DISCOGRAFIA COMMENTATA. SHOW NO MERCY [1983] Il debutto degli Slayer è un album faticoso, grezzo e sporco: i primi vagiti del thrash iniziano a smembrarsi dall'heavy classico, e Araya&co muovono i loro primi passi negli estremismi che li renderanno eterni. HELL AWAITS [1985] Dopo l'esordio del più classico Show No Mercy, gli Slayer svoltano in un thrash più potente e cattivo, con un disco maestoso e basilare per lo sviluppo del thrash metal estremo e del successivo death primigenio. REIGN IN BLOOD [1986] Reign In Blood' si erge a monumento del metallo più spinto, capace di incendiare come poche: basta il nome per immergersi nell'aria rarefatta e claustrofobica di un incubo sinistro, presto macchiato da un'agghiacciante pioggia di sangue. Il capolavoro del thrash, potente e veloce. SOUTH OF HEAVEN [1988] South of Heaven mostra un rallentamento del ritmo dei brani e l'aggiunta di uno sprazzo di melodia, mantenendo, comunque, un sound incisivo e guadagnando in potenza e pesantezza. SEASON IN THE ABYSS [1990] Per gli Slayer gli anni '90 iniziano con un disco che è un connubio tra la brutalità di Reign in Blood e la melodia di South of Heaven. Per alcuni, l'album più maturo del gruppo. DIVINE INTERVENTION [1994] Mentre gli altri pilastri del thrash decadono, gli Slayer si mantengono sul loro sound classico e naturale: thrash violentissimo che condensa in un solo disco Reign In Blood, South Of Heaven e Season In The Abyss! DIABOLUS IN MUSICA [1998] Breve parentesi nella Slayer story: i brani vengono rallentati notevolmente e diventano più lunghi, l'accordatura delle chitarre viene abbassata di tonalità e vengono incorporati elementi groove e nu metal. GOD HATES US ALL [2001] Nonostante abbiano ricevuto qualche critica per il loro cambiamento musicale, gli Slayer rimangono ancorati al loro aggressivo Thrash sound, sebbene si sia evoluto negli anni. CHRIST ILLUSION [2006] Un altro disco degli Slayer, ma quello in cui tutti speravano era qualcosa di storico e monumentale, qualcosa di più di 'un altro album'. WORLD PAINTED BLOOD [2009] Pura e fottutissima violenza Slayer al 100%, un thrash metal vecchio stile che riconsegna alla gente la vecchia band, tellurica e devastante.

SLAYER LIVE REPORTS
4.11.08, GLI SLAYER A MILANO. Uno degli eventi live più attesi dell'anno è l'UNHOLY ALLIANCE di Milano, nobilitato dalla presenza sullo stesso palco della corazzata Trivium e della leggenda Slayer. GLI SLAYER AL GODS OF METAL 2008 Il mitico Gods Of Metal prosegue con una giornata speciale: in pista, tra gli altri, Slayer, Testament e Meshuggah. BIG FOUR OF THRASH 2010 Un evento storico per la storia del thrash ottantiano! 2010 MILANO Un concerto 'dannato' si potrebbe dire visto la band coinvolta e gli aneddoti che esso si porta dietro! EUROPEAN CARNAGE TOUR. Report della calata italica di Megadeth e Slayer datata 2011: Roma e Padova messe a ferro e fuoco. LIVE REPORT: BIG FOUR OF THRASH [06 luglio 2011]. Finalmente in Italia il tour dei quattro pilastri del thrash: live report da quel di Milano.


NEWS: L'INTERVISTA: KERRY KING. 'Sicuramente non andremo avanti fino a 60 anni. E' una cosa di cui dobbiamo discutere all'interno della band. Fosse per me continuerei ancora per un bel pezzo perchè sono ancora carico e motivato come il primo giorno. BIG FOUR SARA' TOUR! Annunciato un tour che vedrà sullo stesso palco i giganti del thrash ottantiano: Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax!
29 GIUGNO 2010: SLAYER A MILANO
MILAN PAINTED BLOOD

DA MUSICAOLTRANZA.NET. Un concerto 'dannato' si potrebbe dire visto la band coinvolta e gli aneddoti che esso si porta dietro: inizialmente fissato il 9 dicembre 2009, rinviato successivamente al 28 marzo dell’anno in corso e nuovamente posticipato allo scorso 29 giugno. Un’attesa interminabile, quella per la calata italica degli Slayer con il loro tour 2010 a supporto della loro ultima fatica in studio: 'World Painted Blood'. I problemi al collo con successivo intervento del frontman bassista Tom Araya, hanno messo a dura prova la pazienza e la devozione dei fans italiani che, fortunatamente, sono stati ripagati dell’interminabile attesa con due shows memorabili. Il primo ha visto una scaletta varia con parecchie chicche, il secondo si è caratterizzato invece per la riproposizione live integrale di 'Seasons In The Abyss'. Prima di tutto, gli aneddoti del prologo: avvistato uno sfuggente quanto simpatico Tom Araya che, a braccetto di sua moglie Sandra, è saltato alla velocità della luce sul tour bus con in mano un piatto di plastica del catering con pistacchi e bruschette giustificandosi con i fans adoranti e supplicanti con un sorriso ed un simpatico: 'Mangiare!'. Finito l’idilliaco gossip occupiamoci del concerto. Apertura affidata agli special guests: gli ottimi The Haunted nei quali milita l’ex At The Gates Jonas Björler. Gli svedesi sono autori di uno prova solida e coinvolgente e grazie anche alla presenza scenica del frontman Peter Dolving il pubblico si scalda a dovere prima dell’arrivo degli headliner. Sulle note della nuova 'World Painted Blood' i quattro salgono sul palco e, è il caso di dirlo, si scatena l’apocalisse. Nel metal estremo sono dei veri mattatori non ce n’é per nessuno. Gli Slayer sono sempre loro, o li si ama o li si odia, niente mezze misure, ma in quello che fanno sono i migliori. Kerry King sul palco si prende sempre più sul serio e a guardarlo negli occhi durante l’esecuzione dei brani ci si rende conto che non comunica altro se non rabbia e odio, ma anche il suo collega Jeff Hanneman non è da meno a riguardo. Dave Lombardo, a mio parere, vera colonna portante della band in sede live, è una macchina da guerra dietro le pelli. Tom Araya non si abbandona più al suo headbanging caratteristico a causa della placca in ferro impiantategli nel collo, ricordo dell’intervento dello scorso dicembre, ma l’altra faccia positiva della medaglia è il sensibile miglioramento nelle prestazioni vocali. Nei novanta minuti grossomodo senza pause i 18 brani in scaletta vengono con violenza 'sguinzagliati' sul pubblico che tra mosh-pit e crowd surfing ha dato davvero da fare alla security del locale milanese. Tra gli episodi più felici degli ultimi lavori 'Disciple', 'Payback', 'Cult', spazio anche a classici da molto tempo non più in scaletta come 'Expendable Youth', 'Silent Scream', a chicche come 'Aggressive Perfector' e le immancabili 'Hell Awaits', 'Raining Blood' e 'War Ensemble' che però non ha visto Tom Araya incitare la folla con la sua frase trademark: 'Are you ready for fucking war?'. La chiusura è stata affidata alla distruttiva 'Angel Of Death' lasciata cantare per buona parte al pubblico delirante. I nostri finiscono, salutano, lanciano i plettri e le bacchette e quant’altro e via nel backstage: missione compiuta, Milano 'deleta est'. Pratica archiviata in puro stile Slayer: arrivo, rado al suolo tutto quello che mi trovo di fronte e vado via!

01. World Painted Blood
02. Hate Worldwide
03. Cult
04. Disciple
05. Expendable Youth
06. War Ensemble
07. Jihad
08. Payback
09. Beauty Through Order
10. Seasons In The Abyss
11. Hell Awaits
12. Mandatory Suicide
13. Chemical Warfare
14. Raining Blood
15. Aggressive Perfector
16. South Of Heaven
17. Silent Scream
18. Angel Of Death

SIX DEGREES OF INNER TURBOLENCE

DREAM THEATER [2002], PROG METAL
Dopo lo straordinario successo di Metropolis Pt.2 davanti agli occhi Dream Theater si prospettavano due diramazioni per proseguire la propria carriera che, proprio nel biennio 1999/2000, dopo la pubblicazione di Scenes From A Memory, aveva raggiunto l'apice, o comunque i livelli di fama del debutto Images & Words. Se da un lato, la tentazione di bissare il successo di critica e pubblico registrato con SFAM era grande, dall'altro, il gruppo di New York aveva sempre -fino a quel punto- tentato di evolvere album dopo album. Ed è proprio questa la chiave di lettura del pachidermico Six Degrees Of Inner Turbulence: un'evoluzione, o meglio ancora, un'evoluzione compiuta solo per metà. Col senno di poi possiamo dire che Six Degrees Of Inner Turbulence è un bivio, un turning point nella carriera dei Dream Theater. In effetti, pur volendo considerare i due dischi come uno solo, risulta davvero difficile ignorare quanto il primo progredisca sulla strada che porterà a Train Of Thought, mentre il secondo sia più legato al passato dei Dream Theater. Come detto, ci troviamo di fronte ad un doppio album. Due dischi che sono una radiografia del corpo camaleontico dei Dream Theater targati 2002. Il primo disco è quello più sperimentale se vogliamo, o comunque che si discosta da quanto fatto nell'immediato passato del gruppo di Long Island. Lo stupore emerge improvviso al primo ascolto dell'opener 'The Glass Prison'. Una cattiveria ed un'aggressività senza eguali, forse paragonabile solo all'accoppiata schiacciasassi The Mirror-Lie dei tempi di Awake. La canzone è l'inizio della saga degli alcolisti anonimi che Mike Portnoy iniziò a scrivere in seguito ai suoi noti problemi con l'alcool. E' proprio Portnoy a pronunciare le prime parole di questo album. Un duetto serrato con l'ugola di LaBrie, sulla quale vengono applicati i primi filtri, nel riuscito tentativo d'incattivire la sua voce. Considerando che il pezzo comincia con i rintocchi di una funebre campana, a cui si va a sommare -dopo un minuto e quarantasette secondi- il riff più sporco e tagliente partorito dalle mani di John Petrucci fino a quel momento, lo shock di migliaia di era più che giustificato all'epoca dell'uscita del disco; non è stato facile dimenticare le melodie di Scenes From A Memory per abituarsi a tanta violenza sonora. Un gran bel pezzo, non c'è che dire. Una canzone che solo nel finale mette in mostra la melodia a cui i Dream Theater ci avevano abituato. Inizio in sordina per 'Blind Faith' che -almeno nella prima parte- ci fa riprendere fiato dopo la folle corsa di 'The Glass Prison'. Un inizio melodico che LaBrie interpreta magistralmente fino a metà pezzo, quando sono John Petrucci e Jordan Rudess a salire in cattedra per regalarci una prova straordinaria, impreziosita da una sequenza di assoli tra le più belle della discografia dei Dream Theater. Segue la riflessiva 'Misunderstood' che sprigiona tutta la propria rabbia in un refrain non molto articolato ma ricco di pathos. 'The Great Debate' è una bellissima riflessione di carattere etico-morale sull'utilizzo delle cellule staminali per la ricerca scientifica sulle malattie. La canzone attraverso i suoi tredici minuti di durata si muove sinuosamente sulle voci dei reporter fino a dare sfoggio della propria potenza in un ritornello molto riuscito. Chiude il primo disco la triste Disappear che, pur non toccando picchi di qualità assoluta, riesce ad emozionare con la tragica storia d'amore narrata nel testo; testo dal quale traspare un mood tutt'altro che positivo: uno stato d'animo fatto più di ombre che di luci. Questa ultima frase è certamente estendibile all'intero primo disco di Six Degrees Of Inner Turbulence. Col secondo disco -una sola canzone divisa in otto movimenti- i Dream Theater cambiano musica. E lo fanno in maniera netta ed evidente. La melodia che aveva caratterizzato quel capolavoro di Scenes From A Memory viene riversata senza remore tra i solchi di questo secondo supporto di silicio. Il pezzo (quarantadue minuti di durata) rappresenta sei diverse patologie; sei diversi modi di soffrire; sei diversi stati d'animo; sei diverse visioni della realtà. Progetto ambizioso che si palesa nel primo movimento operistico, l'Overture appunto. Una bel incipit dove Rudess si mette in evidenza per le melodie ariose. Proprio il suo pianoforte apre 'About To Crash' che ci parla di una ragazza con iperbolici sbalzi di umore che la fanno cadere in depressione. La canzone -nonostante la materia trattata- ha un piglio più solare e meno dark rispetto al primo disco, cosa che non si può dire delle seguenti 'War Inside My Head' (i fantasmi che ritornano nella mente di un ex soldato) e 'The Test That Stumped Them All' (battaglia tra uno schizofrenico e i suoi medici tra le mura di un manicomio). In effetti, la prima trasuda Napalm durante i suoi due minuti di durata, mentre la seconda riproduce in maniera verosimile la prospettiva del paziente per mezzo della sua ritmica asfissiante e psicotica. Torna la calma e la dolcezza con 'Goodnight Kiss' che racconta l'eterno dramma di una madre che non vuole rassegnarsi alla perdita della figlia. Molto bello l'incedere della chitarra di Petrucci che simula il crollo delle condizioni cliniche della paziente. La magnifica 'Solitary Shell' incanta col racconto di un ragazzo con difficoltà di adattamento alla realtà. Letteralmente da brividi la parte finale con la coppia Rudess/Petrucci sugli scudi. 'About To Crash (Reprise)' riprende la traccia numero due sviluppandola ulteriormente in una direzione più rockeggiante all'inizio, ma che poi sfocia nella maestosità dell'incipit di 'Losing Time/Grand Finale', ultima traccia di un'opera dai temi insoliti che manifesta tutta la sua gradeur proprio nella melodia di quest'ultimo pezzo. In definitiva, Six Degrees Of Inner Turbulence è un buonissimo album. Non è un classico della band, perchè l'eccessiva lunghezza penalizza -a tratti- la riuscita finale del prodotto. Ma è fuor di discussione che questo è l'ultimo album dove i Dream Theater hanno osato senza pensare alle conseguenze; è un salto nel buio senza preoccuparsi di cadere in piedi.
METROPOLIS PT II: SCENES FROM A MEMORY

DREAM THEATER [1999], PROG METAL
Prima di iniziare a parlare di Scenes From A Memory, mi sembra essenziale fare una doverosa premessa, e cioè che ci troviamo di fronte non soltanto ad un album di altissima fattura sia tecnica che compositiva, ma anche ad una vera e propria opera teatrale. Da quanto detto risulta ovvio che tale album debba essere ascoltato integralmente in ogni sua singola parte e rigorosamente in ordine di traccia, così da poter cogliere tutto il significato e la poesia che quest'opera contiene ed emana. Così come è fondamentale far conoscere la storia che sta alla base di tutto prima di addentrarci in qualsiasi spiegazione di musica e testi, spiegazione che risulterebbe alla fine imprecisa, distorta o svuotata in alcuni contenuti fondamentali. La storia ha inizio ad Hechoe's Hill nel 1929 dove la bella Victoria è fidanzata con Julian, quest'ultimo ribelle e dedito al gioco d'azzardo e alla droga, mentre il suo gemello Edward era divenuto senatore e condotto una vita diametralmente opposta a quella del fratello. Proprio in Edward Victoria cerca consiglio e conforto, ma il senatore finisce per innamorarsi della donna con la quale inizia una relazione, ma Victoria è ancora innamorata di Julian e così decide di vederlo di nascosto, ma Edward sventate le segrete trame li sorprende e li uccide. Da qui la storia fa un lungo salto al 1999, dove in uno studio psichiatrico il terapista ipnotizza Nicholas, che altro non è se non la reincarnazione di Victoria, il quale soffre di continue visioni e memorie e sotto ipnosi ricorda e racconta tutto al suo terapista eccetto il momento dell'omicidio. Solo nell'ultimo brano, Finally Free, Nicholas viene risvegliato dall'ipnosi e ritorna a casa, dove però viene preceduto dal suo terapista, che si scopre essere la reincarnazione di Edward, il quale non esita ad ucciderlo dopo avergli sussurato apri gli occhi Nicholas, proprio come Edward molto tempo prima aveva fatto con Victoria. Ad aprire il lavoro ci pensano il ticchettio e le parole del terapista che inizia l'ipnosi di Nicholas, nella prima e breve traccia dell'album Regression, che continua poi melodicamente con la chitarra acustica e l'organo ad accompagnare il vocalist nell'introduzione della storia e del disagio psichico vissuto dal protagonista. Segue la strumentale Overture 1928, dove non si possono fare a meno di notare le grandiose capacità tecniche della band, mentre in Strange Deja Vu si racconta quella strana sensazione di rivedere scene già vissute; Through My Words fà da preludio alla successiva Fatal Tragedy, organo e batteria in grande evidenza e testi Sheaksperiani, e si continua con la lunga, ben 11 minuti, Beyond This Life che racconta l'omicidio di Victoria partendo dal titolo di una testata di giornale, alternando parti emotivamente sommesse a parti veloci con una dominante presenza delle percussioni soprattutto nella parte finale. Through Her Eyes, che poi è anche il singolo, si apre con un cantato femminile sopra una lenta e bellissima melodia che riprende la prima traccia Regression per svilupparsi in una canzone capolavoro che qualunque sia il genere musicale da voi preferito non si può fare a meno di apprezzare ed anzi osannare, così come il testo di questa song è semplicemente poesia. Lunghissima anche la successiva Home, quasi 13 minuti, dai tratti orientaleggianti ed insieme a Beyond This Life la song più in linea con i precedenti lavori del gruppo; ancora un lungo brano, ma stavolta strumentale, The Dance of Eternity, dove è oramai inutile ripetere tutta la tecnica e le potenzialità di questi musicisti. Tocca adesso ad altri due gioielli, prima One Last Time e poi The Spirit Carries On, insieme a Through Her Eyes apice di un'opera senza eguali, con una melodia semplicemente stupenda ed un testo profondo e significativo. Finalmente libero, Finally Free, l'altro lungo brano ed ultimo atto dell'opera che riprende nella sua parte centrale il motivo di One Last Time e chiude una sequenza di canzoni, anche se sembra riduttivo nominarle tali, sotto l'aspetto compositivo veramente insuperabile. Gran parte dei fan dei Dream Theater sono combattuti non sapendo scegliere quale elevare come miglior lavoro della band tra questo ed Images And Words, ma per me non esistono dubbi, Scenes From A Memory rappresenta un momento magico, unico e purtroppo irripetibile nella storia di questo grande gruppo, nonostante che anche l'altro sia un lavoro, come del resto quasi tutto ciò che fa parte della discografia dei Dream Theater, di gran lunga superiore alla media. Melodie stupende, virtuosismi e tecnica strumentale ineccepibili, testi poetici e teatrali, ed un solo aggettivo: capolavoro. Da Metallized.it
TYR

BLACK SABBATH [1990], HARDROCK
Tyr, pubblicato dai Black Sabbath nel 1990, è il terzo disco con il cantante Tony Martin alla voce e segue cronologicamente l’ottimo Headless Cross. Nella line up del gruppo va segnalata la presenta al basso dell’ex Whitesnake Neil Murray in sostituzione di Laurence Cottle. Il sound proposto dal gruppo britannico segue sostanzialmente le direttrici del precedente lavoro attestandosi su un heavy/hard rock molto epico con una presenza sempre più corposa ed efficace delle tastiere. La parte più interessante di questa release è quella centrale formata da un trittico di canzoni dedicate alla figura mitologica norvegese Tyr (divinità della guerra e della giustizia appartenente alla famiglia degli Asi e, secondo un’interpretazione, figlio di Odino). Fondamentalmente si tratta di un mini concept album composto dall’oscura, breve e sinfonica The Battle Of Tyr, dalla stupenda ballata acustica Odin's Court e dal pezzo decisamente heavy Valhalla con un grande assolo di chitarra del solito Tony Iommi. L’intensa opener track Anno Mundi inizia con un coinvolgente intro formato da un arpeggio di chitarra e da un atipico coro in latino. Molto efficace il ritornello cantato da Martin; segue la velocissima The Law Maker con riffs ed assoli di chitarra sempre molto ispirati ed un ottimo drumming di Cozy Powell; Jerusalem è un brano dall'incedere più cadenzato con in rilievo il lavoro alle tastiere di Geoff Nicholls; si recupera il doom degli esordi nel brano più lungo del disco The Sabbath Stones con un coinvolgente finale strumentale; piuttosto deludente la melodica Feels Good to Me una ballata blues che avrebbe fatto certamente una figura migliore in un’album dei Whitesnake; bella la conclusiva veloce Heaven in Black il cui testo si ispira alla storia dei costruttori della Cattedrale di S. Basilio a Mosca che vennero accecati affinchè non edificassero mai più nulla di così meraviglioso. Tyr è una release stranamente sottovalutata dai media ed apprezzata solo con il passare del tempo dal pubblico, probabilmente uno dei motivi risiede nel fatto che questa formazione dei Black Sabbath è stata per troppo tempo superficialmente considerata inferiore rispetto a quelle con Ozzy e Dio. Ritengo, invece, che Tyr sia un ottimo album con brani di spessore (soprattutto la trilogia dedicata al mito di Tyr) ed interessanti novità stilistiche. Il suo unico oggettivo limite è costituito dalla presenza di qualche pausa di troppo senza le quali potrebbe essere definito senza tema di smentita un autentico capolavoro della musica hard & heavy. Metallized.it
DR. FEELGOOD

MOTLEY CRUE [1989], GLAM METAL
Nel non troppo lontano 1989 i Motley Crue, la più oltraggiosa, famosa, casinara band che la storia abbia mai conosciuto, si trovavano di fronte ad un bivio, faccia a faccia con una di quelle scelte che cambiano la tua esistenza per sempre. Le opzioni erano due e semplici. La prima: autodistruggersi. E i quattro ragazzacci di Los Angeles ce la stavano mettendo tutta: Vince Neil era un concentrato di cocaina, alcol e sesso ambulante; Nikki Sixx, ancora alle prese con la sua tormentata infanzia, aveva scoperto nell'abuso di eroina la sua via di fuga, via che lo aveva portato anche all'overdose; Tommy Lee, eterno bambino alla disperata ricerca di soddisfare qualsiasi persona gli si presentasse davanti, passava le sue giornate un pò facendo il "terrible twin" con Nikki un pò tra le braccia di avvenenti coniglette; Mike Mars cercava di sconfiggere la spondilite anchilosante che fin da ragazzo lo perseguitava ingerendo più vodka possibile. Oppure rimaneva la seconda: scrivere un capolavoro e arrivare lassù in cima, dove nessuno aveva mai messo piede. Dr. Feelgood fu la risposta più intelligente e salvò sicuramente la vita di almeno un paio di componenti. La band nell'82 aveva scritto un disco fondamentale per tutta la scena street-glam di allora: Shout At The Devil, col suo suono catchy ma potente, così come la vistosità dello stile Motley Crue, avevano conquistato tutti. Era seguito il successo e gli eccessi, tant'è che il gruppo divenne famoso più per i festini, la vita sregolata, le camere d'albergo distrutte e la quantità di ragazze portate a letto che per la qualità degli album. Infatti sia Theater Of Pain che Girls, Girls, Girls erano stati minati dallo stato fisico dei quattro al momento delle registrazioni. Il primo, a parte un paio di hits, era scialbo; il secondo conteneva qualche grande pezzo, ma venne abbassato di livello dalla prova in studio. Il tour che seguì Girls, Gilrs, Gilrs rischiò addirittura di affossare completamente i Motley Crue ormai persi nel loro mondo fatto di droga e schifezze varie. Doug Thaler e Doc McGhee, i manager che li avevano raccolti da terra ai tempi di Too Fast For Love, decisero che era ora di finirla. Presero le quattro teste calde, li fecero andare in analisi, li obbligarono a disintossicarsi, a ripulirsi completamente, li chiusero per mesi in uno studio/clinica immerso nel verde lontano dalle distrazioni e fecero si che la band scrivesse il suo disco migliore. Dr. Feelgood alla fine uscì, dopo alcuni concerti di presentazione, e nel giro di una settimana si piazzò al numero uno della classifica statunitense. In quella classifica ci rimase per ben 109 settimane, vendendo milioni di copie in tutto il mondo e diventando uno dei dischi rock più famosi della storia. E non poteva che essere così dato che l'album di per sè rappresenta al meglio un intero decennio, quegli amati/odiati anni '80, non solo musicalmente ma anche come attitudine (ma altro non ci si poteva aspettare da una vera icona ottantiana come i Motley Crue), il vero testamento di un periodo che si stava concludendo portando con se tutti i suoi lati, sia positivi che negativi. Dr. Feelgood è quindi un disco ruffiano, molto ruffiano, giusto rapporto tra easy-listening e potenza. Ma, per una volta, questo non ci importa, perchè ne siamo consci e rimaniamo affascinati da questo ultimo atto teatrale a cui stiamo assistendo. Liberi da tutto quello che offuscava le loro menti i quattro losangelini ci sbattono sul piatto una decina di pezzi assolutamente incredibili per la facilità con cui uniscono semplicità, groove, hard-rock e riff indimenticabili. A tutto questo si aggiunge una delle produzioni migliori che si possa ricordare, grazie alla quale i Motley Crue poterono completare il proprio sound con qualche piano rock&roll e qualche fiato funky, tanto in voga in quel periodo. Tralasciando le breve e cacofonica intro, T.nT. (Terror 'n Tinseltown), il resto delle tracce è un susseguirsi di singoli da paura e di classici della band. Da Dr. Feelgood, vero e proprio inno col suo incedere trascinante e il bel giro basso/chitarra che ti si stampa subito in testa, passando per Kickstart My Heart, che Nikki scrisse pensando a quando gli salvarono la vita con un'inizione di adrenalina dritta nel cuore, col suo riff quasi rock&roll che ci guida in una canzone da cantare a squarciagola, per arrivare all'altro super hit S.O.S. (Same Old Situation), ultra tirata, basata su una ritmica così anni ottanta da farci tirare fuori lacca e pantaloni di pelle dall'armadio e con un ritornello tutto da urlare. Ma non bisogna dimenticare gli stupendi lenti che completano l'album, come la dolcissima Without You o l'incredibile accoppiata finale Don't Go Away Mad (Just Go Away), molto "guns&roses", e Time For Change, altro lentone da fazzoletti e accendini accesi. E a completare un pungo di canzoni vive e divertenti, magari non allo stesso livello di quelle prima citate, ma altrettanto valide: stiamo parlando di Rattlesnake Shake, Slice Of Your Pie e Sticky Sweet, tutte quante che sprigionano '80s da tutti i pori. Forse è proprio il divertimento la caratteristica principale di Dr. Feelgood: non è possibile stare fermi mentre lo si ascolta, non si può rimanere impassibile a quella che senza ombra di dubbio rappresenta la colonna sonora ideale per qualsiasi festa perfetta. Il meglio dei Motley Crue è qui. Si, è vero, quelli ripuliti e un pò bravi ragazzi, che quindi perdono un pò del loro fascino e della loro onestà. Ma, come già detto, sentendo queste canzoni questi particolari si dimenticano, si accantonano per godersi fino all'ultimo questo concentrato di energia ottantiana, uno degli ultimi veri dischi capaci di raccogliere lo spirito di un periodo e di una generazione. Acquisto o per lo meno semplice ascolto obbligato per questo tassello di musica moderna, immancabile nella nostra virtuale libreria di grandi classici. Rockline.it
GIRLS, GIRLS, GIRLS

MOTLEY CRUE [1987], GLAM METAL
Anno 1987. La scena hair/glam rock americana è soggetta, finalmente, ad un cambiamento. Con l'avvento dello street glam, variante del genere certamente più 'hard' ed impegnata di quello classico tutto rossetti, lustrini e ragazzine innamorate, i vecchi gruppi sentono il dovere di riciclarsi. A fronte dell'avvento di gruppi come Guns n' Roses prima e Skid Row poi, che invece di cori festaioli e power ballads offrono un rock più grezzo, ruvido ed esistenzialistico, i 'classici' glam rockers, quasi imbarazzati, sentono il dovere di darsi una regolata e di incidere qualcosa di più serio, di più rock che glam. In questa trasformazione si inserisce 'Girls Girls Girls'; due anni dopo lo sterile 'Theatre of Pain', nonchè dopo due album dove i Crue si vestivano con tacchi alti e ogni sorta di cincaglieria addosso, arriva finalmente una doccia rigenerante di rock n' roll. Per la prima volta li vediamo in uno stile più asciutto, meno pomposo, più serio, in sella alle loro Harley a caccia di tette e culetti. Il disco apre con 'Wild Side', una buona opener dal ritmo sostenuto che è un po' il manifesto del loro voler mostrare il lato 'duro e selvaggio' della band. Pecca solo per la mancanza d'assolo. Si prosegue con la title track 'Girls Girls Girls' che, come messaggio, è del tutto simile all'opener, solo che gode di un riff un po' più accattivante e di un bel solo di Mars in coda. Dopo le prime due canzoni il disco ha fatto capire le intenzioni dei Crue. Interessanti brani come 'Bad Boys Boogie', dove si odono gli echi settantiani impregnati di Aerosmith e Kiss, e 'All In The Name Of', ideale per rendere l'idea di 'hard rockers', rafforzano la tesi espressa dalle prime due tracce. Gradevole anche la ballad 'You're All I Need'. Il resto delle tracce è un party nella media o, nel caso di 'Nona', dedicata alla morte della nonna di Nikki Sixxx, hanno esclusivo valore personale. Chiude una bella cover live di 'Jailhouse Rock' di Elvis, tanto per fare un ulteriore passo il più lontano possibile dal precedente style senza però perdere quelle radici rock che la band non ha mai rinnegato. Probabilmente, il disco più conosciuto e rappresentativo dell'act losangelino, il biglietto da visita più oltraggioso, brillante e 'pesante' che i ragazzacci americani abbiano mai sfornato.
THEATRE OF PAIN

MOTLEY CRUE [1985], GLAM METAL
Nella carriera di una rock band il terzo album rappresenta il momento della verità, costituendo un traguardo fondamentale ed il miglior indice di giudizio per la critica. Nel 1985 i Motley Crue, reduci da un disco fantastico e superlativo quale era ‘Shout At The Devil’ e dal primo tour mondiale che li aveva visti di spalla a Ozzy Osbourne e Kiss nelle arene americane e ospiti del "World slavery tour" degli Iron Maiden nel continente europeo, pubblicano ‘Theatre Of Pain’, un disco interlocutorio che vede la band americana operare un certo restyling sia dal punto di vista musicale che da quello del look, da sempre elemento fondamentale del gruppo. Le sessions di registrazione per il terzo platter furono comunque travagliate, a causa della tragedia provocata da Vince Neil, vocalist della band, che completamente ubriaco causò in un incidente stradale la morte dell’ amico e batterista degli Hanoi Rocks Nicholas 'Razzle' Dingley (la faccenda si concluse con la condanna per omicidio nei confronti di Neil che se la cavò, non senza polemiche, con una pesante cauzione da 2 milioni di dollari e circa 200 ore da dedicare ai servizi sociali); il successore 'Shout at the Devil' (1983) segnò dunque una svolta, rimpiazzando la furia cieca che aveva caratterizzato la precedente produzione con un sound sempre hard ma dai giochi chitarristici più patinati ed eleganti: scelta che si rivelò decisamente positiva dal punto di vista commerciale. Fu netto infatti il passaggio dall'hard'n heavy cromato e potente che aveva reso il nome dei Crue celebre nella scena losangelina ad un suono più pacato, levigato, molto più 'radio friendly' e orecchiabile, vicino per certi versi all'hard più melodico e festaiolo di gruppi come Ratt e Bon Jovi. Anche il guardaroba risultò aggiornato e riveduto: non più nera pelle e make-up pseudo satanici, ma sgargianti e colorati costumi di scena. Il pubblico americano parve gradire la svolta, premiando il disco con consistenti vendite (quattro volte disco di platino) e spingendo l’album verso le posizioni alte della classifica di Billboard ( #6 nelle classifiche americane, in chart per ben 72 settimane). 'Theatre of Pain' fu in realtà, un prodotto abbastanza altalenante, con diverse songs davvero mediocri, realizzate con l’evidente compito di allungare il minutaggio di un Lp che nemmeno lontanamente poté rivaleggiare con il suo predecessore. L’analisi circostanziata, ci presenta una apertura da 'party' a carico della trascinante 'City boy blues', in cui Vince Neil si dimostra singer di livello assoluto, con una interpretazione davvero ottima; il lavoro prosegue in crescendo con una cover dei Brownsville Station riveduta e corretta, la bellissima 'Smokin’ in the boy’ s room', dove cori e chitarre si intrecciano in un ritmo vorticoso e scanzonato. Questa traccia, aiutata dall’ heavy-rotation di uno dei video più ironici e sarcastici mai realizzati, divenne un vero e proprio hit, giunto alla posizione #16 delle charts statunitensi e più tardi fregiato del titolo di vero inno generazionale per molti teenagers americani. A seguire, la potente 'Louder than hell', in cui un tellurico Tommy Lee percuote a dovere il suo drum-kit e la sognante power ballad 'Home sweet home', il cui pregevole videoclip risulta, nel 1985, il più richiesto dai giovani telespettatori di MTV. Il disco ci regala poi un altro pezzo di buona fattura come 'Tonight', dall'incedere ammiccante, che però rivela qualche pecca nei cori un pò troppo scontati. Da qui in avanti è purtroppo la mediocrità a prendere piede: 'Use it or lose it' è uno scialbo rock'n roll privo di mordente e coinvolgimento, con un Vince Neil piatto e monocorde, la successiva 'Save our souls' parte bene con una intro solenne ma si perde definitivamente nel bridge centrale troppo ovvio e prevedibile, mentre ancora peggio risulta 'Raise your hands to rock', ballad che plagia clamorosamente 'I wanna rock' dei Twisted Sister (ascoltare per credere: la linea melodica, identica ed il ritornello, musicalmente uguale), rendendo tuttavia il confronto decisamente insostenibile: siamo lontani anni luce dal tiro dinamitardo della Sorella Schizzata. 'Fight for your rights' infine, riesce a rialzare le quotazioni del disco con una canzone finalmente grintosa, con il solito Tommy Lee sugli scudi. La produzione dell'album ad opera di Tom Werman smussa il crudo Crue-sound degli esordi in favore di un hard rock di facile presa, ultra melodico che strizza l'occhio ai padri putativi dell'hard a stelle e strisce come Kiss, Aerosmith ed Alice Cooper, mentre lo stile chitarristico di Mick Mars si fa sempre più bluesy ed elegante, perdendo forse in impatto e potenza. In sostanza, strizzando l’occhio alle classifiche ed inquadrando una band comunque decisa a proseguire sul folle e variopinto sentiero intrapreso quattro anni addietro, 'Theatre of Pain' è l’album che permette ai Motley Crue di valicare definitivamente i confini degli Stati Uniti, esportando il proprio sound in tutto il mondo: un capitolo forse in tono minore, ma ugualmente fondamentale nella carriera di una delle maggiori e più acclamate bands hard rock mai apparse sulla scena. Da Truemetal.it

FALLINF INTO INFINITY

DREAM THEATER [1997], PROGRESSIVE METAL
Dopo l'EP 'A Change Of Seasons', i Dream Theater pubblicano 'Falling Into Infinity', il loro album più controverso. Fu pubblicato il 23 settembre del 1997. Fu registrato agli Avatar Studios di New York. L'impressione che da l'album fin dalle prime canzoni è che il gruppo abbia messo da parte le sonorità tipicamente metal che lo hanno reso famoso. Nel disco ci sono canzoni più immediate, ballad indimenticabili, più accessibili, più orecchiabili. Ma non per questo viene tralasciata la tecnica e la bellezza dei brani. Nell'album per la prima volta nella loro carriera i Dream Theater incidono molte ballad con la classica struttura strofa-ritornello, ma senza mai mettere da parte i tipici assoli strumentali che hanno reso famoso il gruppo. Infatti molti brani dimostrano come le classiche cavalcate progressive non sono mai tralasciate. 'Falling Into Infinity' è un album solare, diretto ma molto profondo. Anche qui si nota come la band riesca ad addentrarsi in territori mai esplorati fin ora e di cavarsela alla grande. Con pezzi unici, melodici ricchi di sfumature. Testi profondi e intimi che ti entrano dentro. Un sound innovativo e attuale. La registrazione è come sempre impeccabile, il suono ottimo. 'New Millenium', 'You Not Me', che in origine doveva chiamarsi 'You Or Me' e' Peruvian Sky' sono tre pezzi da favola, uno più bello dell'altro. In 'New Millennium' i Theater riscrivono trent'anni di progressive-rock con un pezzo spettacolare con le tastiere di Dark Sherinian sempre in primo piano. 'You Not Me' ha un ritmo travolgente e immediato. Anche qui si nota come la band riesce a inserire in una ballad parti progressive. Ispirata ai Pink Floyd, soprattutto le parti di batteria è 'Peruvian Sky', inizialmente con un andamento piuttosto lento, che poi all'improvviso sfocia con un supremo assolo di Petrucci. Anche qui in primo piano le influenze progressive. La ballad più bella del disco è 'Hollow Years', pezzo strappalacrime molto ispirato con la splendida voce di LaBrie che anche nelle parti lente da il meglio di sé. Uno dei brani più riusciti dell'intero album. 'Hell's Kitchen' è un pezzo strumentale fantastico, che da solo vale tutto ciò che di buono si dice del disco. Un andamento e una melodia mai scontata, strumenti che disegnano un'atmosfera sonora unica, indimenticabile e nostalgica. 'Lines In The Sand' un altro pezzo tipicamente progressive. 'Anna Lee' è un'altra ballad struggente. Chiude l'album 'Trial Of Tears' una canzone di 13 minuti scritta dal bassista John Myung. Anche qui si può notare la vena creativa dei Dream Theater che riesce ancora a incntare. Un disco molto bello, struggente e malinconico. Una prova pienamente superata dal gruppo che si conferma una delle band più famose del mondo con canzoni dirette che colpiscono per la loro bellezza pur non avvicinandosi alla precedente linea stilistica del combo progressive.

HEADLESS CROSS

BLACK SABBATH [1989], HEAVY METAL
Headless Cross dei Black Sabbath, registrato nei Soundmill, Woodcray e Amazon Studios nel novembre del 1988, sotto la supervisione di Sean Lynch, fu pubblicato nel 1989. E’ certamente il migliore dei cinque album della band britannica con lo straordinario Tony Martin alla voce. Il sound e le liriche, piene di diavoli, legioni di cavalieri, paura e morte, sono marcatamente epiche come già nel precedente The Eternal Idol. Ciò rappresenta un significativo ed apprezzato cambiamento del genere musicale del gruppo. I primi lavori con Ozzy Osbourne, infatti, sono decisamente doom, mentre quelli del periodo con Ronnie James Dio ricalcano un hard rock che ricorda molto quello proposto dai Rainbow di Ritche Blackmore, band nella quale, peraltro, aveva militato lo stesso Dio. I Black Sabbath con questo disco fanno dimenticare le precedenti deludenti release (Born Again con un improponibile Ian Gillian alla voce e Seventh Star, in realtà progetto solistico di Tony Iommi coadiuvato da Glenn Hughes). L’album si apre con la cupa ed intensa The Gates Of Hell, un breve assolo di tastiere suonato dal session-man Geoff Nichols (ricorda secondo me un po’ il preludio di 2112 dei Rush) che fa da apripista alla title-track vero gioiello dell’intera produzione della band. Pezzo di grande impatto dotato di una sezione ritmica possente e di riffs ispiratissimi che sgorgano dalla chitarra di Tony Iommi. La terza traccia Devil & Daughter si fa notare per l’ottima performance del compianto Cozy Powell alla batteria. When Death Calls è un brano interessante specialmente perché il solo di chitarra è curato dal chitarrista dei Queen, Brian May. Kill In The Spirit World è un altro ottimo pezzo che ha la particolarità di iniziare con una melodia atipica per i Black Sabbath. Call Of The Wind (originariamente chiamato Hero ma modificato perche’ un brano con il titolo uguale era già presente nell’album Rest For The Wicked di, ironia della sorte, Ozzy Osbourne) e Black Moon rappresentano, invece, i punti deboli di questa release: si tratta, infatti, di due pezzi che non incidono più di tanto e scorrono sull’ascoltatore come acqua sul marmo. Bellissima la conclusiva Nightwing, dove Iommi gioca abilmente con due chitarre (acustica ed elettrica), che suggella un album intenso, nel suo complesso di elevato spessore artistico-compositivo, da considerare certamente la release più significativa dei Black Sabbath da Heaven And Hell in poi. Metallized.it
THE ETERNAL IDOL

BLACK SABBATH [1987], HEAVY METAL
The Eternal Idol prende forma durante il periodo più buio dell'intricata storia del sabba nero. Il disastroso tour di supporto a Seventh Star minò nuovamente la credibilità del nome Black Sabbath. Le precarie condizioni fisiche di Glenn Hughes (subentrato a Ian Gillan) permisero alla band di esibirsi solo per una manciata di date caratterizzate, a detta di molti, dalla più totale incapacità di esprimersi su livelli quanto meno accettabili, notizia parzialmente smentita dal sottoscritto in quanto possessore di uno splendido bootleg dove l'ex Purple è autore di una prova degna del suo leggendario nome personalizzando con la sua magica voce canzoni immortali come nella superba versione di 'Heaven And Hell'. Per il prosieguo del tour venne chiamato Ray Gillan allora cantante dei Badlands, che in un primo momento era ritenuto da molti come il più serio candidato a divenire il quinto cantante della storia dei Sabbath. Contrariamente a quanto si credeva, R.Gillan viene estromesso subito dopo la fine del tour facendo rimanere per la seconda volta il solo Tony Iommi unico membro originale del gruppo. Al baffuto chitarrista l’idea di mettere la parola fine alla storia dei Balck Sabbath sembra essere l’ultima delle soluzioni, d'altronde il suo carattere deciso e la consapevolezza che in un modo o nell’altro il sabba nero fosse una sua creatura, resa famosa principalmente dai suoi riff e dal suo modo di intendere la musica, comunque ottima ed originale indipendentemente da chi ci fosse dietro il microfono, gli diede la forza di andare avanti, non arrendendosi davanti alle numerose difficoltà, consapevole che l’impresa di riuscire a trovare un cantante che riuscisse ad essere all’altezza dei suoi predecessori era veramente ardua. Contrariamente a quanto avvenne per il reclutamento dei precedenti singer, questa volta Iommi sorprende tutti chiamando lo sconosciuto Tony Martin già cantante degli Alliance, autori solo di qualche esibizione live ma mai arrivato al debutto. Si può affermare senza timor di smentita che questo umilissimo singer ha contribuito in maniera determinante al rilancio del nome Black Sabbath, rilancio che comunque non avviene con questo The Eternal Idol, ma col successivo Headless Cross. Se il precedente Seventh Star poteva essere definito un classico disco metal con al suo interno numerose sfumature Hard Rock ed in qualche caso addirittura blues, con The Eternal Idol si torna prepotentemente a parlare di heavy metal solido e quadrato con qualche caso come la title track dove si possono sentire addirittura alcuni richiami alla storica 'Black Sabbath' . Il disco manco a dirlo è costruito attorno ai granitici riff di Iommi ma questa è volta la stupenda voce di Martin che impreziosisce il classico lavoro del riff maker per eccellenza con una prestazione esemplare dove in alcuni casi potrebbe ricordare quella dell'inarrivabile R.J.Dio. Il lavoro è aperto da un arpeggio elettrico che anticipa il riff tagliente di Shining. L'entrata di Martin sembra descrivere un racconto del terrore mentre l'indovinatissimo ritornello vi si stamperà nella testa al primo ascolto. Per 'Shining' fu girato anche un bellissimo video dalle tinte oscure che potete reperire nella seconda parte di The Story Of B.S. La palma di miglior canzone spetta sicuramente alla title track, spettacolare esempio di atmosfera infernale ricreata in musica. Caratterizzata dall’ennesimo riff – mammuth dall’andatura doom, Eternal Idol va segnalata soprattutto per la tenebrosa prestazione vocale di Martin che riesce nella difficilissima impresa di non far rimpiangere gli ex singer sabbathiani. Il disco alterna schegge d’acciaio a pezzi più cadenzati come Nightmare e la bellissima Ancient Warrior arricchita da una superlativa prova vocale del nuovo entrato. Heavy Metal puro venato di epico si respira durante l’esecuzione dall’altrettanto valida Glory Ride piccola gemma dimenticata nell’ormai foltissima discografia della band. Ottimo l’imponente riff portante che si placa con l’arrivo di un cantato simil narrato che riprende lo schema compositivo di Heaven & Hell accelerandone l’accompagnamento. Born To Loose e Lost Forever rappresentano gli episodi più classicamente metallici, caratterizzate entrambe da una struttura abbastanza semplice incentrata su di un riffing lineare ma tagliente come un rasoio. Di certo questo platter non ha segnato la storia come il primo periodo del sabba né tanto meno è accostabile a capolavori come Heaven & Hell o a dischi stupendi come Mob Rules ed Headless Cross, The Eternal Idol va letto semplicemente come un disco di Heavy Metal di alta qualità. Truemetal.it
BLACK SABBATH DISCOGRAFIA COMMENTATA

DISCOGRAFIA COMMENTATA. Black Sabbath (1970). L'heavy metal nasce qui: è il 1970 e le oscure melodie dei Sabbath iniziano la leggenda del metallo attraverso una musica potente, pesante e cupa come mai si era udito prima. Un macigno cadenzato che sconvolse la cultura e la critica musicale dell'epoca, conquistando però i favori dei più giovani. A spiccare al fianco dei riff rocciosissimi di Tony Iommi è la voce di Ozzy Osbourne, nasale e sgraziata. Paranoid (1970). Nello stesso anno del debutto, i Black Sabbath tornano con l'epocale Paranoid. Dimostrando di saperci fare anche con testi meno occulti e oscuri, ma sopratutto con pezzi dai ritmi più dinamici e non solo ossessivi e cadenzati. Il riffing di Iommi si dimostra molto ispirato, la band è in forma stellare e sforna un disco epocale nella storia del rock. Master of Reality (1971). Dopo aver forgiato l'heavy metal col primo album, e perfezionatolo col secondo, ampliando le liriche e variegando le ritmiche, i Black Sabbath danno alla luce la sintesi perfetta dei loro primi due dischi: un incontro stellare tra il doom potente e marcio del debut e la dinamicità lirico-musicale del sequel. Musicisti in forma straripante, con i riffs granitici e gli assoli melodici di Iommi sugli scudi. Volume IV (1972). Nuova pietra miliare con l'introduzione di elementi progressive rock al collaudato heavy-doom della band britannica: maggior melodia e armonia del riffing rendono il sound dei black Sabbath un pò meno oscuro e più tendente all'hardrock. Non mancano le polemiche e le accuse su alcune liriche. Sabbath Bloody Sabbath (1973). Il quinto album è una contaminazione tra il suono duro e pesante tipico del gruppo con atmosfere quasi progressive.: una svolta storica, dovuta all'introduzione di organi e sinttetizzatori, che permette al combo inglese di effettuare un passo decisivo verso la consacrazione e la completa maturazione stilistica, perchè invece di fossilizzarsi su uno stile di successo i Sabbath hanno saputo evolversi e aggiornarsi senza perdere il contatto con le proprie radici. Sabotage (1975). I Black Sabbath proseguono nella loro evoluzione musicale con un album che diventa un cult pur dividendo i fan, un lavoro a metà tra hardrock ed heavy metal rispetto ai predecessori. Technical Ecstasy (1977). Primo passo falso, causa un sound più semplice, commerciale ed elettronico. I fan non sono contenti, e inizia il declino dell'era Ozzy. Never Say Die (1978). Sulla scia di Technical Ecstasy, il disco dell'addio definitivo di Ozzy Osbourne ai Sabbath non riporta la band ai suoi livelli più gloriosi. Heaven & Hell (1980). Con l'arrivo al microfono di Ronnie James Dio i Black Sabbath tornano ai loro fasti più gloriosi. Heaven And Hell è infatti un concentrato di heavy metal epico e pomposo, degno della miglior tradizione sabbathiana ma con testi basati sul songrwriting fantasy di Dio. La voce teatrale del singer conferisce un tono epico e medievale al lavoro. Mob Rules (1981). Il secondo album dei Black Sabbath con Dio alla voce si mantiene in linea con il celebre predecessore Heaven And Hell: heavy metal di qualità. Born Again (1983). Dopo due soli dischi, anche Dio lascia i Black Sabbath. Con l'ex Deep Purple Gillan la band inasprisce i suoni, ma la produzione di Born Again non è il top. Seventh Star (1986). Salutato anche Gillan, la storia continua con un capitolo sottotono e vari problemi. Come quelli alla voce del singer Glenn Huges. The Eternal Idol (1987). Con Tony Martin alla voce, i Black Sabbath rispolverano le sonorità tipiche dei primissimi album, e The Eternal Idol rappresenta un buon passo avanti per la band. Headless Cross (1989). Continua la risalita, con un altro ottimo album. In una canzone viene ospitato anche Brian May dei Queen. Tyr (1990). Presenta delle sonorità simili al precedente Headless Cross ricevendo un ulteriore apporto di tastiere: sono ormai lontanissimi i Sabbath degli esordi. Dehumanizer (1992). Iommi riunisce la vecchia formazione con Dio alla voce, e i Black Sabbath partoriscono uno dei loro lavori più duri! Cross Purposes (1994). Dopo i nuovi problemi con Dio, a cantare per i Sabbath torna Tony Martin. Album ancora una volta potente ma forse sottovalutato dalla critica musicale. Forbidden (1995). Dopo diversi buoni album i Black Sabbath sfornano il deludente Forbidden. E' il loro ultimo studio-album.

CAPITOLO SECONDO: DAL 2000 AD OGGI
Tuttavia i Metallica stavano per cambiare. Un nuovo look (jeans, capelli corti) e soprattutto il nuovo sound con cui nel 1996 consegnano 'Load' ai fan esterrefatti segnano l'inizio di un decennio sottotono. I brani, ancora introspettivi, segnano un discostamento dalle vecchie care sonorità thrash, ripiegando piuttosto su un hard rock classico con giri di chitarra vicini al blues. Le canzoni principali sono 'Ain't my Bitch', 'Until it sleeps', 'Mama said' ed 'Hero of the Day', melodiche ed orecchiabili nel loro semplice fatturato hard rock. Come se non bastasse, appena un anno dopo la band pubblica 'Reload' con gli scarti del lavoro precedente: 'Fuel' e 'The Unforgiven II' sono buone tracce, ma non certo all'altezza dei vecchi Metallica. A fine millennio, la formazione americana decide di lanciarsi in un paio di nuove avventure; nel 1998 registra 'Garage Inc', un disco di cover che ripesca alcune registrazioni del 1987 completate da nuovi pezzi che rendono omaggio a quelle formazioni storiche che hanno contribuito a forgiare il background dei Four Horsemen. Nel 1999 i four horsemen registrano un live con l'orchestra sinfonica di San Francisco, invitati direttamente dal direttore Michael Kamen: vengono rianrrangiati pezzi classici e nuove song in versione orchestrale, e il risultato è maestoso. L'avvento del 2000 porta però nuove grane, perchè Hetfield entra in clinica per combattere l'alcoolismo nel quale era piombato nella seconda metà dei Nineties. Inoltre Jason Newsted lascia la band per dissidi mai chiariti, e i Metallica sfiorano la fine. James Hetfield esce vittorioso dalla clinica, e dopo qualche anno di pericoloso sbandamento i Metallica pubblicano nel 2003 'St Anger'. Al basso arriva Robert Trujillo, che però non è presente al momento delle registrazioni, effettuate col produttore Bob Rock. Il disco, trainato dalle massicce 'Frantic' e 'St.Anger', vorrebbe dar l'idea di un lavoro groove, registrato in garage; è un lavoro ancora deludente, per molti, non certo l'atteso ritorno al sound originario, ma almeno segna una riscoperta delle sonorità massicce, aggressive, non più semplicemente rock. Alcuni riff e diversi spunti in velocità sono definibili thrash, anche se il lato qualitativo della produzione non è dei migliori. Gli assoli di chitarra sono  pressocchè inesistenti, la batteria è troppo spartana, i testi scontati e troppo ripetitivi: sono i difetti più evidenti del platter. Nel 2006, anno del ventennale di 'Master Of Puppets', la band inizia a rispolverare i classici più datati riproponendo per intero, on the road, il leggendario album datato 1986; iniziano inoltre a girare le voci su un presunto ritorno alle origini nel sound della band, e l'attesa per il nuovo studio album si fa via via più intensa tra i fans e gli appassionati. Previsto per la fine estate 2007, il nuovo lavoro dei Four Horsemen viene invece posticipato a metà 2008 ed è destinato a dividere nuovamente critica e aficionados. Il nuovo 'Death Magnetic' [2008] ha segnato il tanto atteso ritorno al sound delle origini, thrash purissimo con killer tracks del calibro di 'All Nightmare Long', 'My Apocalypse' e altre. E nell'aprile 2009 la band è entrata nella Hall Of Fame della musica rock, come meritato premio ad una carriera da enciclopedia. In tale occasione, la band ha ritirato il premio, presentandosi sul palco per tre canzoni assieme all'ex bassista Jason Newsted. Il 2010 è stato un anno molto impegnativo per i Four Horsemen, impegnati in un'incssante serie di date relative al 'Death Magnetic Tour', e a inizio 2011 sono iniziate a girare voci di un ipotetico nuovo album, annunciato più come 'progetto segreto' che come vera e propria release Metallica al 100%. A fine aprile è giunta la conferma di Rick Rubin come produttore, cosa che ha destato al tempo stesso curiosità e delusione tra le diverse fazioni di sostenitori web: da un lato quelli che, soddisfatti di 'Death Magnetic', si aspettano un disco ancor più fedele al vecchio spirito thrash e confidano nelle capacità dell'ex tecnico di 'Raining Blood', dall'altra quelli che sono rimasti delusi dalla resa sonora del precedente album dei Metallica e che temono il ripetersi di tale situazione.
A sorpresa, a metà 2011 viene annunciata una collaborazione col cantautore americano Lou Reed: mentre fans e critica iniziano già a torcere il naso, però, la band lascia intendere che si tratta soltanto di un progetto estemporaneo e che presto entrerà in studio per il nuovo album ufficiale che, stando alle parole di Kirk Hammett, 'sarà più duro di Death Magnetic'. 'Lulu', questo il titolo del featuring con Reed, si rivela in effetti un prodotto noioso e molto deludente, che scatena aspre critiche nei confronti della band, anche se il fatto di non trattarsi di un vero e proprio disco del celebre moniker californiano aiuta ad accuire le polemiche. I trent'anni di vita della band vengono celebrati con una serie di concerti, culminati nella serata dell'11 dicembre a San Francisco, la città dove tutto iniziò. Curioso vedere, per l'occasione, Dave Mustaine salire sul palco e suonare 'Hit The Lights' con gli ex rivali, chiudendo per sempre decenni di attriti e rivalità. Oltre al leader dei Megadeth, anche altri esponenti dei Metallica hanno imbracciato gli strumenti per questo speciale evento: trattasi del primo bassista, Ron Mc Gouvney, del misterioso chitarrista colored Lloyd Grant, e del vecchio Jason Newsted. A metà dicembre viene rilasciato in formato digitale un EP contenente quattro pezzi, scartati dalle session di Death Magnetic ed intitolato 'Beyond Magnetic': pur essendo pezzi di qualità non trascendentale, questi hanno riscosso un parere positivo presso i fans, che li hanno considerati un tentativo di dimenticare quanto prima 'Lulu' per rilanciarsi in attesa del nuovo studio album vero e proprio. Il finale del 2011 vede la band impegnata in quattro show nella natia San Francisco, per celebrare i trent'anni di vita rispolverando tutto il vecchio materiale. Per i pezzi più tirati della Bay Area-era, Dave Mustaine calca finalmente il palco con gli ex compagni, esaudendo un suo desiderio remoto e seppellito da anni di astio e conflitti; si rivedono anche Newsted e due membri della band finiti nel dimenticatoio come Ron Mc Gouvny e il colored Lloyd Grant. Molto emozionante é stato rivedere Hetfield, munito persino della vecchia cartucciera, e Mustaine suonare fianco a fianco vecchie schegge come 'Phantom lord' o 'Hit The Lights'. Ospiti speciali provenienti da tutto il mondo portano ai Metallica il tributo dell'heavy metal: Byff Byford, Rob Halford, Ozzy Osbourne ed altri hanno infatti partecipato con cover e tributi a questo importante avvenimento.


METALLICA DISCOGRAPHY

1983 KILL'EM ALL 1984 RIDE THE LIGHTNING 1986 MASTER OF PUPPETS 1988 ...AND JUSTICE FOR ALL 1991 METALLICA 1993 LIVE SHIT 1996 LOAD 1997 RELOAD 2003 ST. ANGER 2008 DEATH MAGNETIC

DISCOGRAFIA COMMENTATA
HEAVY METAL FOR ALL
Discografia commentata. 1983 Kill'Em All: I Metallica debuttano nel 1983, di fatto iniziando il thrash metal. Un disco grezzo, velocissimo e innovativo che è un vero cazzotto nei denti! riff orgasmici a rincorrersi, assoli contorcenti e abrasivi, ritornelli da urlare in coro: la Bay Area esplode le sue micce più frenetiche. 1984 Ride The Lightning: Dopo il violentissimo Kill'Em All, i Metallica tornano a colpire con un lavoro più tecnico e maturo. Ride The Lightning è l'evoluzione naturale della band, un viaggio all'interno delle sofferenze umane sempre a folli ritmi thrash, ma più ragionati ed elaborati. 1986 Master Of Puppets: 'Master Of Puppets' passa alla leggenda senza fermarsi dalla storia. Il disco è un'enciclopedia concentrata di metallo rovente, un'opera completa e piena di sfaccettature lirico-musicali. La potenza tellurica e la cupezza dei toni la fanno da padrone: la velocità thrash riveste ancora un ruolo fondamentale e si sposa terribilmente bene con le strutture sempre più complesse e travolgenti della band californiana. 1988 And Justice for All: Dopo Master Of Puppets, i Metallica colpiscono con un album potente e di livello tecnico elevatissimo. Attaccando il sistema. 1991 Metallica: I quattro cavalieri abbandonano il thrash frenetico, cupo e potente da loro stessi generato e ripiegano su soluzioni tecniche semplificate. Queste sonorità portano a canzoni dirette e più commerciabili. 1996 Load: I Metallica abbandonano il thrash e l'heavy per gettarsi in un hardrock malinconico con venature country e blues. La nuova dimensione della band delude i fans. 1997 Reload: Il dopo Load è un altro Load: i Metallica che suonano un hard rock-blues che non soddisfa affatto i fans tradizionali dei quattro cavalieri. 2003 St.Anger: Dopo gli esperimenti rock/blues di Load-Reload, e la riabilitazione di James Hetfield, i Metallica tornano con un disco più aggressivo ed ispirato nel riffing e nelle partiture ritmiche al vecchio thrash, anche se deludente nella produzione e inficiato da copiosi elementi nu-metal, oltre che dall'assenza di guitar solos. 2008 Death Magnetic: Il ritorno dei Metallica al thrash degli esordi è un album potente e veloce che riporta i consensi tra i fans dei quattro cavalieri: composizioni lunghe, articolate e con riff discreti, assoli di chitarra e accelerazioni thrashy.

LA GRANDE STORIA DEI METALLICA
THE FOUR HORSEMEN


METALLICA NEWS

FLASH.Dieci punti per addentrarsi nell'universo dei Metallica. IL RITORNO. Attesa spasmodica per il ritorno sulle scene della band più grande di sempre. INTERVISTA. Hetfield su 'Death Magnetic'. Il frontman dei Metallica a ruota libera su presente, passato a futuro: 'il nuovo album vogliamo che sia un nuovo Master Of Puppets! E' un ritorno al passato, alle sonorità che più amiamo, arrangiate in un contesto attuale'. INTERVISTA. Lars Ulrich, 'Uno dei punti prefissatici lavorando con Rick Rubin era di distillare l'essenza del nostro suono degli anni '80. James è il fratello che non ho avuto. Vogliamo restare in tour fino al 2010 e suonare ovunque'. LIVE REPORT: Bologna 22 luglio 2008. I Quattro Cavalieri tornano nel Belpaese con una devastante serata dedicata alla storia, con una setlist da pelle d'oca. LIVE REPORT: Milano giugno 2009: il tour di 'Death Magnetic' giunge in Italia. NEWS. Annunciato un tour che vedrà sullo stesso palco i giganti del thrash ottantiano: Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax! BIG FOUR OF THRASH [16 giugno 2010]. Accolto come manna dal cielo da una miriade di metalhead nostrani l’edizione Svizzera del Sonisphere Festival, grazie ad una line up da urlo, è stata da subito incensata come uno dei più grandi ed imperdibili eventi dell’estate 2010. METALLICA, PROGETTO SEGRETO. Kirk Hammett: 'Vogliamo registrarlo in due settimane. Doveva essere a marzo, ma abbiamo spostato a maggio. Non voglio svelarvi troppo, ma non è un disco dei METALLICA al 100%. E' un progetto in studio, mettiamola così. Senza andare troppo a fondo, è più un progetto discografico che un album dei METALLICA': PROGETTO SEGRETO E NUOVO DISCO! Kirk svela l'entità del progetto segreto: un disco di collaborazione col cantautore rock Lou Reed. Intanto Rick Rubin afferma che la band sta per entrare in studio per iniziare le registrazioni del nuovo disco [21.06.2011]. LIVE REPORT: BIG FOUR OF THRASH [06 luglio 2011]. Finalmente in Italia il tour dei quattro pilastri del thrash: live report da quel di Milano.

BIOGRAFIE: HETFIELD, ULRICH , BURTON, HAMMETT

1983 - KILL'EM ALL
1991 - METALLICA
1996 - LOAD
1997 - RELOAD
2003 - ST. ANGER



CANZONI TRADOTTE E COMMENTATE
Hit The Lights, The Four Horsemen, Motorbreath, Jump In The Fire, Whiplash, Phantom Lord, No Remorse, Seek & Destroy, Metal Militia, Fight Fire With Fire, Ride The Lightning, For Whom the Bell Tolls, Fade To Black, Trapped Under Ice, Escape, Creeping Death, Battery, Master of Puppets, The Thing That Should Not Be, Welcome Home [Sanitarium], Disposable Heroes, Leper Messiah, Damage Inc, Blackened, And Justice For All, Eye of The Beholder, One, The Shortest Straw, Harvester of Sorrow, The Frayed Ends Of Sanity, To Live Is To Die, Dyers Eve, Enter Sandman, Sad But True, Holier Than Thou, The Unforgiven, Wherever I May Roam, Don't Tread on Me, Trough The Never, Nothing Else Matters, Of Wolf And Man, The God That Failed, My Friend of Misery, The Struggle Within, Ain't my Bitch, 2x4, The House Jack Built,Until it Sleep, King Nothing, The Hero of the Day, Bleeding Me, Cure, Poor Twisted Me,Wasting My Hate, Mama Said, Torn Within, Ronnie, The Outlaw Torn, Fuel, The Memory Remains, Devil's Dance, The Unforgiven II, Better Than You, Slither, Carpe Diem BabyBad Seed, Where The Wild Things Are, Prince Charming, Low Man's Lyric, Attitude, Fixxxer, Frantic, St. Anger, Some Kind of Monster, Dirty Windows, Invisible Kid, My World, Shoot Me Again, Sweet Amber, Unammed Feeling, Purify, All Within My Hands, That Was Just Your Life, The End of the Line, Broken Beat & Scarred, The Day That Never Comes, All Nightmare Long, CyanideThe Unforgiven III, The Judas KissMy Apocalypse.




CAPITOLO SECONDO: DAGLI ANNI '90 AD OGGI

La difficile scelta del sostituto di Bruce Dickinson investì l'ex Wolfsbane Blaze Bayley, metallaro sfegatato e fans fedele della band. che si era dunque trovato di fronte ad un bivio: accettare la chiamata della metal band più grande del mondo o continuare ad essere la bandiera di un ensamble nel quale era cresciuto e per il quale aveva distillato ogni goccia di adrenalina, ma pur sempre di livelli inferiore: accettare una proposta irripetibile come quella della vergine di Ferro fu inevitabile. Nonostante tutta la sua energia e la sua passione, i due album con lui al microfono ['The X Factor' del 1995 e 'Virtual IX' del 1998] non soddisfarono appieno i fan, non tanto per il loro valore effettivo quanto per un'irrazinale senso di nostalgia nei confronti di chi aveva guidato i Maiden per oltre dieci anni. Furono lavori più cupi e sempre molto epici, ma che la critica definì poco ispirati: la realtà fu però ben diversa, perché proprio in quegli album i Maiden si trovarono a variare il loro sound in ottica più oscura e negativa, sospinti dalle emozioni negative vissute da Steve harris a causa di un difficile divorzio e della morte del padre. Il migliore dei due dischi fu sicuramente il primo, 'The X Factor', impreziosito dalla lunga e maestosa 'Sign Of The Cross', ispirata al romanzo di Umberto Eco 'Il Nome Della Rosa' e introdotta da autentici canti gregoriani. Nell'intera tracklist spiccano diversi pezzi validi come 'man On The Edge', 'Lord of The Flies' ed altri, che si possono considerare a pieno merito dei grandi classici di questo particolare periodo storico per la band inglese. Chi era abituato agli Iron Maiden scintillanti, ariosi e maestosi degli anni precedenti, ora si trovava dinnanzi una band che cercava di sperimentare, più malinconica e decadente, ma che faceva sempre bella mostra delle proprie caratteristiche storiche, come i guitar solos ukltra melodici, veloci e trascinanti, i cori epici e i refrain trascinanti: eppure, per troppa gente con i paraocchi non fu abbastanza. Va detto che il momento vissuto da tutto il panorama heavy metal, in forte declino nel corso dei Nineties, non aiutava l'inserimento di Blaze, che dunque si trovò a dover fronteggiare un ruolo delicatissimo in un momento poco idilliaco: anche dopo il buon Virtual XI, ancora cupo e potente, Bayley non fu mai pienamente accettato dai fans, e se ne andò distrutto e depresso. Occorreva un rilancio in grande stile per le vecchie leggende dell'heavy metal. Già nel 1999 iniziarono a correre voci di un ritorno del grande Bruce Dickinson, che nel corso degli anni era stato accostato di continuo alla sua ex band tra polemiche e sassolini tolti a denti stretti in ogni intervista. Presto fatto: il figliol prodigo stava per tornare finalmente a casa dopo sette anni, e l'attesa dei fans era fortissima.
Dickinson accorse al capezzale della Bestia nel 2000 e preparò un rilancio stellare, a modo suo. Con un tour le cui canzoni furono scelte dai fan, la band tornò a proporre pezzi storici in un tour studiato a tavolino per riconquistare i propri seguaci. Nello stesso anno uscì il nuovo album 'Brave New World', che si avvicinava alla ritmica progressiva abbandonata nel 1988 con 'Seventh Son'. Trainato da pezzi come 'Wicker Man', 'Brave New World', e dalla ballad 'Blood Brothers', l'album fu un successo, seguito dal maestoso Rock in Rio, una performance fantastica davanti a 250000 persone esultanti. La Bestia era tornata, con le sue melodie galoppanti e pezzi stratificati come non mai, articolati, epici e spesso introdotti da parti lente ed arpeggiate, solenne preludio all'esplosione di riff, energia e meravigliose sezioni strumentali che conseguiva. Nel 2003 uscì un nuovo album, 'Dance of Death', caratterizzato da canzoni solenni, epiche cavalcate, cori e ritmiche autoritarie, un sound elaborato e ricco di influssi di hard'n'heavy classico: la title track tuona marziale, una danza della morte con feroci e repentini cambi di ritmo che non si vedevano dai tempi dei primi Maiden, e diventa un nuovo classico, assieme a nuovi brani dinamici e alla ballad 'Journeymen', completamente acustica e sinfonica. Un nuovo vento di successo soffiava per una band nuovamente grandiosa come ai bei tempi. Ancora una volta, gran merito va all'infinito Dickinson oltre che ai folgoranti tre chitarristi e all'infaticabile Steve Harris: il singer é mente e braccio, straordinario leader sul palco come in studio, attrazione sfavillante di una band che si rilancia nella storia. Il nuovo tour riscontrò un successo ancor più oceanico; tra progetti benefici, premi vari e concerti memorabili, i Maiden rilasciano nel 2005 'A Matter Of Life And Death', registrato praticamente dal vivo, con la band chiusa in una stessa stanza, a suonare tutti insieme, sempre più marcate la componente progressive e l'articolazione dei brani all'interno del contesto heavy tipico del sestetto. Il successo, la gloria e la consapelvolezza di essere un'icona della musica dura hanno ormai definitivamente incrociato i loro cammini con quelli della Bestia tornata a splendere girando il mondo in tour megagalattici: nel 2008 è stata rivisitata on the road la scenografia egiziana dei tempi di Powerslave, un evento epocale con tanto di scaletta old style che porta Eddie e compagni a suonare a tutte le latitudini, compreso il Gods of Metal.

L'attesa per una nuova release griffata Iron Maiden si fa frenetica sul finire del decennio, e nel 2010 la band dà in pasto alla band 'The Final Frontier', che accentua ancor più l'influenza progrock della band inglese, innestate in aprtiture complesse ed articolate, classica vestigia delle sonorità metal da loro stessi inventate. La critica e i fans storcono un pò il naso, ma nonostante tutto il disco presenta ancora un buon ceppo di canzoni emozionanti e ricche di spunti niente male. Dopo il tour mondiale, che tocca nel 2011 anche l'Italia ed Udine, i sei inglesi si apprestano ad imbastire una serie di date inclinate alla riproposizione di setlist e scenografia della 'Seventh Son'-era; la Vergine di Ferro, insomma, resta una vera e propria istituzione metallica: perchè le leggende non muoiono mai. IRON MAIDEN AL GODS OF METAL 2008.

DISCOGRAFIA COMMENTATA
Iron Maiden, 1980: Nel 1980 gli Iron Maiden, guidati dal ribelle Paul Di Anno, debuttano con un disco rivoluzionario. Sound è grezzo, diretto, veloce ed immediato: un mix tra l'heavy metal dei Judas Priest e il punk inglese, con una marcata influenza hardrock ed un occhio di riguardo speciale per la melodia. Killers, 1981: Killers è il successore di 'Iron Maiden', ed è un altro disco fresco e potente che rilancia l'heavy metal in piena nwobhm. Rispetto al debut album, una scaletta meno ricca di futuri classici da antologia. The Number Of The Beast, 1982: Dietro al microfono arriva l'istrionico Bruce Dickinson, e la band abbraccia sonorità più melodiche, brani complessi sia nella tecnica che nelle liriche, un'attitudine meno punk e molto più power oriented danno una caratura internazionale alla Vergine di Ferro, che attraverso intricate trame chitarristiche e le celebri 'galoppate' ultra melodiche a due chitarre si innalza subito nella leggenda. Basso martellante e aggressività di fondo completano il capolavoro. Piece Of Mind, 1983: La Vergine di Ferro sperimenta un sound più morbido e ancor più melodico, con le chitarre suadenti e la voce di Bruce Dickinson a impreziosire il tutto: prosegue la splendida carriera della band inglese che ha fatto resuscitare l’heavy metal. Powerslave, 1984: 'Powerslave' è un album gioiello, un insieme di brani di gran livello lirico e compositivo in cui tecnica, melodia, solennità e robustezza si sposano alla perfezione; ripercorrendo la storia a ritroso con epica ed enfasi ineccepibili, gli Iron Maiden ribadiscono la loro supremazia in ambito heavy metal classico. Somewhere in Time, 1986: Album caratterizzato da nuove sonorità apportate dalle tastiere, che modernizzano l'heavy metal degli inglesi conferendogli un taglio ancor più fresco e dinamico nelle splendide melodie ultra cristalline. Qualche fan mugugna. Seventh Son of a Seventh Son, 1988: Il nuovo Iron Maiden dal punto di vista della modernità si mantiene sulla linea del predecessore ma rimarca anche un inasprimento del sound della band, che aumenta in potenza e si spinge fino ai limiti del progressive metal. E' l'ultimo grande disco degli Iron Maiden from '80. No Prayer For The Dying, 1990: Uno dei dischi meno riusciti degli Iron Maiden, anche se segna un importante ritorno ad un sound più essenziale e stradaiolo come quello degli esordi. Per molti, il primo passo falso dell'ensemble britannico. Fear of The Dark, 1992: Ricollegato ai precedenti capolavori epici della band, 'Fear Of the Dark' è di nuovo rricco di galoppate, fronzoli e melodia, pur con qualche brano secondario. Nonostante il successo, Bruce Dickinson lascia la band per la sua carriera solista. The X Factor, 1995: La pesante eredità di Dickinson viene raccolta dall'ex Wolfsbane Blaze Bayley, che porta negli Iron Maiden una veste più oscura e cupa. Il risultato divide i fans e aggiunge alla ricca discografia della band inglese qualche grande canzone epica e più sinistra del solito. Virtual IX, 1998: Il successore di 'X Factor' è forse troppo frettoloso e confuso, con brani ancora sinistri ma che avrebbero potuto suonare meglio. Di lì a poco Bayley lascerà la band favorendo il ritorno di Bruce Dickinson. Brave New World, 2000: Tornano Dickinson e Smith, e gli Iron Maiden rivivono la Golden Age: la band torna ai livelli che la sua storia merita, con la grande melodia e gli eclettici incroci di chitarra, merito del lavoro in simbiosi di ben tre guitar heroes. Dance of Death, 2003: Il miglior disco degli Iron Maiden dal 1988 ad oggi è Dance Of Death, vario, veloce, più maturo e articolato. Bruce Dickinson assoluto protagonista dell'album con una grande interpretazione vocale e il suo carisma innato. A Matter of Life and Death, 2006: Album che fa emergere le radici rock progressive nel consueto ed articolato sound metallico degli Iron Maiden: un taglio classico in stile anni '70 e '80, ancora potente e ricco di trame complesse e dinamiche. The Final Frontier, 2010: Album ancora influenzato dal progrock, intriso di tutte le componenti cardine del Maiden-sound moderno: avvii arpeggiati, pezzi lunghi, tanti momenti epici, la consueta melodia.
BIOGRAFIE: STEVE HARRIS (basso), BRUCE DICKINSON (voce) ADRIAN SMITH (chitarra) NICO MC BRAIN (batteria). 10 PUNTI per capire: Perché i Maiden sono così famosi e importanti? A tutto Maiden: tutte le curiosità e i segreti del combo inglese! Anche Repubblica esalta gli Iron Maiden. La musica degli anni Ottanta che ritornano non è tutta nei vecchi successi di quelli che allora erano ragazzotti algidi in camice di pizzo e paffute dance star cotonate. Uno dei fenomeni, musicali ma soprattutto sociologici, di quel periodo è il metal. O meglio, l'heavy metal, mutazione stilistica e iconografica del classico hard rock dei 70's. Nuovo album in arrivo: Parla Adrian Smith: 'ci sono davvero molti modi in cui potremmo affrontare il nostro prossimo album. Sarebbe bello avere già le canzoni pronte e passare dal tour allo studio'. IL PUNTO in casa Iron Maiden dopo l'uscita di 'The Final Frontier'.