RECENSIONE: TESTAMENT, IL RITORNO DEL THRASH

VOTO 7,5

THE FORMATION OF DAMNATION (TESTAMENT). Thrash metal vecchio stile, pesante e velocissimo con poche concessioni melodiche, ma non per questo estremo in senso Slayer: solo Testament al 100%

I TESTAMENT SONO TORNATI. Un grandissimo pilastro del thrash duro della mitica Bay Area (Metallica, Megadeth, Slayer, Anthrax...) torna a ruggire con potenza dopo un periodo di apparente declino. Quello che i Testament hanno dato alla storia del metal si chiama "The Legacy" e si chiama "The New Order", due dischi d'acciaio e tecnicismi, ben completati dalla successiva evoluzione ("Pratice What You Preach", "Souls Of Black"). Come tutte le band thrash, negli anni '90 i Testament hanno vissuto anni di sperimentazione melodica e più appetibile al music business ("The Ritual", "Low") ma bisogna dire che sono stati i primi a rialzare la testa ("Demonic", quasi death, e "The Gatering"), superando anche il tumore alla gola del singer Chuck Billy. L'ultimo segnale in studio della band era un album riedizione di pezzi storici (2001): 7 anni dopo eccoli qui, i vecchi leoni, con "The Formation Of Damnation", un macigno di riff irresistibili, batteria pesante & fracassante, ritmiche serrate come ai bei tempi. Sperando che anche i Metallica tornino a livelli così, iniziamo a gustarci il ritorno dei maestri della bay Area!

LA RECENSIONE di www.metalitalia.it Sono passati ben nove anni dall'ultimo disco in studio pubblicato dai Testament, quel “The Gathering” che a suo tempo si impose come uno degli album migliori dell'anno. In tutto questo lasso di tempo la band ha superato la terribile malattia che ha colpito il cantante Chuck Billy, ora in perfetta salute, ha poi inanellato una serie di raccolte e live più o meno utili e parecchi concerti in giro per il mondo con la formazione classica. Ora le attese dei thrasher di tutto il mondo vengono ripagate da questo nuovo “The Formation Of Damnation”, un disco solido e massiccio che, pur non essendo il capolavoro assoluto della band, strapperà consensi a non finire tra i fan del gruppo americano. La notorietà in Italia di un disco come “The Gathering” è notevole e vi starete chiedendo se la nuova uscita sarà in grado di competere con esso. Ebbene, “The Formation Of Damnation” è un album molto buono che, pur non contenendo una bomba del calibro di "D.N.R.", nel complesso appare qualitativamente più omogeneo del suo fortunato predecessore e si presenta come un incrocio tra l’aggressività di quest'ultimo, il thrash classico dei primi lavori e la pesantezza di "Low". Il disco si apre con “For The Glory”, nient'altro che un'intro strumentale che cede a “More Than Meets The Eyes” l'onore di dar fuoco alle polveri. Il pezzo è un'incalzante cavalcata thrash che grazie al suo gran tiro e le sue accelerazioni si preannuncia come un vero e proprio schiacciasassi in sede live. Ciò che da subito colpisce sono i riff assassini della coppia Peterson/Skolnick, e le vocals abrasive del mastodontico cantante, che abbandona quasi completamente l'impostazione puramente death delle uscite di fine anni novanta. Da sottolineare anche la prova del veterano Greg Christian al basso e di Paul Bostaph alla batteria, quest'ultimo appena entrato nella band ma che già ne rapresenta un valore aggiunto. La successiva “The Evil Has Landed” è infatti uno degli episodi dove il batterista fa la differenza, arricchendo questo mid tempo con un drumming vario e tecnico. Azzeccati i cambi di tempo che innescano i ritornelli e la sfuriata che accompagna gli assoli. La titletrack è il brano più cattivo del disco, un assalto frontale con riffoni che a tutto volume buttebbero giù un muro e un Chuck Billy che in questo episodio rispolvera il suo potentissimo growl. La prima metà del disco è un susseguirsi di colpi che vanno perfettamente a segno, tra una “Dangers Of The Faithless” dal refrain molto diretto e una “Persecuted Won't Forget” da paura che alterna parti strumentali a tutta velocità a pesantissime strofe costruite su un granitico mid tempo e a cambi di tempo dove Bostaph sale autoritariamente in cattedra. Ottimi come sempre gli assoli di chitarra, fatti di tecnica, velocità e melodia, nei quali il tocco sopraffino di Alex Skolnick si fa sentire parecchio. Più lineare e compatta “Henchman Ride”, dove la band spinge sull'acceleratore e confeziona uno dei brani più devastanti del disco, soprattutto nella tiratissima parte centrale (qui si metterebbe a fare headbanging anche Rita Levi Montalcini). “Killing Season”, poco immediata e ritmicamente più articolata, è anche il brano che convince meno per via di linee vocali non proprio ispirate. Con “Afterlife” il livello si rialza anche se è la successiva “F.E.A.R.” ad agguantare il podio con tempi sostenuti e un ritornello orecchiabile in stile Metallica dei bei tempi che farà la sua gran figura dal vivo. Conclusione affidata a “Leave Me Forever”, brano più sperimentale e quasi a sé stante nel contesto dell'album, con parti più soffuse e cupe in contrapposizione alle consuete ritmiche taglienti su cui si staglia il vocione di Chuck. L'artwork è molto bello e i suoni, curati da Andy Sneap, sono eccezionali. Insomma, un ritorno in grande stile per una band che non smette mai di convincere.

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