti o scatenare polemiche). Il risultato è un pezzo dal coinvolgimento altissimo e immediato. Altra traccia interessante è Americon, con quel riffone distorsivo ripetuto ipnoticamente e inesorabilmente che sembra quasi incancrenirsi nella testa dell'ascoltatore. Già presentata live (e sul Web) da diverso tempo, Psychopaty Red è un nuovo esempio del thrash a briglie sciolte che il combo losangelino ha fatto abbondantemente sanguinare in micce esplosive come Reign In Blood e Divine Intervention. La stranezza assoluta di tutto il platter è tutta concentrata in Playing With Dolls, song nella quale Araya si tuffa in linee vocali 'pulite' per qualche minuto: giusto il tempo di stupire i fans più tradizionalisti, prima che la traccia riacceleri sulla tellurica falsariga delle sue sorelle. Ultima delle quali (ma solo in ordine di tracklist) arriva anche Not Of This God: la classica mazzata finale, nulla di nuovo, ma forse è proprio questo che i fans vogliono. Gli Slayer vogliono ribadire con furiosissima superiorità a chi appartiene la corona di padrone assoluto dell'heavy metal. World painted Blood è una possente corazzata attraverso la quale i californiani esibiscono tutto il loro repertorio, una sintesi letale di tutti i risvolti toccati nell'evoluzione della loro carriera musicale. La coppia d'asce King-Hannemann tritura riff insani con una frenesia perpetua, lanciandosi poi negli infuocati solos che hanno fatto crescere intere generazioni di metalheads. Araya non avrà più la forza d'un tempo, dal vivo, ma dagli studios ci arriva un singer ancora una volta energico. Ed è sempre lui, col suo basso, ad accompagnare Lombardo nel suo martellamento incessante e terremotante, griffe immancabile su ogni grande disco targato Slayer. Ci sarà la solita frangia che li accuserà di mancanza di idee, ci sarà chi sputerà sentenze e critiche feroci, ci sarà addirittura chi preferirà Christ Illusion o God Hates Us All al disco in oggetto; la democrazia fortunatamente impone la libertà di parola, però giudicare un disco solo ponendolo a paragone con i suoi predecessori lo trovo infantile. Non sarà mai Reign In Blood, non sarà niente di nuovo, ma ciò non toglie che sia fottutamente Slayer, garanzia di dominio.

CHRIST ILLUSION

SLAYER [2006], THRASH METAL
Come tutti sanno, ci sono fan degli Slayer che hanno capacità critica e metro di giudizio pur adorando la band, e fan degli Slayer adoranti ogni singola nota fuoriuscita dalla mente della formazione, incapaci di accettare ogni benché minima valutazione non positiva e applicanti alla lettera il verbo di Araya. Chi appartiene alla seconda frangia può smettere di leggere ora e bearsi dell'attesissimo ritorno discografico dei quattro, finalmente con la formazione degli esordi e il loro produttore storico Rick Rubin. Almeno sulla carta, visto che il maestro ha preferito lasciare la consolle all'astro nascente di Josh Abraham, per andare dai dollari e dai Metallica, con sommo dispiacere dei nostri. Se ci si poteva aspettare un capolavoro, viste le premesse, il risultato non è all'altezza delle aspettative - veramente molto alte a dire il vero, per il valore storico del gruppo, per l'attesa durata cinque lunghi anni, per l'auspicato ritorno di Lombardo, per le dichiarazioni pre pubblicazione e per quel gioiellino di nome 'Cult', d'obbligo nei live della formazione anche negli anni successivi. Sfortunatamente di 'ma' ce ne sono parecchi. Il disco è un concept lirico su come la religione e la politica imprigionino l'uomo, e se i testi non vertono sull'eresia, si concentrano sull'altro tema prediletto storicamente, ovvero la guerra: va ammesso che figurarsi un quarantacinquenne oramai brizzolato intento a scagliare anatemi contro il cristianesimo può però far sorridere. Fondamentalmente questo 'Christ Illusion' è un album di compromessi, diviso tra la volontà di ricreare i fasti del passato glorioso e la tendenza a introdurre qualcosa di nuovo. Grazie a pezzi come l'iniziale 'Flesh Storm', 'Catalyst', 'Consfearacy' e la sopracitata 'Cult', gli assetati della vecchia scuola possono godere di riff alla velocità della luce dalla migliore scuola Hanneman - King, ma sempre con la pesante ombra dell'auto citazionismo alle spalle. Tra le tracce ammodernate spicca 'Jihad': con un testo ispirato all'11 settembre visto dal punto di vista dei terroristi, un esordio alla Tom Morello e musicalmente molto vicina ai System Of A Down, risulta un esperimento ben riuscito. Come si nota nel riff scippato ai Fear Factory nel finale di 'Catatonic', gli Slayer hanno digerito il movimento nu-metal molto meglio di altri. Lombardo è come sempre superlativo: velocissimo e fantasioso, regala un'effervescenza e una carica che Bostaph non è mai riuscito a creare, pur essendo un batterista d'eccezione; da notare il blast-beat su 'Supremist', a memoria il primo della discografia Slayeriana. Un altro disco degli Slayer, sufficiente ad appagare la sete dei fan e a dare la scusa di fare qualche altro anno di tour, ma quello in cui tutti speravano era qualcosa di storico e monumentale, qualcosa di più di 'un altro album'.

GOD HATES US ALL

SLAYER [2001], THRASH METAL
God Hates Us All è il nono disco degli Slayer uscito nel 2001. Dopo le critiche al precedente Diabolus in Musica, il quartetto decide di ritornare alle vecchie sonorità ma mantenendo le influenze groove del disco precedente. Nel complesso il disco è inquadrabile in un contesto thrash più vicino agli Slayer precedenti a Diabolus In Musica. Quest'album ebbe una storia alquanto travagliata. Infatti l'uscita del disco, che era prevista nell'autunno del 2000, venne rimandata a causa di varie diatribe tra gli Slayer e la censura, per via del titolo dell'album -che significa 'Dio ci odia tutti'- e per la copertina, che avrebbe dovuto rappresentare un libro biblico infilzato da chiodi. Il disco uscì dunque il fatidico 11 settembre 2001, giorno dei tragici attentati alle Torri Gemelle a New York, cosa che indusse il leader della band Tom Araya a parlare di inquietante segno del destino, visto appunto il titolo dell'opera. Parlando dei brani, 'Darkness Of Christ' è un intro che sembra promettere bene e 'Disciple' è una canzone con un buon lavoro di chitarra e batteria, con un Paul Bostaph che dimostra di essere un autentico professionista dei tamburi, in ambito metal. 'New Faith' è un brano ben suonato e forse uno dei migliori del disco, 'Threshold' mostra che nella musica degli Slayer è rimasta qualche traccia di Nu Metal mentre in 'Seven Faces', brano ispirato al serial-killer John Doe del film Seven, si avvertono le atmosfere lente ed oscure dei primi Black Sabbath. 'Bloodline' è una canzone che entrerà anche nella colonna sonora del film Dracula 2000 e 'War Zone' è un brano aggressivo, ottimamente condotto dal drumming devastante di Paul Bostaph. L'ultima traccia, 'Payback', è una canzone veloce e martellante che chiude un disco considerato sopra la media, che ridiede fiducia ai fans delusi dall'album precedente. Nonostante abbiano ricevuto qualche critica per il loro cambiamento musicale, gli Slayer rimangono ancorati al loro aggressivo Thrash sound, sebbene si sia evoluto negli anni. Questo è anche l'ultimo album con Bostaph alla batteria, che darà spazio al ritorno di Dave Lombardo.

DIABOLUS IN MUSICA

SLAYER [1998], THRASH METAL
Dopo quattro anni da Divine Intervention, e cinque dal traumatico cambio di line-up dovuto al subentro di Paul Bostaph al posto di Dave Lombardo dietro le pelli, gli Slayer danno alle stampe Diabolus In Musica, settimo full-length nella loro venticinquennale carriera. Album decisivo, in quanto, dopo quattro anni di silenzio, sembrava che la carriera dell'act americano fosse destinata ad una prolungata fase di stagnazione o, addirittura, al tramonto definitivo. In sostanza, un album che risente del periodo di depressione del thrash nella seconda metà degli anni '90, concretizzatosi specificamente nell'abbandono del songwriting semplice ed immediato del genere stesso, verso la ricerca di nuove soluzioni che a volte appaiono fuori luogo o forzate, soprattutto nell'uso insistito e abusato di effetti nel filtraggio della voce di Tom Araya. Ma anche un album ove lo stile unico ed immediatamente riconoscibile del gruppo non viene mai a mancare, sintomo di coerenza e onestà verso sè stessi e verso gli aficionados del gruppo stesso. Con questo disco, il gruppo subisce una trasformazione radicale. I brani vengono rallentati notevolmente e diventano più lunghi, l'accordatura delle chitarre viene abbassata di tonalità e vengono incorporati elementi groove metal. Bitter Peace, Scrum e Point sono le uniche canzoni che ricalcano lo stile dei primi Slayer, le restanti sono fortemente influenzate dal genere sopracitato, tra cui Stain of Mind(con dei riff ispirati ai Coal Chamber) , Love to Hate e Screaming from the Sky. Il nome dell'album veniva usato nel Medioevo per identificare il tritono, ovvero l'intervallo di tre toni interi che emettono un suono oscuro, che per i clericali di quel tempo era considerato demoniaco.

DIVINE INTERVENTION

SLAYER [1994], THRASH METAL
Forti dell’ingaggio dell’ex Forbidden Paul Bostaph a sopperire lo split con Lombardo [avvenuto nel 1992]. il trio Araya- Hanneman- King sforna in pieno periodo 'untori del thrash' un disco che sopravvive alla peste di metà anni 90, che ha spolpato fino all’osso ogni minima produzione del genere. Successore di un indiscusso capolavoro come 'Seasons in the Abyss', il platter si presenta violento, ben curato, stilisticamente ineccepibile. Dopo due lavori potentissimi e più orientati a strutture ritmiche variabili [con passaggi più cadenzati ed una sensibile linea melodica di base], la temibile macchina da guerra americana rispolvera i fasti di Reign In Blood calcando violentemente il piede sull'acceleratore e violentando le ritmiche in scorribande serrate a briglia sciolta, così come i fans oltranzisti sognavano ormai da otto anni. Fasti che vengono rivissuti con estremo piacere in un sound comunque arricchito dalla miscellanea di riffing e ritmiche proprie degli ultimi tre album, a sottolineare che 'Divine Intervention' non è un banale ritorno ad una vecchia sonorità ma il frutto di un'evoluzione naturale e continua che non mette da parte nessuna delle esperienze assimilate dalla band nel corso del tempo. Il nuovo batterista non fa rimpiangere più di tanto la dipartita di Lombardo. Chitarre sempre ispirate, cadenze ricercate e riconoscibilissime, lyrics espressione della violenza che ha reso tanto famosa la band e i soliti marci assoli fanno da padroni all’organizzazione di ogni pezzo, nessuna esclusione. La produzione mette distintamente in risalto l’alone groovy che oscura qua e là l’album e il risultato non delude le aspettative degli ascoltatori. Dieci brani di profondo e tirato thrash metal. 'Killing Fields' e 'Fictional Reality' nascono da tachicardiche mitragliate di doppia cassa per poi riprendere quei rallentamenti così intimi già ampiamente sperimentati con successo in precedenza. 'Sex, Murder, Art' si attesta diretta e sparata in tutta la sua contenuta durata, in una sinergia di pesantezze e groove molto ricercati. 'Dittohead' apre con un riffing di grande gusto vintage e con tale si lascia trasportare fino all’esaurimento, sovrapponendo pattern di batteria potenti ad assoli ruvidi e graffianti che richiamano in tutto e per tutto i tempi d'oro della band. Divine Intervention trova il concentrato più denso della sua sostanza proprio nella title track, un fluido amasso di riff capaci di rievocare tutti gli stilemi fondamentali del songwriting assassino. Passando poi per la turbolenta 'Circle of Beliefs', segnata da ordinarie ritmiche alla King, ci si scontra contro quel muro massiccio altalenante tra gli estremi della velocità e del soffocante incedere alle pelli che è SS-3. Un passo ancora avanti nel songwriting di 'Serenity in Murder,' per l’ossessività dei suoni e delle idee concretizzate nella concezione degli assoli e degli stacchi ritmici a supportare i malati clean-chorus. Intro di finissimo Bay Area per '213': introspettività, ritmica contenuta e mid-rhythm per proseguire con l’uso determinato di un incedere degno rappresentante della scena americana di fine anni ‘80 primi ‘90. E come avrebbero potuto chiudere, se non con un classico come 'Mind Control', che incuriosisce al solo pensiero di non aver potuto avere un Lombardo a massacrare tutti quei pezzi così ben concepiti? Un disco senza incertezze di sorta: sono gli Slayer, assolutamente Slayer, ordinariamente Slayer. Un disco coerente, riassunto puntuale del loro background produttivo: è come se tre immortali creature infernali dai nomi di Reign in Blood, South of Heaven e Seasons in the Abyss si fossero unite sanguinosamente in un’orgia musicale, accompagnate dall’orchestra malata dei quattro di Huntington Park.

SEASON IN THE ABYSS

SLAYER [1990], THRASH METAL
Seasons In The Abyss, pubblicato dagli Slayer nel 1990 per l’etichetta Def American, ebbe l’ingrato compito di succedere a due grandissimi capolavori della storia del metal [Reign In Blood e South Of Heaven]. La linea musicale prescelta dal combo americano per questo nuovo lavoro può essere sintetizzata come un’unione tra gli stili dei due album precedenti: rabbia e velocità mista a malignità e mid-tempo. Il risultato è straordinario al punto che Seasons In The Abyss è certamente l’album più maturo sotto il profilo compositivo degli Slayer, nonchè l’ultimo loro grande capolavoro. Inizierà poi una parabola discendente sebbene il gruppo sarà ancora in grado di produrre album di buon livello. L’open track War Ensemble è uno dei brani migliori dell’album: un thrash violentissimo con riffs e assoli laceranti che parla degli orrori bellici; dal vivo questa song viene eseguita spesso per il suo notevole impatto sul pubblico. Sulla stessa linea si collocano le devastanti Born Of Fire e Hallowed Point mentre Blood Red è più rallentata, tutte canzoni che potevano senza problemi far parte del mitico Reign In Blood tanto per intenderci. Dall’andamento più marziale, Skeletons Of Society è un’ottima song con testo e musica di Kerry King, mentre in Spirit In Black ricompaiono le tematiche sataniste tanto care ad Araya e soci. Expendable Youth, il cui testo parla della violenza delle gang giovanili, Dead Skin Mask, dedicata al serial killer Ed Gein, e la lunga conclusiva title track sono pezzi molto interessanti dall'andamento più lento e cadenzato. Oscuri, maligni, di grande effetto; l’atmosfera, sovente di sabbatiana memoria, si fa opprimente e lugubre, il suono delle chitarre più corposo, intenso e meno distruttivo: l’ascoltatore è catapultato in una dimensione surreale. Sicuramente sottovalutata Temptation che, invece, è una grande song con micidiali cambi di tempo ed un furioso Tom Araya alla voce. In Seasons In The Abyss, la titletrack che risulta un tentativo di approccio alla melodia, tutto il gruppo si esprime ai massimi livelli. Dave Lombardo, in particolare, si conferma nel platter come uno dei più grandi batteristi del metal estremo. Nonostante non si tratti della miglior release della band californiana, 'Season In The Abyss' rimane un disco di notevole livello da ascrivere tra i più significativi della storia del metal. Metallized.it