BLACK CLOUDS AND SILVER LININGS

DREAM THEATER [2010], PROG METAL
I Dream Theater stanno lentamente cambiando, ed il nuovo 'Black Blouds & Silver Linings' è qui per dimostrarlo. L'oscurità concettual-muiscale sembra aver preso il sopravvento su tutto e tutti, lasciandoci un pugno di pezzi dalla natura sostanzialmente indecifrabile, profondamente progressive e orgogliosamente metal, ma al tempo stesso estremamente sfuggente. Il mastermind esce da un periodo difficile, e questo sembra riflettersi nei sei capitoli dell'album, uno più tenebroso dell'altro. La partenza dell'opener 'A Nightmare To Remember', in perfetto stile 'ultimi' Cradle Of Filth, attira la nostra attenzione, rendendoci difficoltosa qualsiasi previsione di sviluppo del pezzo. E' la band al gran completo, in grandioso spolvero, a costruire la song nel corso dei suoi lunghi ma godibilissimi sedici minuti di durata, mattone su mattone, fino al tripudio finale, inquietante nella sua maestosità. La voce di James LaBrie risuona cristallina nelle nostre orecchie, convincendoci una volta per tutte della sua definitiva guarigione dai mali del passato. Arriviamo al singolo dell'album, la amata e odiata 'A Rite Of Passage', che combina le consuete progressioni strumentali della band ad una melodia vocale di facile assimilazione, per un risultato che troverà sia estimatori che detrattori, anche per la sua doppia natura, orecchiabile per i primi cinque minuti e puramente prog metal per i restanti. L'altro singolo, ed il pezzo più corto del lavoro con i suoi cinque minuti abbontanti di durata, è 'Wither', la tipica Dream Theater ballad, sempre commovente e coinvolgente, come solo i Nostri sanno fare. Torniamo qui indietro alle sonorità più popolari del bellissimo 'Octavarium', che tanto aveva diviso critica e fan ma che aveva saputo oggettivamente toccare picchi emozionali notevoli. Con la successiva 'The Shattered Fortress' si conclude il concept trans-album relativo al percorso di riabilitazione di Mike Portnoy dall'alcool, rappresentato negli ultimi cinque album con un pezzo per ciascuno. Attraverso numerosi richiami alle melodie ed ai riff dei capitoli precedenti, 'The Shattered Fortress' intrattiene i fan, contribuendo a creare un forte senso di unione e coesione tra i capitoli, che ci hanno accompagnati pezzo dopo pezzo nel corso degli ultimi sette anni. E poco importa se la maggior parte del materiale qui contenuto rappresenta una semplice riproposizione di ciò che era stato sviluppato nei capitoli precedenti: il pezzo funziona, e questo è l'importante. Petrucci suona la chitarra come mai prima d'ora, il grandioso Jordan Rudess accarezza i tasti con una velocità e grazia da capogiro, Portnoy si mantiene sui suoi soliti livelli stratosferici, Myung accompagna come sempre alla grande. Questa è la band che abbiamo imparato a conoscere [unita sotto questa line-up da ormai dieci anni, e speriamo ancora per molto tempo], capace di supportare nel migliore dei modi le strutture talvolta alienanti dei pezzi, e di evidenziare la performance di LaBrie. Continuando nell'ascolto, troviamo la commovente, a tratti struggente, 'The Best Of Times', un sentito addio di Portnoy al padre recentemente scomparso. Un inizio sussurrato, dove il piano di Rudess disegna melodie da pelle d'oca, che lascia poi spazio ad uno sfogo, dove l'irruenza della performance sembra nascondere la rabbia per una perdita così dolorosa ed ingiusta. Un pezzo valido, che tuttavia perde alcuni colpi nella sua lunga durata. Arriviamo al pezzo più lungo del lotto, 'The Count Of Tuscany', posto in chiusura come accade spesso in questi casi, e completamente abbandonato al lato più psichedelico del progressive. Un ottimo modo per accompagnare l'ascoltatore verso fine dell'album, per prima stordirlo con estreme dosi di prog [uno sguardo al capolavoro' Metropolis Pt. II: Scenes From a Memory'], per poi cullarlo tra le sonorità dilatate della seconda metà del pezzo [forse una voluta citazione ad 'Echoes' dei Pink Floyd]. Ed eccoci alla fine dell'album, profondamente confusi e spaesati, non tanto per la qualità dei pezzi, quanto per la difficoltà nel decifrare quale sia la strada che la band stia per intraprendere. Parliamo di un lavoro che probabilmente verrà meglio compreso dopo la pubblicazione di un eventuale prossimo album. O forse basta qualche mese, e la visione della band potrà diventare intellegibile.
SYSTEMATIC CHAOS

DREAM THEATER [2007], PROG METAL
Sicuramente in progresso rispetto agli ultimi due lavori oggettivamente criticabili, Systematic Chaos probabilmente creerà una diatriba invero abbastanza scontata tra i sostenitori ed i denigratori dei Dream Theater. Prendendo le mosse dal concept derivato dalla teoria enunciata dal titolo -lo studio dell’ordine apparentemente nascosto dei macro sistemi complessi ha aperto strade nuove alla comprensione della realtà, ma probabilmente non è il caso di affrontare questi problemi all’interno di una recensione, per di più contenuta per motivi di spazio-, Systematic Chaos presenta alcuni aspetti apprezzabili, come un certo ritrovato gusto della melodia, alcuni chorus molto indovinati, una minore complessiva presenza di parti eccessivamente prolisse, (comunque facenti parte del DNA di super gruppi metal-prog), ed un piglio generalmente più aggressivo che nel recente passato. Oltre al consueto lavoro di Petrucci e Portnoy, ed una certa buona vena di Myung e Rudess, è probabilmente LaBrie a cercare maggiormente quest’ultimo aspetto, ad esempio in Forsaken, per altro di impianto più easy-listening rispetto ai canoni della band. Sono comunque abbastanza lontani i fasti di Images and Words e personalmente non riesco a mandare giù che un gruppo così dotato deva scimmiottare talvolta Muse e Metallica (certe parti di Constant Motion), ma comunque rispetto alla media di quello che si sente oggigiorno un lavoro che va valutato, pur con più di una pecca, in maniera complessivamente positiva. Da Metallized.it
OCTAVARIUM

DREAM THEATER [2005] PROG METAL
Tutti voi avrete avuto modo di parlare con amici e conoscenti dei Dream Theater. Siamo certi che, ogni qualvolta l'argomento è stato tirato in ballo, sono emersi pareri tra i più discordanti; il pensiero che ognuno ha sulla band è qualcosa di strettamente personale, figlio dei gusti musicali di ognuno. Ma, volendo analizzare oggettivamente la carriera dei Dream Theater, crediamo che nessuno trovi difficoltà a riconoscere la loro importanza nella storia della musica metal. Quel capolavoro di 'Images And Words', uscito ormai nel lontano 1992 e definibile come uno dei migliori dischi di quel decennio, ebbe il merito di riportare in auge sonorità progressive di stampo settantiano che sembravano ormai morte e dimenticate, rendendole più attuali e contestualizzandole in maniera sublime nell'ambito della musica heavy metal. Da quel momento in poi la band ha cercato di cambiare la propria musica disco dopo disco, tentando di evolversi e rinnovarsi, vivendo fasi di successo alterne. La volontà era quella di non ripetere un altro 'Images And Words', ma i migliori risultati a livello di critica e indice di gradimento tra i fan furono ottenuti proprio con 'Scenes From A Memory', altro masterpiece che rappresentò un ritorno alle radici per l'act americano. Con il nuovo 'Octavarium', ottavo studio album, la band è chiamata a dare la sveglia ai propri fan. dopo un 'Train of Tought' che non ha riservato solo consensi. Stilisticamente non vengono rinnegate le sonorità moderne ed immediate presenti nel precedente lavoro, ma questa volta i Dream Theater si spingono oltre arrivando a comporre un disco in cui, le canzoni si presentano in maniera sostanzialmente 'lineare', quasi del tutto prive di ritmiche intricate e momenti solistici esasperati. LaBrie pare avere completamente recuperato la forma che sembrava irrimediabilmente persa con i due precenti album, ritrovando ispirazione nel costruire linee vocali accattivanti. Tutto questo, però, non è stato sufficiente per consegnare al pubblico un lavoro constantemente avvincente, ma solo un disco discreto che vive di troppi alti e bassi. L'iniziale 'The Root Of All Evil', dal riff che deve molto ai Metallica del 'Black Album', è sicuramente uno degli episodi meglio riusciti, in cui LaBrie sfodera una prestazione dannatamente epica e passionale come non gli riusciva da tempo. Nella seguente 'The Answer Lies Within' è una ballad toccante ed emozionante, mentre in 'These Walls' la band si concentra troppo sui suoni, manifestando la chiara volontà di tentare vie nuove, e prestando un'esagerata attenzione all'effettistica. 'I Walk Beside You' rappresenta un piacevole e riuscito incontro tra sonorità attuali e quelle dei Dream che furono, mentre 'Panic Attack', assolutamente ottima, sorprende per cattiveria e per inaspettate influenze targate Muse. Con 'Never Enough' e 'Sacrificed Sons' si ripresentano i toni drammatici, a tratti soffocanti e claustrofobici, che caratterizzavano 'Train Of Thought'. L'album si chiude con i ventiquattro minuti della title-track che, alla pari di 'The Root Of Evil' e 'Panic Attack', è quanto di meglio l'album sia riuscito ad offrire nei sui oltre settanta minuti di musica. La band ha suonato la sveglia; i Dream Theater di oggi sono questi. Chi vuole può tornare a dormire, gli altri troveranno un gruppo completamente differente da quello dei gloriosi tempi che furono. Da Metalitalia.com
PERSECUTION MANIA

SODOM [1987], THRASH METAL
Persecution Mania, secondo full length dei thrashers tedeschi Sodom e predecessore dell'acclamato Agent Orange, rappresenta il primo dei grandi classici della band, nonché il distacco della stessa dai canonici temi satanici dell'esordio Obsessed By Cruelty per approdare a tematiche più mature e impegnate, principalmente incentrate sulla denuncia delle orribili conseguenze della guerra. L'opener 'Nuclear Winter' ci porta subito nel vivo del sound che caratterizzerà tutto il disco: l'influenza di gruppi come Venom e Motorhead è palese; i primi sono riscontrabili generalmente nella struttura ritmica portante, i secondi nel lavoro di riffing teso e continuo dell'inarrestabile Frank Blackfire. Il brano è assolutamente trascinante sia nei momenti più veloci -il refrain è semplice ma indimenticabile- che nelle rare decelerazioni. La stessa struttura è facilmente individuabile -senza però risultare un mero copia e incolla- in altre grandi hits del disco: Electrocution, la devastante Bombenhagel e la stessa Persecution Mania sono veri e propri brani tritaossa, in cui il compianto Chris Witchunter sfodera una prestazione da applausi, precisa e inarrestabile, degnamente supportata dai compagni con i quali crea ritmi irresistibili sferzati dalla cattivissima linea vocale del leggendario Tom Angelripper. La title-track è proprio uno dei pezzi più incredibili del platter: in questo brano la prestazione di Witchunter è da brividi, la trama ritmica è asfissiante e violentissima, il riffing teso intrappola l'ascoltatore in una fittissima tela musicale e la linea vocale è più cattiva che mai, e da ciò nasce un pezzo che ogni thrasher del mondo dovrebbe conoscere a memoria e ascoltare regolarmente, in quanto incarna in sé tutti gli elementi del thrash metal old school, compreso uno stratosferico assolo, la cui tradizione si sta terribilmente perdendo nelle tendenze moderne. Enchanted Land e Procession to Golgatha mettono in mostra il lato più oscuro della band, evidentemente mutuato proprio da quei Venom già citati, seppur in modo molto personale, e che è rimasto sempre presente, a livello più o meno cosciente, nel sound successivo del gruppo: la prima è un pezzo sulla falsariga dei precedenti ma più lento e dal mood più cupo e claustrofobico, mentre il secondo è un brano strumentale in cui si evidenzia uno stupefacente assolo conclusivo. All'altra band ispiratrice dei nostri è dedicata la cover di Iron Fist: poco da dire su questo pezzo, se non che la band lo ripropone con intelligenza, senza scimmiottare ma neanche snaturare la versione originale, ma adattandola molto bene al proprio sound. Il meglio dell'album non è però nelle canzoni già citate, ma nella lunghissima Christ Passion. Una maratona thrash di sei minuti, travolgente come poche altre canzoni a lei contemporanee, tirata dall'inizio alla fine senza un calo di tensione, su ritmiche velocissime, un assolo ancora una volta da antologia, un Angelripper al massimo della forma, che interpreta al meglio le serratissime strofe con cattiveria inaudita; da ascoltare e riascoltare fino alla nausea!La versione europea è poi arricchita da altre quattro canzoni: la fenomenale Outbreak Of Evil e le tre contenute nell'EP Expurse Of Sodomy; di queste parleremo nelle recensioni dei relativi dischi, ma se non le conoscete almeno la prima di esse è assolutamente da ascoltare, trattandosi di un altro dei pezzi più famosi della band, contenuto nel celeberrimo In The Sign Of Evil. Che amiate il thrash hardcore, quello ipertecnico, quello americano o, ovviamente, quello teutonico, Persecution Mania deve assolutamente far parte della vostra collezione; allo stesso modo non potete farne a meno se siete semplicemente amanti del lato più violento del metal. Da Metallized.it
AGENT ORANGE

SODOM [1989], THRASH METAL
'Agent Orange', ritenuto da tutti l'assoluto masterpiece dei tedeschi Sodom è, senza troppi giri di parole, una sintesi perfetta del miglior thrash metal del vecchio continente. Rispetto agli illustri compagni di viaggio degli anni '80, tra cui citiamo gli immortali Kreator e Destruction, i Sodom adottavano infatti un approccio più puro, quadrato e stilisticamente ineccepibile, che li ha portati a concepire il qui presente disco, vera e propria summa di tutto lo scibile thrash partorito in Europa. Aperto dalla folgorante title track, il disco si impone subito all'attenzione dell'ascoltatore per la sua potenza espressiva racchiusa in ritmiche dirette e senza fronzoli, una chitarra compatta e martellante nei suoi mastodontici riff e la voce del singer Tom Angelripper, sporca, grezza, una sorta di mid growling ma decisamente in anticipo coi tempi; anch'essa farà scuola per gli anni a venire, insieme allo stile più urlato e acuto del collega Petrozza. Il brano in questione, nei suoi sei minuti, rapisce totalmente l'ascoltatore in un vortice di riff di grandissima classe [indimenticabile quello d'apertura], nel ritornello tanto semplice quanto impossibile da non cantare ['Agent Orange, a fire that doesn't burn!'], e soprattutto nella lunga sezione strumentale della seconda metà, una vera e propria irresistibile cavalcata in cui il drummer Chris Witchhunter dà il meglio di sé, ma in cui non è ovviamente da meno il buon Frank Blackfire, autore di una sezione solista di tutto rispetto, non tecnicamente mostruosa ma stilisticamente perfetta. Dopo un simile pezzo, quasi sconvolge pensare che solo 6 minuti su 40 sono passati; eppure bisogna rendersene conto, perché pezzi di grande calibro ce ne sono ancora: molto valida la successiva 'Tired And Red', in cui notiamo alcuni riff di bella fattura a supporto del ritornello, e la successiva che 'Incest' conferma le capacità della band sulle alte velocità. Ma è con 'Remember The Fallen' che i Sodom piazzano l'altro colpaccio: un brano carico, teso, nervoso, dai forti connotati sociali nel testo, caratteristica questa che accomuna quasi tutte le loro composizioni; musicalmente ci troviamo di fronte ad un mid tempo roccioso, dall'avanzata pesante e innarestabile, memorabile tanto nelle strofe quanto nell'ancora una volta magnifico ritornello, oltre che nell'assolo, lanciato nel mezzo della mischia, lancinante, veloce, semplice ma scoinvolgente, un vero capolavoro, con improvvise accelerazioni con un Witchhunter sugli scudi! La seconda metà del disco mantiene i livelli di magnificenza della prima, tra il bellissimo attacco di 'Ausgebomt' e la lunga 'Magic Dragon', forse in effetti il brano meno incredibile del platter, ma soprattutto con la travolgente 'Baptism Of Fire', che conclude il disco con riff incredibili e un ritornello irrefrenabile, in un escalation di violenza e rabbia perfettamente resa anche dai testi: 'Resigning, ireful Watching the depopulation Danger, impotence Envelope the world with fear Unnatural decay Disclose the human need Ptomaine, cremation Baptism of fire we'll not survive'. Si chiude a questo modo uno dei dischi thrash metal più importanti di sempre, monumento alla musica rabbiosa, travolgente e trascinante, come del buon rock/metal dovrebbe essere; fatelo vostro senza remore, se volete possedere un pezzo di storia della musica moderna.



SODOM
. Sadica ironia e feroce assalo di thrash metal 'alla tedesca', come gli alfieri della storica 'Triade' ci hanno insegnato: i Sodom, leggendario combo teutonico che al fianco di Kreator e Destruction costituisce l'ossatura del trittico distruttivo più violento del continente fin dagli anni '80, ha una storia ed una filosofia tutte da raccontare. Nascono in Germania e più precisamente nel bacino della Ruhr a Gelsenkirchen nel 1982, come 'espediente' del frontman Thomas Such per evitare di dover lavorare nelle miniere di carbone. Il sound che il gruppo propone è grezzo, violento e diretto, tipico del genere thrash di stampo teutonico che caratterizza anche altri gruppi. I membri della band adottano dei soprannomi provocatori: nel 1984 la formazione prevedeva Tom Angelripper ['squartatore di angeli'] al bassoe alla voce, Chris Witchhunter ['cacciatore di streghe'] alla batteria e Grave Violator ['profanatore di tombe'] alla chitarra. I Sodom sono sempre stati molto influenzati dai gruppi preferiti del loro 'mainman' Tom Angelripper: questi sono i Venom, i Motörhead e i Tank; interessante notare come tutti questi gruppi siano dei power trio, composti da chitarrista, batterista e bassista in cui è proprio quest'ultimo a occuparsi del cantato, esattamente come sono stati i Sodom per quasi tutta la loro carriera. Dai Venom Tom e compagni hanno preso l'energia e anche l'approssimazione esecutiva tecnica delle prime prove in studio 'In the Sign of Evil' e 'Obsessed by Cruelty', datate 1984 e 1986, oltre a tematiche e iconografie inizialmente sataniche. Dai Motörhead hanno assorbito il gusto per i pezzi diretti e veloci in 4/4 di stampo chiaramente rock and roll mentre dal gruppo di Algy Ward [ma anche dagli stessi Motörhead] la fascinazione per i temi bellici ma non militaristi, come invece potevano essere a volte quelli dei Tank. L'aspetto peculiare dei Sodom è sempre stato il riuscire a proporre musica e liriche dirette, senza fronzoli. Col terzo capitolo della loro carriera, 'Persecution Mania' [1988], i Sodom iniziano a sferrare colpi di thrash violento e di caratura più elevata, e il disco permette al trio di fare il grande salto internazionale. Dalle copertine dei loro album potrebbe sembrare che la band sia fissata con la guerra e che inneggi a battaglie, omicidi di massa, distruzione e annientamento. In effetti tutti questi abomini sono ampiamente presenti nei loro testi, ma nei loro testi affrontano il tema della guerra affermando quanto sia inutile ed insensata. Si può affermare che i Sodom facciano della pace la loro bandiera, ma propongono all'ascoltatore la nuda e cruda spietatezza dell'uomo proiettato in una delle sue pazzie più aberranti: la guerra, lo sterminio, la morte. Il loro masterpiece 'Agent Orange' , pubblicato nel 1989, prende il nome da un erbicida a base di diossina utilizzato dall'esercito americano nella guerra del Vietnam per distruggere le foreste che offrivano riparo ai vietnamiti. Successivamente si scoprì che questo agente procurava cancro e disturbi fisico-mentali sia alle popolazioni esposte che ai reduci di guerra e ai loro discendenti. In una canzone di quest'album, 'Ausgebombt', il ritornello cita: 'nessun commercio con la morte, nessun commercio con le armi: esonera la guerra, impara dal passato'. Nella canzone 'Bombenhagel' [grandinata di bombe] si parla delle insensate azioni dei tedeschi in guerra, ma anche le sofferenze dei fanti della Wehrmacht sul fronte orientale vengono ricordate in Stalinorgel. Inoltre lo stesso Agent Orange è dedicato 'a tutte le persone, soldati e civili morti nelle insensate azioni di guerra in tutto il mondo.

ANNI RECENTI. Ad 'Agent Orange' segue nel 1990 'Better Off Dead', ma gli anni '90 saranno come per tutti i grandi gruppi thrash una decade di difficoltà, causate dalle mode grunge e alternative che faranno declinare il successo ottantiano del thrash. I Sodom però non hanno mai abbandonato una vena di mordace ironia, attribuibile di nuovo in massima parte a Tom. Questa si è incarnata in bizzarre cover di Udo Jürgens, famoso cantante pop austriaco, o in un pezzo che rievoca il tentativo di 'conversione' del musicista da parte di una volenterosa coppia di Testimoni di Geova ['Die Wachturm' su 'Tapping the Vein' del 1992]. Tom ha anche rilasciato album solisti con l'appellativo di Onkel Tom in cui interpreta in versione thrash metal canzoni da birreria tedesche e addirittura carole natalizie. Da ricordare anche il suo ruolo nei primi due album della band Desperados, incentrata sull'iconografia tipica degli spaghetti western, molto famosi in Germania. Nonostante le varie avversità, i Sodom pubblicano sei album nei Nineties e tre negli anni dal 2000 al 2010, tra cui l'omonimo 'Sodom' del 2006 e 'The Final Sign of Evil' dell'anno successivo.
DISCOGRAFIA: 1984 In the Sign of Evil 1986 Obsessed by Cruelty 1988 Persecution Mania 1989 Agent Orange 1990 Better off Dead 1992 Tapping the Vein 1994 Get What You Deserve 1995 Masquerade in Blood 1997 'Til Death Do Us Unite 1999 Code Red 2001 M-16 2006 Sodom 2007 The Final Sign of Evil

MANOWAR BIOGRAFIE

LOUIS MARULLO, in arte Eric Adams [pseudonimo nato dalla fusione dei nomi dei suoi due figli], nato il 7 dicembre [l'anno, come solito per i membri del gruppo, non è stato reso pubblico] a Auburn, New York, è il cantante del gruppo statunitense Manowar dal 1980, anno della sua fondazione. Eric Adams conobbe Ross the Boss quando i due ragazzi erano ancora alle scuole superiori. Quando il futuro chitarrista decise di fondare una band epic metal assieme al suo amico Joey DeMaio, la scelta per il cantante ricadde proprio su Eric, che Ross aveva sentito più volte esibirsi, anche in piccole formazioni rock. Accettato l'ingresso del gruppo, Eric ne divenne ben presto l'icona, grazie soprattutto alla sua grande voce e alla sua disponibilità con i fan. Eric Adams è un ex enfant prodige: infatti a 12 anni entrò a far parte della band 'The Kidz', un gruppo di ragazzi di età compresa fra i 10 e 13 anni, come cantante e chitarrista. Eric è famoso per la sua voce graffiante e melodica e per la sua capacità di variare vocalmente da note basse e rauche per arrivare a note simili a quelle dei cantanti d'opera lirica con estrema facilità. Adams riesce a proporre tre o quattro tipi di tonalità diverse, variando dallo screaming al canto acuto, e a proporre tratti canori continui della durata superiore ai 35 secondi, grazie ai quali si è guadagnato il soprannome di Golden Voice. Nel 1999 ha eseguito in omaggio ai fan italiani il Nessun Dorma di Giacomo Puccini, cantato a Milano ripetendo per ben due volte il ritornello, cosa mai fatta da nessun cantante: il brano verrà poi riproposto nell'album Warriors of the World del 2002. Nel 2002 invece si è distinto per aver duettato con la soprano Sarah Brightman nella canzone Where eagles fly, mai pubblicata ufficialmente, ma rintracciabile in rete. Eric Adams è dotato di una estensione molto elevata. Lo si puo sentire nelle varie canzoni Blow Your Speaker, Secret of Steel, Dark Avenger, Hatred. Eric Adams sa suonare la chitarra e la tastiera, ma non propone mai uso di tali strumenti nei live e nei vari album dei Manowar.


Joey DeMAIO [Auburn, 6 marzo 1954] è un bassista statunitense fondatore del gruppo Epic/Heavy metal Manowar insieme a Ross the Boss. Di origini italiane, DeMaio imparò a suonare il basso in molte scuole musicali e lavorò come tecnico durante alcuni concerti dei Black Sabbath durante il loro 'Heaven and Hell tour'. Nel 1980 decise di fondare i Manowar insieme a Ross the Boss. Joey è, insieme a Eric Adams, l'unico musicista della band ad essere presente nel gruppo dall'anno di fondazione. Per alcuni fan Joey è considerato uno dei migliori bassisti della scena metal. Il suo basso Rickenbacker personalizzato è un elemento determinante per il suo stile; caratteristiche dello strumento sono: il ponte modificato con una distanza tra le corde ridotta di stampo chitarristico, corde di scalatura più piccola rispetto a quelle di un basso ordinario [piccolo strings], due humbucker attivi con un elevatissimo livello di segnale in uscita e ultima ma non meno importante caratteristica l'accordatura un ottava sopra, sconfinante nel registro chitarristico. Tutto ciò permette a Joey di adottare tecniche chitarristiche quali lo sweep-picking e l'uso di armonici artificiali, e di eseguire scale veloci. Gli album dei Manowar sono caratterizzati da brani strumentali nei quali Joey dà sfoggio del suo stile e della sua tecnica. Le distorsioni estreme e l'uso onnipresente del plettro contribuiscono al suo sound unico, conosciuto per l'incredibile potenza. Nel DVD dei Manowar 'Hell on Earth IV' il tecnico del suono live del gruppo racconta che ad un concerto i 18 amplificatori del suo basso presero fuoco a causa del volume troppo elevato [si dice che i coni uscissero di 1 pollice ad ogni beat]. DeMaio è fortemente criticato dai puristi del basso perché ha sconvolto lo strumento rendendolo simile ad una chitarra perdendo contemporaneamente di vista il ruolo di fondamenta del sound di una band da sempre costituito dal basso; questo abbandono del groove in favore di sonorità più estreme contribuisce a dividere ancora più nettamente chi ama e chi odia i Manowar; nel bene o nel male è un artista che ha reinventato il ruolo del basso nella musica. Famosissimo per le sue orgogliose interviste in cui rivendica, a nome dei Manowar, l'essenza dei veri metallers, i true defender doc, De Maio è spesso criticato da chi queste dichiarazioni le ritiene pacchiane ed esagerate. La grandezza di De Maio e Adams però sta proprio nel credere ciecamente alla fede che divulgano, ai codici morali e alla passione che solo l'heavy Metal sa dare! INTERVISTA: JOEY DeMAIO.

Discografia commentata. BATTLE HYMNS (1982): L'epicità prende il sopravvento con l'arrivo dei Manowar, fieri promulgatori di un heavy metal potente, vero e genuino che inizia a riscuotere le prime frange di fedelissimi. L'album fu ben accolto dal pubblico e dalla critica, che rimase soprattutto colpita dal sound estremamente potente e aggressivo del gruppo, oltre che per i testi molto curati e la notevole estensione vocale del cantante Eric Adams. INTO GLORY RIDE (1983): I Manowar tornano col loro Heavy Metal Epico, e sfornano una serie di marce maestose, che nulla hanno a vedere con il panorama musicale del periodo. La nuova uscita fu dotata di svariati elementi innovativi, sia nello stile che nel sound in generale. HAIL TO ENGLAND (1984): La magia dell'Heavy Metal epico era tutta contenuta in album come 'Hail To England', un disco che si rivela essere uno scrigno nei quali sono contenuti i segreti più eroici dell'epic metal. Il disco riscosse nuovamente grande successo, grazie anche al ritmo ancora una volta rinnovato in particolare nella velocità di esecuzione dei brani e nella maggiorata potenza sonora. SIGN OF THE HAMMER (1984): Sign Of The Hammer rappresenta l'apoteosi del vecchio stile Manowar. Produzione grezza, voce tagliente, potente, altissima; le distorsioni sono metalliche e cattive, e il basso di De Maio viaggia alla grande. FIGHTING THE WORLD (1987): rappresenta un deciso ammorbidimento nel sound dei Kings Of Metal, smentito in parte dalla roboante seconda parte dell'album. KINGS OF METAL (1988): Con Kings Of Metal si ritorna a fare sul serio. L'attitudine pura e fottutamente Heavy Metal si incontra con l'epicità del loro primo periodo artistico conferendo una bellezza ed una forza incredibili a tutto l'album. Il disco è un mosaico straordinario di una sinfonia guerriera assolutamente irresistibile, che scorre adrenalinica ad una velocità folle e su canoni di potenza e pomposità difficili da riscontrare altrove. Basta il titolo, Kings Of Metal, per permettere ai Manowar di autoincoronarsi sovrani incontrastati dell'acciaio più nobile. THE TRIUMPH OF STEEL (1992): Settimo grande lavoro da consegnare ai posteri: con The Triumph of Steel i Kings dimostrano ancora una volta che quando si tratta di metal epico non hanno rivali. Un vero e proprio trionfo dell'acciaio. LOUDER THAN HELL (1996): Louder Than Hell segna il primo vero passo falso nella storia dei Manowar: monotono e poco enfatico, anche se pur sempre potente. WARRIORS OF THE WORLD (2002): 'Warriors of the World' è un disco puramente Manowar, dalla prima all’ultima nota, con tutti i pregi ed i difetti che questo fatto comporta. GODS OF WAR (2007): Nuovo corso per i Manowar: disco molto epico ma distante dal concetto di epic metal ottantiano e in cui le parti metal sono ridotte: i riff si contano sulle dita di una mano e a conti fatti qualche intermezzo poteva essere evitato. THE LORDS OF STEEL (2021): la band abbandona velleità power e sperimentazini sinfoniche, riprendendo a suonare il classico heavy grezzo e possente; ma il risultato non é molto brillante.

VIAGGIO ALL'INTERNO DEL MONDO DEI MANOWAR
WE ARE DEFENDERS OF STEEL

L'IDEOLOGIA. I Manowar sono una delle band più amate e allo stesso tempo odiate del panorama musicale. L'odio verso la band nacque da alcune dichiarazioni dei componenti che si vantarono di non essere mai diventati troppo "alla moda" e di aver creato una sorta di nuovo genere musicale, il True Metal (Vero Metal), un metal incontaminato, puro nel suo suono, legato agli stili classici dell'heavy metal e sensibilmente migliore rispetto a ogni altro proposto da altri gruppi. Joey DeMaio, leader del gruppo, descrisse il loro genere in questo modo: 'Il vero Metal che si dimostra fedele allo stile del classico Heavy Metal. Non è annacquato. Non si è infighettato. Non si è rammollito. Viene suonato dal cuore, al 100 per cento'. Subendo le prime contestazioni dovute a questa loro definizione di unici gruppi detentori del vero metal, i Manowar iniziarono a difendersi attaccando verbalmente gli altri artisti, in particolare quelli emergenti, elencandone i difetti e le incongruenze col genere. Questi gruppi furono definiti di bassa qualità, monotoni, finti e, in breve, incapaci. E' ancora DeMaio a suonare la carica: 'Noi suoniamo Metal puro, vedete. Noi non suoniamo stronzate da radio'. La band iniziò così ad essere contestata pubblicamente, specialmente dalla critica di settore che li definiva più bravi a parlare che a suonare. La risposta a queste dichiarazioni non tardò ad arrivare. Joey DeMaio, ancora una volta nelle vesti di leader del gruppo, dichiarò rivolto ai critici e ai gruppi che li contestavano: 'Questo è quello che noi facciamo. Se vi piace, bene. Altrimenti, fottetevi'. Da questo atteggiamento scaturì anche una netta divisione tra il pubblico che si suddivise tra coloro che amavano e letteralmente adoravano la band e quelli che la odiavano e ne contestavano ogni esibizione. A favore delle 'legioni di fan' (così i Manowar definiscono i loro sostenitori), il gruppo statunitense rilasciò molte dichiarazioni, incitandoli nella lotta contro la musica spazzatura. Ancora una volta DeMaio disse: 'Ogni giorno, ti svegli ed esci dal letto ben sapendo che della merda sta aspettando proprio te. Ogni giorno è una lotta, una battaglia e tu ti devi preparare per queste battaglie, per queste guerre. Devi essere preparato. Ed ecco dove entra in scena lo spirito dei Manowar. È per tutti, sia uomini che donne, che abbiano uno spirito combattivo. Allora, o tu combatti, e per vincere, o alzi le mani e ammetti che sei fottuto'. Come dargli torto?

LA MITOLOGIA. I Manowar, fedeli al loro genere musicale epico, si sono ispirati all'Iliade di Omero per la suite Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts (contenuta nell'album The Triumph of Steel). Recentemente, il brano è stato oggetto di approfondita analisi da parte di un gruppo di ricerca dell'Università di Bologna, che fra l'altro ha evidenziato l'accuratezza del testo attraverso un puntuale confronto con il modello omerico. La band, tuttavia, ha preso soprattutto molti spunti dai racconti mitologici delle tradizioni germaniche e scandinave, inserendo tali storie nei testi, ma non sempre approfondendo il ruolo delle varie divinità. La figura più presente nelle tracce del gruppo è senza dubbio il Dio Thor, padrone del tuono, del fulmine e dei terremoti. A tale divinità segue, in ordine di apparizioni, Odino, padre di Thor e di tutti gli dei ma soprattutto dio della guerra e protettore degli eserciti, oltre che dio della conoscenza e della saggezza. Egli vive nel palazzo di Válaskjálf nel regno di Ásgarðr. In tale edificio è contenuto il salone del Valhalla, luogo dove sono raccolte le anime dei guerrieri morti in battaglia e degli eroi. Dopo aver combattuto per l'intero giorno in attesa del Ragnarök (la battaglia finale tra gli Æsir e le forze del caos), i guerrieri ad ogni tramonto si rialzano dal campo di battaglia e rientrando nel Valhalla per cenare alla mensa di Odino. Ogni giorno seguirà questo scandire finché il mondo non conoscerà la sua battaglia finale. La donna era vista allo stesso tempo sia come un elemento capace di soddisfare i piaceri sessuali sia come una figura sacra e degna di venerazione (proprio per questo a essa era concessa la possibilità di scegliere il guerriero con cui avere il rapporto liberamente e la durata dello stesso). Lo stupro era ritenuto uno dei peccati più spregevoli e degni di tormento eterno. I Manowar hanno presentato fin dai loro esordi una grandissima ammirazione per il compositore tedesco di musica classica Richard Wagner, descritto dal gruppo come 'il vero creatore dell'heavy metal' ma anche come il fondamentale innovatore della musica moderna in genere. In particolare Joey DeMaio ha incentrato la sua intera carriera musicale sulla base dei componimenti classici di questo artista e ne ha più volte ricordato la figura, anche durante le innumerevoli esibizioni live della band. In un'intervista il bassista dichiarò: 'La musica di Wagner cambiò la mia vita molti anni fa. Non so se potrei vivere un altro giorno senza le sensazioni che la sua musica mi dà. Era il più grande compositore di sempre. Ha inventato il metal'. Questo passionale 'culto di Wagner' ha portato più volte la band in contrasto con la famiglia del musicista. I discendenti dei Wagner si sono più volte detti offesi dalle dichiarazioni del gruppo che, invece che portare giovamento alla memoria dell'artista e della famiglia, avrebbero infangato la sua leggendaria figura, legandola a generi musicali che Richard non avrebbe mai ammirato o sostenuto, evidentemente dimenticando quante volte le parole blut (sangue), schwert (spada) ed ehre (onore) appaiano nei cori e nelle romanze delle sue opere.
IL PUNTO IN CASA IRON MAIDEN
HALLOWED BE THY NAME
DI RINO GISSI, TRATTO DA 'METALLIZED.IT'

Quelle copertine coloratissime e sconcertanti, un mostriciattolo scheletrico dalle fattezze di pseudo-zombie, il logo rosso sgargiante, un impatto grafico capace di rapire generazioni di grandi e piccini, quel sound inonfondibile costruito su potenza epica e fluida melodia, cascate di note esplose in meravigliose galoppate: la memoria corre indietro nel tempo, ricordi ed emozioni si acavallano mentre, per l’ennesima volta, la nostra mente e i nostri occhi si poggiano sullo sguardo dilaniato di Eddie the Head. Non ci vorrà poi molto a ripassare la storia, basterà il riff secolare di 2 Minutes To Midnight o l’assolo sfibrante di Phantom Of The Opera a risvegliare sensazioni mai sopite; e allora la nostra fantasia volerà ancora verso la Londra del Ruskin Arms oppure tra le Piramidi di Powerslave, nella cybercity di Somewhere In Time o tra l’inquietante notte di Fear Of The Dark. Ci sono kolossal cinematografici e best seller letterari capaci di sfidare l’incedere del tempo con la loro grandezza, ci sono canzoni e album destinati a rimanere per l’eternità nei cuori e negli stereo degli appassionati: e tra questi, molti hanno impresso quell logo rosso sgargiante e il mostriciattolo scheletrico sulla copertina. Lo avrete capito –e altrimenti fatevi visitare da uno bravo-, si parla degli Iron Maiden, si parla della leggenda. L’attesa per il nuovo album della band inglese era cresciuta progressivamente man mano che l’estate entrava nel vivo, e ora che The Final Frontier è uscito nei negozi è inevitabile riaprire il baule dei ricordi, fare il punto della situazione e chiedersi che cosa ancora possiamo aspettarci dalla Vergine di Ferro. Dire Iron Maiden equivale a dire heavy metal: l’immaginario collettivo accosta istintivamente la band di Steve Harris, assieme ai Metallica, alla parola ‘acciaio’ in un ipotetico dizionario della musica dura, e i motivi son presto spiegati: un sound rivoluzionario ostentato con testardaggine mentre nel Regno Unito dominava il punk, una passione per l’heavy metal perpetuata fino a rinnovare e modernizzare con classe, energia e melodia le sorti del movimento stesso, una corrente di nuove leve –la NWOBHM- guidata con prepotenza dall’alto di concerti spettacolari e dischi leggendari, se è vero come è vero che dall’omonimo Iron Maiden a Powerslave l’ensemble britannico non ha fallito un colpo, sfornando di anno in anno una nuova ‘raccolta di classici’ tutt’oggi riproposti in sede live. Maiden & Metal, un binomio inossidabile, capace di arrivare persino alle orecchie (e agli occhi) di chi di metal non ne capisce un tubo, grazie a quelle melodie straripanti e a quelle copertine magnifiche capaci da sole di costruire un mondo a parte, un universo parallelo, fatto di sogni (per chi li ama) ed incubi, per chi li teme e, soffocato dalla propria ignoranza, si aspetta dalla Vergine di Ferro musica brutale, confusa e blasfema. Lo stereotipo del metallaro puzzolente ed ignorante viene completamente annullato dalla sontuosa grandezza di una band che ha saputo abbattere tabù e aprire nuovi sentieri, con i testi storici, letterari, mitologici e cinematografici cantati da un uomo colto come Bruce Dickinson, animale da palco e cervellone bilaureato che è praticamente da sempre –o, meglio, da quando Mister DiAnno trangugiò l’ennesima birra che fece traboccare il vaso del morigerato Steve Harris- l’interprete dell’essere Iron Maiden in tutto e per tutto, nei valori come nell’implacabile irruenza visiva, nella ricercatezza del pensiero come in quella tecnico-musicale. Mamma ignoranza è sempre incinta, e allora chi non capisce si limiterà a continuare a credere negli Iron Maiden ‘satanici’ di The Number Of The Beast (ma alla fine quella canzone parla semplicemente di un incubo) allontanandosi dalla realtà di sei ragazzoni innocui come agnellini e dalla passione sfrenata per la propria musica, sicuramente frenetici e implacabili quando calcano un palco ma del tutto ammirevoli nelle proprie vite private, persone umili e simpatiche prim’anzi che rockstar. Avranno anche un conto in banca mastodontico, ma sicuramente loro lo meritano più di una qualsiasi Madonna o di una Lady Gaga da quattro soldi, pseudo-artisti che farebbero una figura migliore al fianco di Charlotte The Harlot piuttosto che in un’arena colma di illusi.

C’è chi dei Iron Maiden non ne avrà mai abbastanza (e siamo in tanti), c’è chi invece non avrà pietà, che si tratti di merchandising, che si tratti del nuovo album o che si tratti semplicemente di discutere il valore, attuale e passato, della seminale formazione britannica, capace come solo i Metallica di scatenare commenti contrastanti in quantità torrenziale, capace di catalizzare le attenzioni e le discussioni, a dimostrazione del fatto che, nel bene o nel male, la fanciulla di Ferro non passa mai di moda. Amati e odiati, non ai livelli dei Four Horsemen ma questo è solo un merito del combo di Steve Harris, che difficilmente è caduto in basso sotto il livello di sufficenza nella qualità degli studio album, mai venduti spudoratamente alla causa commerciale, e parliamo puramente di musica e non di ciò che gli gira intorno: quegli ultimi tre album sono lì a ribadirlo, con fierezza, e il nuovissimo The Final Frontier è tutto da scoprire, cero è che difficlmente Sir Harris si può permettere uno scivolone proprio ora, proprio in coda, ora che dei veterani i Iron Maiden sono quelli più in forma. E chi ne dubita vada a notare che i Judas Priest non pubblicano un grande disco ormai dal 1990, che i Black Sabbath non esistono più, che Slayer e Megadeth pestano sull’acceleratpre ma l’originalità e la vitalità degli anni migliori è ormai lontana, che i Manowar si sono dati a frivoli sinfonismi, che i Metallica sembrano catturare ormai da un pezzo più sorrisini ironici che simpatie. Sono ancora qui e in gran forma, questi vecchietti indistruttibili, ancora sulla breccia dopo aver attraversato cinque decenni di musica dura: i Seventies, gli Eighties, i Nineties, gli zero e ora gli anni ’10, sempre capitanati da quel furbastro di Steve Harris, con la sua chioma sempre fluente e lo sguardo da volpone, di chi la sa lunga, di chi ora è potente e può permettersi di decidere qualsiasi cosa riguardi le sorti della Vergine di Ferro: canzoni, registrazioni, tour, promozioni, rapporti con i media, case discografiche, fans. Un uomo potente che tiene saggiamente nelle sue mani il pallino di un enorme business come oggi è la sua band, un uomo che non ha mai voluto scendere a compromessi e che con la sua testa dura e l’occhio lungo non ha fatto che meritarsi tutto il successo e la ricchezza di cui ora gode. Perchè dobbiamo ricordarci di quando era il punk a dettare legge e lui rifiutò di abbassare la testa, dobbiamo ricordarci del fenomenale bassista che è stato e che è ancora oggi, naturalmente, padre putativo di decine di canzoni che hanno segnato la storia di intere generazioni. Harris è innanzitutto questo, l’anima pensante e trepidante dei Maiden prim’ancora che il loro boss assoluto. Poi c’è lui, naturalmente, il Re assoluto, l’istrionico Bruce Dickinson, un animale da palco che negli anni migliori era un’attrazione superlativa, una trottola incontenibile che schizzava da tutte le parti.

Cosa può dirci di nuovo un album inedito degli Iron Maiden nel 2010, a trent’anni esatti dall’esordio e a dieci dal primo capitolo della reunion col figliol prodigo, quel Bruce Bruce che la Vergina l’aveva condotta all’apice e l’aveva poi lasciata ad un decennio di stenti (i Nineties), affidata alle cure vocali del povero Blaze Bayley, coraggioso e volenteroso ma troppo piccolo per reggere il peso delle enciclopedie? La nuova triade di pubblicazioni iniziate da Brave New World aveva riannodato i fili della cronologia spezzati dopo lo split pre-X Factor, riscoprendo il gusto per le galoppate e evolvendo un certo gusto per le trame progressiste nell’act inglese, che si trovava ora con tre chitarre su uno stesso palco (storie di addii e ritorni, riconoscenza e sentimenti a prevalere sui contratti); quattro anni sono passati dall’ultimo A Matter Of life And Death, quattro anni in cui i Nostri non se ne sono stati con le mani in mano, ma hanno anzi fatto la felicità dei detrattori che li accusano di eccessivo attenzione per il business: negli anni 2000 sono state pubblicate la bellezza di quattro diverse raccolte, cinque live (tra nuovi e vecchie reliquie rispolverate, come Beast Over Hammersmith risalente al tour di The Number Of The Beast) comprendenti l’ultimo monumentale Flight 666 -documentario di un tour-nostalgia dedito alla riproposizione dei classici ottantiani con tanto di scenografia ‘egiziana’ ereditata dai ruggenti Powerslave’s years- e sette DVD video. I fans più accaniti, insomma, avranno il portafogli in lacrime. Eppure qualcuno crede ancora nell’ispirazione della mitologica band inglese, che ha ancora qualcosa da dire soprattutto in America: a differenza dell’Europa, il Nuovo Continente non ha una cultura musicale storica abbastanza fedele da ‘imporre’ alle band scalette imeprniate sostanzialmente sul vecchio materiale, ma accetta di buon grado l’esibizione del repertorio recente. I ragazzini americani tra A Matter Of life And Death, e The Number Of The Beast, probabilmente, preferiranno sempre acquistare il primo. In Europa il discosso è diametralmente opposto, e il fatto si ripercuote on the road: fino a qualche anno fa sarebbe scoppiata una rivoluzione, probabilmente, se i Maiden si fossero presentati in Italia o in Germania con una scaletta come quella suonata il 9 giugno a Dallas, nella prima data del loro nuovo tour mondiale: The Wicker Man come opener è già di per sè un oltraggio a chi non concepisce un’intro non affidata all’irruzione orgasmica della classicissima Aces High, per non parlare poi del succedersi di pezzi tratti quasi esclusivamente dagli ultimi tre dischi in studio: Brave New Eorld e Paschendale, Wildest Dream e No More Lies; Gost Of Navigator e Blood Brothers. Solo nei bis sono arrivate le varie The Number Of The Beast e Hallowed Be Thy Name. In Europa sarà così? Difficile dirlo, anche se nell’esibizione di Wacken gli inglesi si sono mantnuti su una setlist ‘moderna’; molto probabilmente la folla invocherà fin da subito Wratchild e Run To The Hills, perchè uno show della Vergine di Ferro senza The Trooper è qualcosa di inimmaginabile. Certo, l’Inter ha vinto la Champions League e l’America ha eletto il suo primo Presidente di colore, ma i Maiden non sarebbero i Maiden se privati della loro essenza ottantiana.

Quel nucleo che profuma di passato è quanto in molti si augurano di trovare nel nuovo The Final Frontier, che però non promette di lasciare troppo spazio alla nostalgia fin dalla copertina, affidata alla matita di Melvyn Grant (le cover storiche sono opera del celebre Derek Riggs), ci sbatte in faccia un Eddie troppo diverso da quello che ha allietato l’infanzia di intere generazioni di headbangers; ma se andiamo oltre, e cioè puntiamo dritto alla musica, ci rendiamo conto che Harris e soci stanno cercando di continuare un discorso. Un discorso progressivo iniziato nell’era della Reunion, e ciò si deduce dalla notevole lunghezza dei dieci pezzi previsti in scaletta, per un totale di 76 minuti e mezzo di durata (non certo pochi): dai 4 minuti e mezzo di The Alchemist agli 11 della conclusiva When The Wild Wind Blows. Sulla rete e prime date del tour la band ha presentato uno dei tanto attesi nuovi pezzi, El Dorado, che sul web sta riscuotendo consensi ma che non appare particolarmente esaltante nelle linee vocali, anzi alquanto ripetitiva; le parti strumentali sono dure e convincenti, il taglio stilistico è accostabile a quello dei pluricitati ultimi tre album ma sinceramente ci si attende qualcosa di più coinvolgente da chi ha scritto pagine di musica troppo forte e troppo importante. L’album è finito persino negli special dei telegiornali nostrani, il che aiuta a comprendere la fama e la portata di questa realtà. Rispetto, fama e tradizione grondano ormai da un bel pezzo sotto il gonfalone della truppa britannica, e non sarà questa ultima frontiera ad attaccarlo: attendiamo curiosi di scoprire l’ultimo pargolo di Sir Harris, consapevoli del fatto che questo non cambierà di una virgola –nel bene e nel male- ciò che il popolo di cuoio e metallo nutre e deve nutrire nei confronti di questa istituzione.

LA STORIA DEI FOUR HORSEMEN
METALLICA, ALLA RICERCA DI UN SOGNO
DI RINO GISSI, PARTE QUARTA, TRATTO DA METALLIZED.IT
Nel 1995 la band inizia a parlare di testi più introspettivi e anche di una inclinazione melodica intrapresa dal sound del quartetto: tuttavia i fans aspettano con la bava alla bocca un prepotente ritorno al thrash metal in seguito ad un'escursione nel metal mainstream di qualche anno prima. Cinque anni di silenzio -senza Internet, senza l'abbondanza di band che c'è oggi- hanno portato l'attesa della gente a livelli di guardia elevatissimi. L'uscita di Load, questo il titolo annunciato, è però preceduta da apparizioni inquietanti: le foto ufficiali dei Metallica targati 1996 portano sulle fanzine e sulla stampa specializzata qualcosa di assurdo e patetico, non tanto per i capelli, tagliati cortissimi per tutti e quattro gli ex thrashers californiani, quanto per il loro look bizzarro e inaccettabile per chi, assieme ai Metallica, ha sempre combattuto contro le mode, le apparenze, lo snobismo da rockstar. James coi capelli tinti di nero, Lars col trucco attorno agli occhi, Kirk travestito da gangster anni '30, con tanto di piercing, tattoo e sigaro cubano: l'abito non fa il monaco, ma se il buongiorno si vede dal mattino per i metalhead old school è notte fonda. L'uscita del primo singolo, Until It Sleep, conferma ogni timore: i Metallica, ora, suonano un hard rock sempliciotto e malinconico, che strizzava l'occhio alle classifiche e che nulla aveva della vecchia potenza tipica della band. La delusione è enorme: critica e fans danno addosso al combo americano, che in tutto e per tutto sembra essersi piegato alla dollarosa causa del trendy. Load è tutto sommato un buonissimo album di hardrock melodico, che se fosse stato partorito da qualsiasi altra band minore avrebbe meritato commenti positivi: ma dai giganteschi Metallica, ruggenti leoni dell'heavy metal per oltre un decennio, non ci si può aspettare un timido miagolio di questa sorta. Quello che più evidentemente risaltò nelle dichiarazioni dei quattro di Frisco, fu un approccio più tranquillo e spensierato alla creazione delle nuove canzoni: vennero abbandonate sia le vecchie trame sofisticatissime, lunghe e infarcite di molteplici riffs diversi, e fu preferito un songwriting più immediato, facile da suonare e basato su un unico riff a seconda del pezzo; se Ain't My Bitch era la traccia più energica e vicina alle caratteristiche del Black Album, quella più lontana da tutto il repertorio classico dei Metallica era Mama Said, sofferente ballata dal sapore country dedicata da James Hetfield alla madre. La conferma della nuova rotta intrapresa dalla band arrivò con l'annuncio della sua partecipazione ad un festival di rock alternativo come il 'Lollapalooza', nel quale i Metallica scelsero nientemeno che gli Oasis nel momento in cui furono gentilmente invitati a scegliere altre band da inserire nel cartellone! Successivamente i Four Horsemen girarono il globo in lungo e in largo con il loro 'Poor Re-Touring Me', in cui fortunatamente suonavano scalette a metà tra i pezzi nuovi e i poderosi vecchi calibri; il tour procedette fino alla vigilia del Capodanno 1997, celebrato con estratti di vari classici dell'heavy metal più la cover maideniana 2 Minutes to Midnight proprio a due minuti dai festeggiamenti.

Il nuovo anno vede i californiani on the road per cinque mesi, all'azione in show modernissimi ed effetti speciali hollywoodiani: delle esplosioni sul palco davano l'idea di un incidente reale che costringeva Hetfield ad allontanarsi dai riflettori, con tanto di stuntman che balzava sul palco avvolto dalle fiamme e veniva soccorso da un manipolo di paramedici; quando la calma era ripristinata, i Metallica si ritrovavano a suonare i loro cavalli di battaglia più datati in un angolino del set, rannicchitai sotto un unico riflettore quasi a voler dar l'impressione di quattro ragazzini qualunque che suonano rabbiosi in una sporca cantina della Bay Area! Nonostante le critiche e il malumore dei fans, era un periodo abbastanza florido per i Nostri eroi, che nel frattempo erano cresciuti e mettevano su famiglia: Lars e James sposarono le proprie consorti a pochi mesi l'uno dall'altro. Per l'estate di quel 1997 fu annunciata l'uscita di un secondo disco nato dalle sessioni di Load, che inizialmente doveva essere un doppio: inutile, quindi, aspettarsi un lavoro di stampo più heavy. Prima dell'uscita del platter, i Quattro furono protagonisti di un concerto benefico a favore di un istituto per ragazzi disabili, fecero un paio di date in una discoteca londinese e collaborarono per il singolo The Memory Remains con Marianne Faithfull, la prima 'donna maledetta' del rock, la quale si limitava a qualche rantolo farfugliato nel pezzo; alla sua uscita, Reload sembrò leggermente migliore del suo predecessore, forte di pezzi sempre 'commerciali' ma meno noiosi come Fuel o The Unforgiven II, sequel della celebre ballata del '91. Tra apparizioni televisive e vari riconoscimenti, gli ex Four Horsemen erano ormai degli agiati signori sulla trentina con tanti anni di musica dura alle spalle e una rosea prospettiva di fama e ricchezza sotto i propri occhi: sembravano definitivamente tramontati i tempi della ribellione, del sudore, dei capelli lunghi e della lotta al conformismo.

Nonostante tutto, i Metallica continuavano a lavorare sodo, sempre in tour e sempre con un'energia invidiabile: dal vivo, nessuno notava la differenza con i vecchi Cavalieri dell'Apocalisse. Il 1998 inizia dunque sempre on the road, allietato dalla nascita dei primogeniti di James e Lars. Nel corso dell'annata, i Quattro si chiusero in studio per registrare un doppio album di cover rock e metal, Garage Inc, doveroso tributo alle radici del background del combo californiano. Il disco fu promosso con una serie di date nei club, accompagnati dalla coverband dei Battery: questi ultimi suonavano i pezzi dei Metallica, che invece si cimentavano nelle cover. Le iniziative del tutto particolari procedettero nel 1999: ad aprile i Four Horsemen suonano due date assieme all'Orchestra Sinfonica di San Francisco al Community Theater di Berkeley, riarrangiando classici e nuovi pezzi sotto la saggia direzione di Michael Kamen, che anni prima aveva già lavorato con la band a Nothing Else Matters: il risultato, immortalato nell'album S&M, pubblicato a novembre, è apocalittico, maestoso e addirittura tronfio secondo alcuni critici; fatto sta che i Metallica ci prendono gusto, e tengono degli spettacoli anche con l'Orchestra di Berlino e con quella di New York, al Madison Square Garden. I californiani proseguirono l'annata con un fittissimo calendario di date sui palchi di tutta Europa, e non solo: una delle più incredibili fu quella del 24 luglio per il trentennale di Woodstock. I Ragazzi sciorinarono una serie enciclopedica di classici d'antologia di fronte alle nuove generazioni, ma il festival fu un drammatico fallimento a causa di un'organizzazione disastrosa. Uno stupro, stand devastati, risse: altro che 'peace & love', il pubblico di Woodstock '99 ha saputo rovinare un evento gioioso trasformandolo in un incubo.

E incubo sembra essere la parola giusta per segnare l'ingresso dei quattro di frisco nel nuovo Millennio. Il 2000 passa alla storia come l'anno del caso Napster, programma di file sharing che permetteva ai propri utenti registrati di scaricare e scambiarsi gratuitamente caznoni di artisti vari. La miccia che fece tuonare l'ira di Lars Ulrich fu I Disappear, innocua traccia composta su commissione per la colonna sonora del film Mission: Impossible II, che iniziò a circolare tra gli utenti prima della sua uscita ufficiale. La querelle che ne conseguì fu una telenovela lunga e deplorevole, con tanto di citazione da parte dei Metallica degli utenti da bannare. I fans e la critica accusarono pesantemente i quattro californiani, additandoli come rockstar mercenarie e denunciatutti, visto che oltre a Napster furono citate in giudizio svariate altre aziende che utilizzavano il nome della band impropriamente: da un mobilificio ad una casa produttrice di abbigliamento intimo femminile. La realtà come sempre sta nel mezzo: lo stesso Ulrich spiegò che non era una questione meramente venale, perchè la band stava perdendo più soldi in avvocati e cause legali rispetto a quanti ne avrebbe persi lasciando che Napster continuasse a distribuire senza consenso la musica creata da altri. In effetti il principio che muoveva il danese a mettersi a capo di questa rabbiosa rivolta tesa a far chiudere Napster era sensato e motivato, perchè è giusto che chi crea musica -o qualsiasi altra forma d'arte o prodotto- abbia il diritto totale di decidere cosa farne, in tutto e per tutto. Semmai furono i modi di Lars, scontrosi e isterici, a metterlo in cattiva luce. I Metallica avranno ragione su Napster [si troverà un accordo consensuale], ma da allora la fama del quartetto e in particolare del drummer europeo iniziarono a subire un colpo pesante da digerire agli occhi della gente. Intanto la band, tra un concerto e l'altro, aveva trovato vari modi di passare il tempo libero: Kirk partecipò ad un corteo a Frisco contro il caro-prezzo delle sale prova, James cantò con i Motorhead e i Misfits e lo stesso Lars partecipò ad un insolito torneo di tennis, sfidando assieme al campione John McEnroeì la coppia composta dal bassista dei REM Micke Mill e dall'altro tennista Jim Courier; i quattro improvvisarono poi qualche classico della NWOBHM.

Con l'avvento del 2001 ricominciarono a piovere grane sulla band: innanzitutto, le sospettate e insanabili divergenze tra Jason Newsted e lo zoccolo duro della formazione portarono il bassista fuori dalla band dopo quindici anni; la causa ufficiale furono i problemi fisici, dovuti all'eccessivo headbanging, lamentati dal ragazzo del New Jersey. La realtà parlava invece di un musicista totale che nei Metallica non riusciva a sentirsi tale, confinato ai margini dall'egocentrismo compositivo di Ulrich ed Hetfield e oppresso dal proibizionismo che il singer ostentava verso la sua irresistibile voglia di suonare in progetti paralleli: per Hetfield, esistono solo i Metallica. Per difendere la storia e il nome di una band che stava attraversando un periodo di declino apparentemente irreversibile, James era pronto a tutto: ma le sue ambizioni dovettero scontrarsi contro i suoi crescenti problemi personali, con una dipendenza dall'alcool ormai insopportabile. Hetfield aveva sempre amato alzare il gomito parecchio, ma l'alcool era diventato una vera prigione dopo le gozzoviglie di inizio anni '90 e il grande dolore che lo aveva depresso in seguito alla scomparsa del padre. Si stava distruggendo con le proprie mani, così saggiamente decise di entrare in un centro di recupero per curarsi. Per un anno, i Metallica rimasero Hammett e Ulrich, con un futuro incerto e nerissimo e senza notizie dall'amico Hetfield. La band è stata vicinissima allo scioglimento: improvvisamente era calato il silenzio sui chiacchieratissimi ex Horsemen. Il cantante scriveva, talvolta, sul diario online della band, spiegando di una condizione in via di miglioramento; nel novembre 2001 partecipò anche alla festa a sorpresa per il compleanno di Kirk, che ricorda: 'Vederlo è stato uno dei regali più belli che ho mai avuto. E' stato bellissimo rivederlo. Mi emoziono ancora adesso, a parlarne'.

Nel 2002 Hetfield superò finalmente i suoi problemi e tornò dai due compagni di una vita più forte ed energico che mai: i Metallica si chiusero in studio per lavorare ad un nuovo album, coadiuvati dal produttore Bob Rock al basso e supportati dall'ausilio di uno psicologo che avrebbe dovuto scacciare tutti i malumori inconsci e gli eccessi di ego dei Four Horsemen: il tutto venne ripreso e immortalato in un documentario pubblicato postumo col titolo Some Kind Of Monster. Lo stesso metodo di lavoro della band subì un notevole progresso in direzione democratica, come racconta lo stesso Hetfield: 'Io e Lars arrivavamo in studio e dicevamo agli altri cosa fare. Dovevo avere tutto sotto controllo: assolutamente infantile. Tengo talmente tanto ai Metallica che ho quasi annientato la band col mio amore'. Ora i Metallica lavoravano tutti assieme, e nella stessa direzione: il cantante aveva superato le sue debolezze, chiuse dietro ad un volto serioso e un carattere da freddo lupo solitario. Si era finalmente tolto la 'maschera' sotto la quale celava ogni sofferenza, fermamente convinto di non dovere e potere dare segni di debolezza: 'C'è un sacco di machismo in questo mondo, ma la cosa più virile che puoi fare è affrontare le tue debolezze e svelarle. Se sveli le tue debolezze alla gente dimostri forza, e questo permette di aprire un dialogo, di creare amicizie. E a me è successo così'. Man mano che i mesi passavano, cresceva l'attenzione per l'album che stava nascendo: al di là del fatto che dalla band filtravano voci di sonorità accostabili a quelle di Meshuggah ed Entombed, osservazioni parecchio esagerate ed azzardate, i fans si attendevano ancora una volta un ritorno al thrash metal.

Nel febbraio 2003 fu annunciato l'ingresso in formazione del nuovo bassista Robert Trujillo, vecchio amico della band dai tempi dei suoi tour con i Suicidal Tendencies; tuttavia Trujillo non partecipò alle registrazioni dei pezzi nuovi, che erano già in fase avanzatissima. Ad aprile la band registrò il video di una nuova canzone, St Anger, che sarebbe stata la titletrack del nuovo lavoro: le riprese si tennero nel carcere di San Quintino, temibile luogo dove vigeva una 'No Hostage Policy' e nel quale i Quattro tornarono in un secondo momento per suonare i loro classici di fronte ai carcerati. Arrivò finalmente l'ora di St Anger, che era sicuramente più aggressivo e potente degli ultimi due predecessori in studio; i fans restarono però interdetti, di fronte ad una qualità dei suoni discutibile, volutamente 'da garage', e a pezzi lunghissimi ed estremamente ripetitivi, infarciti addirittura di sprazzi nu metal, la moda del momento. Testi introspettivi ed estremamente ermetici, ritornelli sintetici ripetuti allo sfinimento, tanto casino fine a se stesso e nessuno -dicasi nessuno- assolo di chitarra. Qualcuno lo accoglie come peggiore di Load e Reload, altri ne apprezzano la ritrovata energia e qualche sparuto riff thrash sparso qua e là. Di fatto la band suonerà nei live soltanto due pezzi del platter, Frantic e la titletrack. E' l'inizio di un periodo meno intenso per i Four Horsemen, che rialzano la testa e iniziano a recuperare credito grazie a dei set live mirati a recuperare il repertorio ottantiano; nel 2004 si segnala un'influenza estiva che stende Lars e porta dietro le pelli una tellurica esibizione part-time di grossi calibri come Joey Jordison degli Slipknot e Dave Lombardo degli Slayer. Nell'anno successivo la formazione californiana diventa protagonista di un episodio dell'esilarante cartoon The Simpson, prima di tornare lentamente ad un'attività costante on the road: il 2006 è infatti l'anno del ventennale del mitologico Master of Puppets, e la band lo celebra suonandolo per intero in ogni serata. Le vecchie immortali micce di Battery, Damage Inc, Disposable Heroes e compagne esplodono terremotanti come due decenni prima, più dure di qualsiasi altra cosa fatta successivamente dalla band: con queste premesse, le fantasie smodate dei fans galoppano implacabili, anche perchè Bob Rock esce di scena e il produttore chiamato a sostituirlo è Rick Rubin, che aveva firmato lo slayeriano Reign In Blood. Anche nelle parole dei componenti della band iniziano a sfuggire dichiarazioni di ritorno alle origini, al thrash, come lasciò intendere lo stesso Hetfield: 'I momenti negativi sono ormai un ricordo lontano, da tenere comunque come monito per il futuro. St Anger ha rappresentato il nostro purgatorio, un atto dovuto per diventare un gruppo migliore. Questa volta, invece, abbiamo fatto tutto senza fretta, per essere sicuri di centrare l'obbiettivo. Death Magnetic è un ritorno al passato, alle sonorità che più amiamo, arrangiate in un contesto attuale: potremmo definirlo come un Master Of Puppets moderno, ma non aspettatevi una copia esatta di quel disco'! Il 2007, corredato da un'apparizione al Live Earth, vede la band chiusa in studio per tirare fuori l'anima e le sensazioni provate a metà anni '80, su esplicita richiesta di Rubin: l'attesa dei fans regge per i primi mesi del 2008, fino all'uscita -a cinque anni dal predecessore- di Death Magnetic. Ed è un successo riuscito solo in parte, perchè la band recupera il suo lato più duro, proponendo un heavy thrash degno di rispetto, ma viene anche accusata di aver avviato l'operazione revival solo per riacquistare i fans persi negli ultimi anni di nefandezze. C'è chi critica la produzione e chi non digerisce la riproposizione tale e quale del materiale stile Egihties proposto dalla band; ma dopo anni passati ad attendere un 'ritorno alle origini', sicuramente non si può criticare questa mossa di riscoperta effettuata dal combo californiano. In sede live i Metallica sono ancora capaci di scatenare dei putiferi: qualche errore ci scappa sempre, ma per molti headbangers è il sentimento che conta. E quello non manca mai. La Hall Of Fame della musica rock ha accolto i Metallica nel 2009, e l'evento è stato un'occasione in più per ricordare e celebrare il mito di Cliff Burton, la stella che da lassù,o da laggiù, ha sempre accompagnato i Four Horsemen. Che, spediti e compatti, cavalcano verso quello che sarà ormai il quarto decennio della loro incredibile avventura.
LA STORIA DEI FOUR HORSEMEN
METALLICA, ALLA RICERCA DI UN SOGNO
DI RINO GISSI, PARTE SECONDA, TRATTO DA METALLIZED.IT

Nel gennaio 1986 viene ultimato il nuovo attesissimo album dei Metallica, intitolato proprio Master Of Puppets. La potenza che aleggia nei solchi dell'album è devastante: dopo aver guardato in faccia la morte nel lavoro precedente, ora i Metallica si occupano della società e del controllo che essa muove nei confronti dei suoi consociati. I pezzi più devastanti sono quello iniziale, la tellurica Battery, quello conclusivo, la violentissima Damage Inc e la centrale Disposable Heroes, furiosa ribellione contro gli Stati che mandano i propri ragazzi in guerra senza preoccuparsi dei loro destini. Al di là di questi pezzi velocissimi, i Metallica si esibiscono in una serie di calibri da novanta della Storia dell'heavy metal, Storia che si sintetizza spesso in un'unica canzone: la leggendaria titletrack, mostruoso esempio di come dei ragazzi ancora giovanissimi possano dare vita a qualcosa di immortale e inspiegabile, capace di infiammare cuori e menti per decenni e decenni a seguire. Trattando il tema scottante della dipendenza [dalle droghe come dalla società: c'è sempre qualche burattinaio pronto a manovrare i nostri voleri], i Metallica compongono una delle canzoni più celebrate e amate di ogni generazione, inno e bandiera capace di unire qualsiasi headbanger a qualunque latitudine: 'Manovro i vostri fili contorcendo la vostra mente e distruggendo i vostri sogni; accecati da me, non riuscite a vedere nulla. Chiamate il mio nome così che vi possa sentire urlare: padrone, padrone!'. La gemma di questa canzone è la parte centrale, esclusivamente strumentale, dotata di una melodia magica e straordinaria; 'Padrone, padrone, dove sono i sogni che ho inseguito? Padrone, padrone, hai promesso solo delle bugie' urla Hetfield prima di un assolo spaziale che rilancia la traccia ancor più veloce e rabbiosa nel refrain iniziale. La grandezza dell'album non si ferma lì, anche se tanto già basterebbe a fare accademia; The Thing That Should Not Be, macigno di stampo lovercraftiano, è un peso massimo lento e ossessivo; Welcome Home Sanitarium è il classico crescendo piano-forte, terribilmente malinconica ma con potente finale in escalation brutale; essa narra le paure di un soggetto rinchiuso in un ospedale psichiatrico: metafora di chi la pensa diversamente dalla massa luogocomunista ma che è indicato come 'pazzo' ed eretico dalla massa medesima: 'Sussurri cose nel mio cervello, assicurandomi che sono pazzo; credono che le nostre teste siano nelle loro mani, ma metodi violenti portano a dei progetti violenti. Tenetelo legato, lo fa star bene: sta migliorando, non vedi'? James si scaglia contro i predicatori religiosi in Leper Messiah, mentre Cliff Burton dà libero sfogo alla sua tecnica compositiva nell'imponente strumentale Orion. Il platter è chiuso dalla già citata Damage Inc, spregiudicato atto di accusa allo sporco ormai infiltratasi nelle stanze dei bottoni e nella società in generale, ad ogni livello: 'L'onestà è la mia sola scusa', motto di un pezzo terremotante nel riffing, negli attacchi batteristici e nel testo infarcito di volgarità: 'Fanculo tutto, non bisogna avere nessun cazzo di rimorso! Non c’è lieto fine in questi posti scuri'. A completare l'opera, l’inconfondibile copertina dell'album, con le croci dei soldati americani caduti e le mani del 'burattinaio' a muovere i fili del destino, dall'alto. Il clamore destato dall'uscita di un album così potente, completo, profondo e articolato è incredibile; il 1986 si rivela presto un anno che segnerà inevitabilmente la storia della musica dura, perchè sul fronte thrash metal arriva anche un'altra leggenda, ovvero Reign In Blood degli Slayer: in ventotto minuti di furia sanguinolenta e perizia tecnica annichilente, la band losangelina riscrive ogni canone del thrash e pone ulteriori basi di movimenti come il death, già abbondantemente seminate con i due lavori precedenti. Master Of Puppets e Reign In Blood duellano a lungo per la palma di miglior disco dell'anno e della storia: una sfida che ancora oggi trova difficile sentenza. Ricorda Silenoz, dei Dimmu Borgir: 'I Def Leppard erano considerati heavy, poi sono arrivati Metallica e Slayer. Sembrava un altro pianeta. Negli anni 80 sono venute fuori un sacco di band fenomenali, in questo genere di musica. Sono convinto che quel decennio sia stato puro metal, e non vedremo mai più nulla di simile. Non dico che il metal sia morto, ma il feeling, l'atmosfera, tutto ciò che comportava il metal degli anni 80 erano unici'.

I Metallica, che vivevano alla 'Metallica Mansion' a Carlson Boulevard, periferia di El Cerrito, erano all'apice della loro brillantezza compositiva: Hetfield, che sul palco era arrogante e scatenato, un leader nato, nel privato era un lupo solitario, tranquillo e taciturno che viveva per la band e per essa distillava ogni goccia di sudore; Ulrich era più 'ragionato', calcolava tutto nel dettaglio e agiva in tutto e per tutto per il bene della sua formazione; Hammett e Burton, amici per la pelle e sempre in stanza assieme, erano i più rilassati e simpatici della compagnia, anche se il chitarrista nutrirà fino al 1988 il timore di un ritorno di Mustaine al suo posto. E' incredibile pensare come una band di tali proporzioni, capace di suonare una musica così nichilista e terremotante, ormai impadronitasi del trono dell'heavy metal e non più 'solo' di quello del thrash underground californiano, non abbia mai perso la sua spensieratezza e la goliardica voglia di vivere tipica di quei ventenni scapestrati che ne muovevano gli ingranaggi; prima di partire per il tour europeo, James e Cliff iniziarono addirittura ad esibirsi con una sorta di progetto parallelo 'demenziale', gli Spastik Children: Hetfield si dedicava alla batteria, ma in realtà lo scopo della band non era suonare ma fare casino e ubriacarsi in serate di svago totale e sregolato! Il tour europeo, di spalla al folle Ozzy Osbourne, registrò un successo sterminato dei Metallica anche presso i fans del Madman inglese; James dovette addirittura affrontare la frattura del polso in seguito ad un paio di cadute dallo skateboard, limitandosi così a cantare e lasciando la chitarra ritmica a John Marshall dei Metal Church, già roadie dei Four Horsemen. A fine estate i californiani misero a ferro e fuoco il Regno Unito, supportati dagli Among The Living; ricorda Scott Ian, chitarrista dei newyorkesi: 'Ci sentivamo parte di qualcosa. La platea era impazzita e avevamo la sensazione che stesse succedendo qualcosa. L'energia era palpabile'. James torna presto ad abbracciare la sua Gibson Explorer, la formazione è in forma smagliante e mette in fila una serie di show strepitosi incentrati sulla scaletta del tour di Master e sugli immancabili vecchi cavalli di battaglia; i Cavalieri salgono in Norvegia e Svezia, dove tengono uno show memorabile a Stoccolma: Cliff Burton, in stato di grazia, atterrì il pubblico improvvisando l'inno nazionale americano, The Star Spangled Banner', nel bel mezzo del suo assolo, Anesthesia.

Girava tutto splendidamente bene, per i Metallica. Tutto troppo bene per essere vero. Sabato 27 settembre 1986 il bus della band viaggia nei freddi tornanti svedesi, seguito a circa 45 minuti di distanza da un secondo mezzo che trasportava la strumentazione. I ragazzi avevano guardato un film in VHS fino alle due di notte, e come sempre Cliff e Kirk si erano giocati tra loro il tanto agognato lettino vicino al finestrino: aveva vinto Cliff. Verso le 6.30 il mezzo sbanda pericolosamente, si ribalta su un fianco e schizza via per una ventina di secondi, finendo fuori strada: sono attimi di terrore. Marshall viene sbattuto fuori dal finestrino ma è incolume; Kirk e James, in mutande, escono dal bus tremando e con qualche abrasione; Lars emerge zoppicando, seguito via via dal resto della troupe. Ma qualcuno non è uscito, e non assaporerà mai più il sole e il caldo della sua California. Cliff Burton, sbalzato fuori dal finestrino, rimane schiacciato sotto il bus. Hetfield ricorda quanto fu sconvolgente: 'Vidi l'autobus sopra di lui. Vidi le sue gambe spuntare fuori. Crollai. L'autista, ricordo, stava tentando di dare uno strattone alla coperta posta sotto il suo corpo per usarla per le altre persone. Dissi soltanto 'Non farlo, cazzo'! Volevo uccidere quell'uomo. Non so se fosse ubriaco o se passò sul ghiaccio. Quello che seppi fu che stava guidando e che Cliff non era più in vita'. Una gru sollevò il mezzo dal corpo; Lars fu prelevato dai genitori e riportato in Danimarca, mentre gli altri tre passarono la notte in un hotel di Ljungby. James si sfogò attaccandosi alla bottiglia, e in pieno delirio spaccò due finestre. Kirk e Marshall cercarono di dormire lasciando accesa la luce della stanza. Il 7 ottobre 1986 si tenne il funerale nella Chapel Of The Valley a Castro Valley, in California. Cliff fu cremato e sepolto nel Maxwell Ranch di proprietà della famiglia Burton. Della cerimonia ha parlato un amico del bassista, Dave DiDonato: 'Ci mettemmo in un largo cerchio con le ceneri di Cliff al centro. Ognuno di noi camminò verso il centro e prese un pugno delle ceneri dicendo quello che aveva da dire. Poi venne sparso sulla Terra, in un posto che amava molto'. Alla fine della cerimonia fu suonata Orion: se ne era andato un muscista preparato e dotato di un talento innato, un ragazzo che tutti ricordano come dolcissimo e tremendamente onesto, con se stesso e con gli altri. Sul suo taccuino, poco tempo prima della tragica fine, tracciò le profetiche parole che poi Hetfield pronuncerà in To Live Is To Die, dedicata all'amico scomparso: 'Quando un uomo mente uccide una parte del mondo. Sono queste le pallide morti che gli uomini confondono per le loro vite! Non posso più sopportare di essere testimone di tutto questo. Non può il regno della salvezza portarmi a casa'? Rock In Peace, fratello.

I Metallica si fermarono, ma per poco: ancora scossi dal dramma, decisero di tornare sul palco e sfogare lì la propria sofferenza, proprio come Cliff avrebbe voluto. Dopo diverse audizioni, i Metallica individuarono in Jason Newsted dei thrashers Flotsam And Jetsam l'erede giusto di Cliff. Il ragazzo fu invitato a bere una birra con i tre futuri compagni al Tommy's Joint Bar di San Francisco, da anni 'tana' della band; la leggenda vuole che i tre trovarono una scusa per andare in bagno contemporaneamente, si consultarono e decisero di puntare su Newsted. Il ragazzone fu presentato con due concerti fenomenali, in cui lui dimostrò una grinta ed un'energia invidiabile; la band intanto partì per un lunghissimo tour che si sarebbe protratto lungo tutto il 1987. Jason ebbe un impatto traumatico con gli altri membri della band: l'iniziazione fu lunga e dolorosa, perchè su di lui i Metallica sfogavano tutte le frustrazioni per la scomparsa di Cliff; lo escludevano dalle bevute e dai viaggi in taxi, lasciandogli da pagare il conto; gli entravano in stanza sfasciando tutto, gli raccontavano storie assurde [come quella secondo la quale il fotografo Ross Halfin era gay e che loro dovevano dormire tutti con lui] e lo bersagliavano di continuo. Si mormora che Lars non lo sopportava come persona, e che avrebbe voluto cacciarlo nel corso del nuovo tour; ma ormai la scelta era fatta, e anche se come musicista Newsted era apprezzato avrebbe dovuto sopportare diverse complicazioni nel corso della sua avventura nella band. C'è chi dice che abbia registrato le parti di basso del nuovo disco in cantiere quasi da solo, abbandonato a se stesso e senza che nessuno gli dicesse se stava commettendo errori o se le sue registrazioni erano abbastanza professionali; si mormora addirittura che Ulrich abbia abbassato il volume del basso di nascosto, pompando a dismisura la cassa e la chitarra prima che il disco fosse ultimato: 'Tu non sei Cliff' ! Anni dopo, Jason ricorderà: 'Era un esame continuo, mi prendevano in giro per vedere se reggevo. E' andata avanti così per un anno. Volevano vedere se cedevo. ho retto, ed è andata'.

In quel 1987, mentre Kirk prendeva lezioni da Joe Satriani, la band pubblicò un video VHS composto di materiale amatoriale per commemorare Cliff [Cliff'Em All] e diede modo a Newsted di 'scaldarsi', registrando alcune cover di gruppi storici punk o della NWOBHM: il tutto finì in un EP intitolato Garage Day Re-Revisited- The $5,98 ep. Ormai ripresasi apparentemente dalla tragedia che l'ha afflitta, la macchina da guerra californiana torna a far esplodere tutta la sua potenza in ogni angolo del pianeta, infuocando nuovamete Donnington e salendo sul palco al fianco di leggende del rock come i Deep Purple. La stampa dava vita all'affascinante definizione di 'Big Four of Thrash Metal', in cui i Metallica spiccavano al fianco di Slayer, Megadeth e Anthrax; il nuovo anno, il 1988, vede i ragazzi impegnati col carrozzone itinerante del Monster Of Rock, che però ruotava attorno alla città di Los Angeles, luogo in cui si stava lavorando alla registrazione del nuovo album: ciò permise a Lars e James di recarsi in studio con una certa continuità, seguendo da vicino la gestazione dell'apocalittico And Justice For All. Gli unici problemi furono legati alla scelta del produttore: la scommessa Mike Clink, che aveva curato Appetite for Destruction dei Guns'N'Roses, si rivelò alquanto azzardata per una heavy-thrash band come i Metallica, che dunque richiamarono il mai troppo elogiato Fleming Rasmussen, che con loro aveva collaborato per i due dischi precedenti. L'album si rivela un compattissimo macigno di elevata caratura tecnica, l'apice compositivo della band che in esso affronta il tema dell'avversità ad un sistema corrotto dal denaro e accecato dal dogma dell'apparire. Pezzi urticanti e veloci, ma complessi e intricati come la tellurica Blackned o il devastante 'inno di ribellione 'Dyers Eve', 'dedicata' con rancore da James ai genitori, si affiancano alla soffocante pesantezza di Harvester Of Sorrow; nella titletrack, lunghissima e articolata, o nella monumentale strumentale dedicata all'indimenticato Cliff Burton, To Live Is To Die, si marcia di fatto nel technical thrash metal. Straziante è One, capolavoro emotivo di disarmante bellezza: una nenia malinconica che racconta le sofferenze di un mutilato di guerra, riedizione musicale di un fatto realmente accaduto e già trattato in un libro ed in un film. Il crescendo finale, che sfocia in una parte rabbiosa e in un assolo mozzafiato, è spettacolare. Per One i Metallica girano a sorpresa il loro primo videoclip: le immagini crude e la serietà del filmato, però, lasciano poco fiato a chi voleva cercare di additare la band come 'venduta' al mercato televisivo. La corazzata Metallica riparte in tour, con una gigantesca scenografia dotata di statua della giustizia pronta a crollare a pezzi nel bel mezzo degli show; i Quattro Cavalieri rimasero 'on the road' per tutto il 1989, volando da una parte all'altra del globo e ricevendo addirittura una nomination ad un Grammy: il premio per la sezione 'heavy metal' fu però affidato, clamorosamente, ai folk-rocker Jethro Tull nonostante tutti dessero per strafavoriti gli stessi Metallica. Il nuovo decennio si apre sotto un nuovo vento di novità e ottimismo: e mentre la band coverizza per l'anniversario dell'Elektra Stone Cold Crazy dei Queen, arriva il momento di mettersi al lavoro per un nuovo studio album. I roventi anni del thrash californiano volgono al termine, e i Metallica li chiudono con in pugno lo scettro di sovrani assoluti della scena metal mondiale.
AT THE EDGE OF TIME

LIND GUARDIAN [2010], POWER METAL
Quattro anni di silenzio, anzi di voci confuse, di un videogame comprato solo per sentire un inedito [Sacred, sia il gioco che il brano], di concerti, va bene, ma il disco nuovo quando? E poi, è sempre così, quando arriva non si è mai abbastanza pronti. Cosa aspettarsi, cosa pretendere da un disco per cui abbiamo sospirato, temendo che non arrivasse più? Non importa, ormai sono solo i fatti a contare, e allora cominciamo. C’è del bene e del male in At the Edge of Time, ma la band non è né stanca né in crisi creativa; semmai, manca qualche acuto individuale, ma i Blind Guardian rimangono un’entità coesa e magica [e pachidermica nei ritmi di lavoro, ma sorvoliamo]. Certo, una domanda è lecita: quanto ha giovato ai bardi di Krefeld il passaggio a Nuclear Blast? Magari a loro molto, ma alla qualità dei lavori un po’ meno. La volontà della label di trademarkizzare il sound delle band sotto contratto è nota da tempo, ma mal si sposa con Kursch e soci, che, come nel precedente A Twist in the Myth, appaiono un po’ frenati nel sound da una mano che cala pesante in fase di mixing. Andiamo alle canzoni però, che sono ciò che conta. 'Sacred Worlds' è una piacevola sorpresa, dato che incapsula la già citata Sacred e la inserisce in un contesto orchestrale di grande impatto su cui lesto si inserisce Olbrich a dare il la al metallo incandescente. Le doti del brano in sé le conoscevamo, ma va detto che in questa nuova veste assume proporzioni epiche incontenibili, accrescendo il suo status di futuro classico della band. 'Tanelorn [Into the Void]' -che nulla ha a che vedere con 'The Quest for Tanelorn da 'Somewhere Far Beyond'- pur assomigliando moltissimo nel sound ai brani di A Twist in the Myth inserisce qualche eco del beneamato 'Imaginations from the Other Side', nei passaggi più decisi e aggressivi ma comunque strettamente legati ad una melodicità mai stucchevole. L’uso delle sovraincisioni è gradevolmente limitato, a dimostrazione di come i Blind Guardian da qualche anno lavorino anche in previsione live. Schuren apre 'Road of No Release' con delicate note di pianoforte, intrecciate ad un soffice pattern di chitarra che prestissimo esplode in un suono epico e romantico; qualche passaggio ricorda la struttura di 'Fly', ma le melodie sono di livello stratosferico, anche se di contraltare si sente qualche passaggio forzato. 'Ride into Obsession 'vede una batteria in eccessiva evidenza nel main riff [a proposito, Ehmke è proprio bravo], ma ancora cori e grandi melodie a coprire eventuali difetti; l’attitudine ai cambi di atmosfera è la stessa di 'Nightfall in Middle-Earth', anche se i due dischi non sono paragonabili, e il timore è che Kursch possa fare davvero fatica a cantare alcuni passaggi dal vivo. 'Curse My Name' è la ballata celtica che ci sta sempre bene, e che convince alla distanza dopo un avvio non freschissimo; ma è ormai evidente come ai Blind Guardian non serva il coro d’impatto, dato che le composizioni sono comunque di livello alto a prescindere, e mai fossilizzate su un’unica idea o su uno stile da seguire dall’inizio alla fine. Anche 'Valkyries' mostra una varietà accattivante, qui colorata da qualche linea vocale aggiuntiva di un Kursch che incanta ma non stupisce certo per tecnica o estensione; tuttavia l’estetica musicale dei Blind Guardian cura anche il minimo dettaglio, e il lavoro di scrittura è talmente profondo che, per un motivo o per un altro, ogni brano finisce per avere qualcosa di speciale. 'Control the Divine' è una killer song, perfetta per scatenare i fan dal vivo e per esaltare un Kursch in buona forma, e davvero non ha nulla di meno rispetto ai brani con cui ci siamo esaltati negli anni. 'War of the Thrones' è qui presente in una versione lievemente diversa rispetto a quella contenuta nel singolo 'A Voice in the Dark', dato che è stata aggiunta una corposa traccia di pianoforte, e resta un grandissimo pezzo, il vero lento del disco con cui sognare di terre lontane. Riporta sulla terra la solida 'A Voice in the Dark', che avrà un coro un po’ stucchevole ma che è di livello superiore rispetto a quanto fatto in 'A Twist in the Myth'. 'Wheel of Time' parte languida, cresce epica e roboante, con orchestrazioni sconcertanti per intensità e una struttura sinfonica che richiama 'A Night at the Opera'. Già, perché 'At the Edge of Time' è il risultato del mix tra la forza di 'A Twist in the Myth' e i vagheggiamenti orchestrali di 'A Night at the Opera', prendendo -salvo rari casi- il meglio di entrambi, andando a costituire un corpus di grande spessore e qualità. È vero che mancano prestazioni individuali in grado di essere ricordate, ma è verissimo che la band agisce come un’unica entità. È vero che la produzione è discutibile, ma le velleità sinfoniche sono curate con gusto e competenza, e il muro sonoro che ne risulta è invidiabile per compattezza. Ma, nonostante il grandissimo lavoro 'extra' in studio, non manca una certa sfrontatezza da concerto. Per i Blind Guardian del 2000 è la quadratura del cerchio, e poco importa se gli angoli smussati scatenano qualche rimpianti dei vecchi capolavori: At the Edge of Time resterà sempre un disco di alto livello, a prescindere da scomodissimi paragoni.Da Metallized.it