EUROPEAN CARNAGE TOUR
SADIST+MEGADETH+SLAYER
PADOVA-ROMA (Da TRUEMETAL.IT)
SADIST+MEGADETH+SLAYER
PADOVA-ROMA (Da TRUEMETAL.IT)
European Carnage Tour 2011, ovvero, si potrebbe dire: quando gallina vecchia fa buon brodo. Attesissima la data romana dell’evento che vedeva insieme sullo stesso tabellone Slayer e Megadeth. Il sold out si registrava ormai da tempo per quello che poteva essere definito un 'Big 2' o, a volerla dire tutta, un 'Big 2 e 1/5' vista l’occasione più unica che rara di vedere, al fianco di Tom Araya e soci, il chitarrista di un’altra grandissima band che il thrash metal l’ha fondato: Gary Holt degli Exodus, che sta sostituendo, in questo periodo, il lungodegente Jeff Hanneman. Nessun sold-out invece a Padova, complice anche un minaccioso cielo da bufera di pioggia; in ogni caso, anche nella città veneta s'è radunato un buon numero di fan, molto ben ripagati da un concerto che ha visto gli Slayer completamente rinati e i Megadeth brillanti come sempre. Tante dunque le motivazioni che, nonostante il costo abbastanza elevato del biglietto, hanno portato davanti ai cancelli dell’Atlantico e del Teatro Tenda un pubblico letteralmente impazzito per questi grandi nomi. Passiamo dunque al racconto delle serate.
MEGADETH. In un’atmosfera di tripudio assoluto del pubblico, ancora memore dell’esibizione fantastica del giugno scorso, alle 20.20 in punto sono saliti sul palco, uno dopo l’altro, i Megadeth. Apertura inconsueta affidata a 'Trust', direttamente da uno dei dischi più criticati dei ‘Deth, 'Cryptic Writings', ma si sa che un buon padre ama ogni suo figlio incondizionatamente e così Dave Mustaine, presentatosi sulle assi circondato dalla sua solita aura da santone del metal e con una fiammante Dean Double Neck, lo ha suonato con trasporto e passione seguito a ruota dai suoi compagni. Tutto un altro clamore, però, ha accolto naturalmente la triade di classici che è seguita composta da: 'In My Darkest Hour', 'Hangar 18' e 'Wake Up Dead', con quest’ultima che acquistava anche un significato particolare, visto che si festeggiava il 25° anniversario di 'Peace Sells But Who's Buying'. Per rievocare ancora una volta 'Rust in Peace', invece, è bastato a Dave l’aver sfoderato una scintillante chitarra con l’artwork del disco durante l’esecuzione terremotante di 'Hangar'. '1320' è stato il primo, poderoso estratto da 'Endgame' e 'Poison Was the Cure' ha celebrato ancora una volta il capolavoro del 1990, ma è solo al termine di una 'Sweating Bullets' letteralmente urlata dall’intera sala, che Mustaine ha finalmente rivolto la parola ed il meritato saluto ai suoi fan. Tutto regolare per chi conosce il carattere del biondo crinito cantante il quale, comunque, è maestro nel saper compensare tutto con un carisma invidiabile; anche il fatto, purtroppo assodato pure in questa serata, che la sua voce è e sarà sempre a corrente alternata, salvo rari momenti di forma smagliante ma, si sa, l’età passa per tutti. 'She Wolf' è dedicato alle 'ragazze cattive' in sala, e così, dopo 'Head Crusher', si è arrivati presto ad un’altro grande atteso come 'A Tout le Monde'. La formazione attuale dei Megadeth, ormai affiatatissima intorno al suo leader, è apparsa concentrata e carica: Chris Broderick è sempre più spigliato e scorrazza da una parte all’altra del palco dispensando prove della sua eccellente tecnica [la fluidità delle sue dita sulla tastiera hanno fatto venire in mente i tempi in cui a duellare con Dave c’era un signore di nome Marty], mentre il buon vecchio David Ellefson, che con Shawn Drover costituisce una sessione ritmica a dir poco chirurgica, è il consueto volto rassicurante e carismatico, quello che era mancato davvero per il rilancio definitivo della band negli ultimi anni. Accendini e cori d’altri tempi prima della tempesta finale. 'Symphony of Destruction' non perde mai la sua malvagia ruvidezza ma è 'Peace Sells' la più attesa stasera, come sembra sottolineare la presenza del solito Vic Rattlehead sul palco durante la sua anthemica e famosissima cavalcata finale che ha fatto tremare le pareti circostanti. Alla breve fuoriuscita susseguente non ha creduto nessuno perché la voce roboante della platea non poteva non essere esaudita in questa serata. Il tenebroso momento storico che stiamo vivendo è sembrato rendere ancora più urgente l’esecuzione di un brano come 'Holy Wars The Punishment Due'; è lo stesso MegaDave a sottolinearlo lanciando retoricamente al pubblico la domanda: 'ma che cazzo sta succedendo nel mondo'!?! Il pezzo fu scritto per un periodo difficile in cui il mondo era attanagliato dalla paura; pochi avrebbero forse immaginato che un testo del genere avrebbe riacquistato una tale se non una maggiore valenza anche vent’anni dopo; forse anche per questo il gruppo l’ha suonata con tali carica e passione. Una prova davvero energica quella dei Megadeth, usciti tra le acclamazioni convinte di un pubblico che, però, non è apparso affatto sazio. Prossimi a salire su quel palco sarebbero stati gli Slayer, la band musicalmente più malvagia del pianeta che, da queste parti, mancava ormai da tempo immemorabile.
SLAYER. Bastava il muro di Marshall allestito come scenografia 'attiva' dello show ad incutere timore ma, quando le luci si sono spente in sala, l’attesa si è trasformata in corrente ad alto voltaggio. 'World Painted Blood', titletrack dell’ultimo album in studio del gruppo, è stata la prescelta per aprire le danze, seguita a ruota da 'Hate Worldwide'. La presenza scenica dei quattro assassini è quanto di più imponente si possa immaginare: Tom Araya non potrà più roteare vorticosamente il suo scalpo come una volta, ma posso assicurare che la sua sagoma è bastata e avanzata per tenere in pugno l’audience romana. Novità assoluta, già menzionata in precedenza, è la presenza di Gary Holt, chitarrista tra i più influenti della scena thrash metal americana, che non fa certo mistero della band cui appartiene da trent’anni, grazie ad un polsino più che esplicito, e che ha mostrato da subito di non essere su quel palco per fare da timida comparsa o da tappabuchi, evidenziando tutto il suo stile particolare e la sua presenza scenica per un’occasione così estemporanea. Gli Slayer sono delle vere e proprie macchine da guerra e ancora una volta hanno fatto di tutto per mantenere viva la loro fama: Kerry King è stato truce e tagliente con la sua chitarra come al solito, i volumi sono stati sparati al massimo ed ogni nota del basso di Araya ha fatto vibrare ogni singolo centimetro della struttura che ci ospitava. Tutto lo show è stato programmato con la solita perizia per dare ai fan quello che sempre ed in ogni parte del mondo loro si aspettano dagli Slayer, ed il sorriso pacioso che spesso, tra un pezzo e l’altro, appariva sul volto del frontman, stava di certo a significare che anche la risposta ottenuta era quella desiderata. Da copione anche l’urlo lancinante che ha annunciato 'War Ensemble', prima di una lunga serie di classici sparati sulla folla a raffica di mitragliatrice, senza praticamente alcuna sosta. Ascoltare calibri pesanti come 'Postmortem', 'Dead Skin Mask' e 'The Antichrist' è un piacere che solo gli amanti dell’estremo possono godere a livello pieno e gli Slayer sono i maestri riconosciuti dell’estremo. Certo fa piacere ascoltare brani di livello medio come 'Americon', presentata in spagnolo dal cileno di origine Araya, come 'Snuff' o come 'Payback', capisaldi dell’ultima era della band, ma l’innegabile fascino live di una 'Seasons in the Abyss' o di una 'South of Heaven', è riuscito, senza fatica alcuna, a rendere tali composizioni solo noiose e riempitive. In tanta marziale precisione è ovvio che più di una volta si sia buttato un occhio al lavoro di Gary Holt. Il chitarrista, come si diceva, si è spremuto al massimo per non essere da meno dei suoi amici: per chi lo conosce, è una cosa normale per lui avere un approccio sanguigno e coinvolto al live e questo, unito alla componente ovvia e assolutamente non marginale che lui è praticamente un intruso in un meccanismo collaudato da trent’anni, ha fatto trasparire qualche sbavatura, in particolare negli attacchi. Tutto sommato, si può definirli episodi trascurabili confrontati alla mole di parti mandate a memoria in poco tempo, per la cui complessità viene giustamente incensato il buon Hanneman. I colpi tonanti inferti da Dave Lombardo alla sua batteria hanno dato presto il via alla distruttiva parte finale della serata. Una sempre emozionante 'Raining Blood' ha aperto dunque la strada a 'Black Magic' e ad una superlativa 'Angel of Death', scintilla conclusiva di un’esibizione molto intensa che, proprio per questo, è sembrata durare ancora meno dell’ora e un quarto effettiva.
Protagonisti soddisfatti e pubblico in visibilio, è questo il bilancio della data romana dell’European Carnage Tour 2011: una serata di sfogo completo, all’insegna dell’headbanging selvaggio e del crowd surfing [che, tra l’altro, ha fatto molto incazzare la security del locale] continuo, uno show in cui 2 band di 'vecchietti', con tutti i problemi fisici che li affliggono o li hanno afflitti, hanno fatto il loro dovere in maniera impeccabile, ripagando in pieno chi ha pagato il biglietto e tutti quelli che, non potendo pagare cifre astronomiche alle Ferrovie dello Stato, sperano che serate come questa non rimangano troppo estemporanee nel prossimo futuro.
ROMA, ATLANTICO, 3 aprile 2011
MEGADETH
MEGADETH. In un’atmosfera di tripudio assoluto del pubblico, ancora memore dell’esibizione fantastica del giugno scorso, alle 20.20 in punto sono saliti sul palco, uno dopo l’altro, i Megadeth. Apertura inconsueta affidata a 'Trust', direttamente da uno dei dischi più criticati dei ‘Deth, 'Cryptic Writings', ma si sa che un buon padre ama ogni suo figlio incondizionatamente e così Dave Mustaine, presentatosi sulle assi circondato dalla sua solita aura da santone del metal e con una fiammante Dean Double Neck, lo ha suonato con trasporto e passione seguito a ruota dai suoi compagni. Tutto un altro clamore, però, ha accolto naturalmente la triade di classici che è seguita composta da: 'In My Darkest Hour', 'Hangar 18' e 'Wake Up Dead', con quest’ultima che acquistava anche un significato particolare, visto che si festeggiava il 25° anniversario di 'Peace Sells But Who's Buying'. Per rievocare ancora una volta 'Rust in Peace', invece, è bastato a Dave l’aver sfoderato una scintillante chitarra con l’artwork del disco durante l’esecuzione terremotante di 'Hangar'. '1320' è stato il primo, poderoso estratto da 'Endgame' e 'Poison Was the Cure' ha celebrato ancora una volta il capolavoro del 1990, ma è solo al termine di una 'Sweating Bullets' letteralmente urlata dall’intera sala, che Mustaine ha finalmente rivolto la parola ed il meritato saluto ai suoi fan. Tutto regolare per chi conosce il carattere del biondo crinito cantante il quale, comunque, è maestro nel saper compensare tutto con un carisma invidiabile; anche il fatto, purtroppo assodato pure in questa serata, che la sua voce è e sarà sempre a corrente alternata, salvo rari momenti di forma smagliante ma, si sa, l’età passa per tutti. 'She Wolf' è dedicato alle 'ragazze cattive' in sala, e così, dopo 'Head Crusher', si è arrivati presto ad un’altro grande atteso come 'A Tout le Monde'. La formazione attuale dei Megadeth, ormai affiatatissima intorno al suo leader, è apparsa concentrata e carica: Chris Broderick è sempre più spigliato e scorrazza da una parte all’altra del palco dispensando prove della sua eccellente tecnica [la fluidità delle sue dita sulla tastiera hanno fatto venire in mente i tempi in cui a duellare con Dave c’era un signore di nome Marty], mentre il buon vecchio David Ellefson, che con Shawn Drover costituisce una sessione ritmica a dir poco chirurgica, è il consueto volto rassicurante e carismatico, quello che era mancato davvero per il rilancio definitivo della band negli ultimi anni. Accendini e cori d’altri tempi prima della tempesta finale. 'Symphony of Destruction' non perde mai la sua malvagia ruvidezza ma è 'Peace Sells' la più attesa stasera, come sembra sottolineare la presenza del solito Vic Rattlehead sul palco durante la sua anthemica e famosissima cavalcata finale che ha fatto tremare le pareti circostanti. Alla breve fuoriuscita susseguente non ha creduto nessuno perché la voce roboante della platea non poteva non essere esaudita in questa serata. Il tenebroso momento storico che stiamo vivendo è sembrato rendere ancora più urgente l’esecuzione di un brano come 'Holy Wars The Punishment Due'; è lo stesso MegaDave a sottolinearlo lanciando retoricamente al pubblico la domanda: 'ma che cazzo sta succedendo nel mondo'!?! Il pezzo fu scritto per un periodo difficile in cui il mondo era attanagliato dalla paura; pochi avrebbero forse immaginato che un testo del genere avrebbe riacquistato una tale se non una maggiore valenza anche vent’anni dopo; forse anche per questo il gruppo l’ha suonata con tali carica e passione. Una prova davvero energica quella dei Megadeth, usciti tra le acclamazioni convinte di un pubblico che, però, non è apparso affatto sazio. Prossimi a salire su quel palco sarebbero stati gli Slayer, la band musicalmente più malvagia del pianeta che, da queste parti, mancava ormai da tempo immemorabile.
SLAYER
SLAYER. Bastava il muro di Marshall allestito come scenografia 'attiva' dello show ad incutere timore ma, quando le luci si sono spente in sala, l’attesa si è trasformata in corrente ad alto voltaggio. 'World Painted Blood', titletrack dell’ultimo album in studio del gruppo, è stata la prescelta per aprire le danze, seguita a ruota da 'Hate Worldwide'. La presenza scenica dei quattro assassini è quanto di più imponente si possa immaginare: Tom Araya non potrà più roteare vorticosamente il suo scalpo come una volta, ma posso assicurare che la sua sagoma è bastata e avanzata per tenere in pugno l’audience romana. Novità assoluta, già menzionata in precedenza, è la presenza di Gary Holt, chitarrista tra i più influenti della scena thrash metal americana, che non fa certo mistero della band cui appartiene da trent’anni, grazie ad un polsino più che esplicito, e che ha mostrato da subito di non essere su quel palco per fare da timida comparsa o da tappabuchi, evidenziando tutto il suo stile particolare e la sua presenza scenica per un’occasione così estemporanea. Gli Slayer sono delle vere e proprie macchine da guerra e ancora una volta hanno fatto di tutto per mantenere viva la loro fama: Kerry King è stato truce e tagliente con la sua chitarra come al solito, i volumi sono stati sparati al massimo ed ogni nota del basso di Araya ha fatto vibrare ogni singolo centimetro della struttura che ci ospitava. Tutto lo show è stato programmato con la solita perizia per dare ai fan quello che sempre ed in ogni parte del mondo loro si aspettano dagli Slayer, ed il sorriso pacioso che spesso, tra un pezzo e l’altro, appariva sul volto del frontman, stava di certo a significare che anche la risposta ottenuta era quella desiderata. Da copione anche l’urlo lancinante che ha annunciato 'War Ensemble', prima di una lunga serie di classici sparati sulla folla a raffica di mitragliatrice, senza praticamente alcuna sosta. Ascoltare calibri pesanti come 'Postmortem', 'Dead Skin Mask' e 'The Antichrist' è un piacere che solo gli amanti dell’estremo possono godere a livello pieno e gli Slayer sono i maestri riconosciuti dell’estremo. Certo fa piacere ascoltare brani di livello medio come 'Americon', presentata in spagnolo dal cileno di origine Araya, come 'Snuff' o come 'Payback', capisaldi dell’ultima era della band, ma l’innegabile fascino live di una 'Seasons in the Abyss' o di una 'South of Heaven', è riuscito, senza fatica alcuna, a rendere tali composizioni solo noiose e riempitive. In tanta marziale precisione è ovvio che più di una volta si sia buttato un occhio al lavoro di Gary Holt. Il chitarrista, come si diceva, si è spremuto al massimo per non essere da meno dei suoi amici: per chi lo conosce, è una cosa normale per lui avere un approccio sanguigno e coinvolto al live e questo, unito alla componente ovvia e assolutamente non marginale che lui è praticamente un intruso in un meccanismo collaudato da trent’anni, ha fatto trasparire qualche sbavatura, in particolare negli attacchi. Tutto sommato, si può definirli episodi trascurabili confrontati alla mole di parti mandate a memoria in poco tempo, per la cui complessità viene giustamente incensato il buon Hanneman. I colpi tonanti inferti da Dave Lombardo alla sua batteria hanno dato presto il via alla distruttiva parte finale della serata. Una sempre emozionante 'Raining Blood' ha aperto dunque la strada a 'Black Magic' e ad una superlativa 'Angel of Death', scintilla conclusiva di un’esibizione molto intensa che, proprio per questo, è sembrata durare ancora meno dell’ora e un quarto effettiva.
Protagonisti soddisfatti e pubblico in visibilio, è questo il bilancio della data romana dell’European Carnage Tour 2011: una serata di sfogo completo, all’insegna dell’headbanging selvaggio e del crowd surfing [che, tra l’altro, ha fatto molto incazzare la security del locale] continuo, uno show in cui 2 band di 'vecchietti', con tutti i problemi fisici che li affliggono o li hanno afflitti, hanno fatto il loro dovere in maniera impeccabile, ripagando in pieno chi ha pagato il biglietto e tutti quelli che, non potendo pagare cifre astronomiche alle Ferrovie dello Stato, sperano che serate come questa non rimangano troppo estemporanee nel prossimo futuro.
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