IRON MAIDEN [1982], HEAVY METAL
Il 1982 è l'anno della svolta nella carriera degli Iron Maiden. Forse a molti fans sarebbe piaciuto continuare ad ascoltare i Maiden cattivi e sporchi del Ruskin Arms, ma il destino porta una nuova veste al combo inglese. 'The Number Of The Beast' diventa l'album destinato a dividere in eterno chi appoggiava lo stile punk più duro dei precedenti due album da chi invece amerà con più trasporto il sound epico e tecnico che la band andrà ad abbracciare da quel momento. L'allontanamento forzato del rocker duro e puro Paul Di Anno porta dietro al microfono Bruce Dickinson, dotato di una voce molto più potente e poliedrica ma soprattutto grande professionista e colto paroliere: doti queste che permetteranno alla band di fare il salto di qualità decisivo. Sonorità più melodiche, brani complessi sia nella tecnica che nelle liriche ed un'attitudine power oriented danno una caratura internazionale alla Vergine di Ferro, che assume così un'impronta di stampo classic heavy sempre più marcata. I cristallini fraseggi di chitarra, le galoppate maestose, l'energia e la melodia squisita che sgorga fluida dalle sei corde vanno a definire in maniera sempre più marcata il sound tipico del quintetto inglese, forte di una produzione pulita e nitida davvero moderna: le composizioni si stratificano e si fanno sempre più maestose, intricate ed elaborate, incrociando riff e assoli ancora più magniloquenti e squillanti che in passato. Il risultato è questo disco che lascia un segno leggendario, andando a rivestire il ruolo di oggetto di culto nell'immaginario collettivo dei metallers militanti. E' con esso che gli Iron Maiden si consacrano alfieri e portabandiera delle milizie dell'heavy metal, diventandone un simbolo vivente. Un po' come la copertina dell'album, raffigurante il vecchio Eddie che sovrasta un diavolo sghignazzante. Dopo l'introduttiva 'Invaders', pezzo veloce e dinamico, il disco presenta una ballata complessa e angosciosa, 'Children Of The Damned', che sfocia in un crescendo finale spaziale, nel quale gli assoli di chitarra e l'architettura strumentale toccano livelli spettacolari per melodia e articolazione: un chiaro esempio della progressione tecnica effettuata dalla band, anche nell'arco di uno stesso pezzo. Con 'The Prisoner' si entra nel vivo dell'album: trascinante e pimpante, il brano è ben incalzato da '22 Acacia Avenue', sequel di quella 'Charlotte The Harlot' che nel primo disco della band iniziava a narrare la saga della prostituta Charlotte: entrambi i pezzi confermano, ancora una volta, l'accresciuta abilità tecnica che permette agli Iron Maiden di gettarsi a capofitto in trame labirintiche ultra melodiche. La title track, the Number Of The Beast, è uno dei capolavori assoluti non solo dell'act britannico, ma di tutto il genere metallico. Introdotto da un brano tratto dall'Apocalisse, il pezzo si delinea sinistro con il suo riffing inconfondibile, prima di aprirsi in una cavalcata trascinante nella sua potente melodia, con tanto di agguerrito refrain, nel quale viene ripetuto il numero 666. Dickinson prende per mano l'ascoltatore e lo trascina in un mondo misterioso e oscuro, prima di esplodere in una galoppata epica e travolgente, sorretta dalle belle melodie di Murray e Smith, la coppia d'asce che si tuffa in un assolo fibrillante e cristallino tutto da godere. In realtà il testo parla di un sogno in cui il bassista Steve Harris assisteva ad una messa nera, ma il bigottismo dei perbenisti partorisce le definizioni sataniste che da allora verranno prontamente affibbiate un po' a tutte le band heavy metal. Il riff portante e le diramazioni musicali che compongono la traccia, per quanto semplici ed immedate, sono un vero e proprio patrimonio storico, e difatti il pezzo è immediatamente diventato uno dei cavalli di battaglia della band. La doppietta che chiude l'album, skippata l'onesta 'Gangland', è di grandezza assoluta, ed è carissima ad ogni fan di Harris e soci. 'Run To The Hills' parla delle lotte tra inglesi e Nativi d'America ai tempi della colonizzazione, ed ha un incedere ritmato e coinvolgente, che lo rende un pezzo ideale per i live show, da far cantare al pubblico; ancora una volta eccezionale il lavoro che cola fluido dalle sei corde dei due chitarristi, incisivi ed ispirati, in vero stato di grazia. 'Hallowed Be Thy Name' è invece un monumentale viaggio in un'atmosfera di pathos ed epicità, densa di elementi tecnici e compositivi di livello eccelso, una serie incredibile di galoppate spettacolari e assoli fulminanti da delirio orgasmico garantito. La grandezza vocale di 'Bruce Bruce' Dickinson e la mirabolante sezione melodica che sgorga copiosa dagli scintillanti strumenti degli implacabili inglesi conferiscono a questi brani un alone di eternità ed un valore musicale elevatissimo. Per molti, la canzone migliore dell'intera discografia della band, amatissima anche dagli stessi esponenti del gruppo, come conferma Bruce Dickinson: '
L'atmosfera, le vibrazioni, il pubblico, ogni cosa é fantastica. Ha una profondità tale da dar vita ad un piccolo film nella testa, e tu ti ritrovi semplicemente a narrarlo al pubblico'. Su questo pezzo, scrivono Marco Gamba e Cristiano Canali, autori dell'enciclopedia 'Iron Maiden dalla a alla z' pubblicata dalla Giunti nel 2011: '
Ogni istante di Hallowed Be Thy Name racchiude in sè il talento e la straordinaria capacità creativa di Harris e della sua band, in un tripudio di riff di chitarra, armonizzazioni, fraseggi, cori e assoli che, insieme, hanno fatto epoca e continuano ad emozionare ad ogni concerto'. La degna conclusione del disco che lancia gli Iron Maiden nella stratosfera del metallo.
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