KILLING MACHINE
JUDAS PRIEST [1979], HEAVY METAL
Annus domini 1979, Regno Unito. I Black Sabbath ormai da una decade hanno irrobustito e inscurito il sound classico dell’hardrock, attirando le attenzioni e le censure di perbenisti e amanti della musica patinata. I Judas Priest hanno già fatto in tempo a osservare, senza battere ciglio, l’ascesa irresistibile e il tramonto fulmineo del fenomeno punk, messo al tappeto dalle loro scosse sempre più telluriche. Dall’hardrock progressivo del modesto debutto Rocka Rolla, i Preti di Giuda hanno fatto passi da gigante acquistando in potenza, aggressività e maestosità con album che difficilmente si possono bollare come di "innocuo" hardrock: in dischi come Sad Wings Of Destiny, Sin After Sinner e Stained Class si custodiva l’origine di una corrente che qualcuno iniziava a definire "heavy metal". Originata e fatta risorgere per mano di Giuda, la Creatura aveva ora bisogno di nuova linfa, perché dopo aver recesso le creste rosse dei punk doveva necessariamente tuffarsi negli Eighties con una potenza ed una freschezza nuova, che avrebbe dovuto sbaragliare ogni concorrenza e segnare l’inizio di un’era. Prima elegante e poi dirompente, con un riffone rocciosissimo, Delivering The God piomba nelle orecchie dell’ascoltatore come un pugno nello stomaco, a ritmi non elevati ma governati splendidamente dalla voce di Halford, in una delle prestazioni più ‘macho’ della sua carriera. Acciaio cola dalle chitarre del duo Tipton-Downing, che incastonano nel mezzo del pezzo il loro elettrizzante e immancabile marchio di fabbrica, l’assolo vertiginoso a giusta metà tra potenza e melodia. La canzone è il biglietto da visita più rombante che un album dell’epoca possa avere. Dopo aver colpito con la loro aggressività, gli inglesi si lanciano nell’inno, rispolverando le loro radici più rockeggianti con la scoppiettante "Rock Forever": una dichiarazione di intenti, con un Halford in gran forma e con lo splendido passaggio da un assolo meraviglioso in pieno r’n’r style ad una progressione di cori sempre più acuti, sull’onda dei quali vi troverete anche voi, inevitabilmente, a urlare Rock Forever!. E rock per sempre è quello che è custodito in Killing Machine e in tutti i colossali dischi d’oro dei Preti di Giuda: ce n’è per tutti i gusti, e difatti alla traccia numero tre arriva la semi-ballata Evening Star, leggera e quasi spensierata nel suo ritornello semplice e azzeccato, nella celestiale parte centrale e nella triste malinconia che impregna la ripartenza verso il refrain iniziale. E’ uno dei pezzi più atipici mai composti dalla band di Birmingham, che si ricollega –come Rock Forever- principalmente alle radici hardrock degli esordi. Ma Signore e Signori, se di Metallo allo stato puro si vuole parlare, si passi con una scossa di suggestione alla travolgente Hell Bent For Leather, dura come le cannonate che la aprono, esaltante sin da subito con quel riff semplice ma infuocato e l'energica ’interpretazione del MetalGod. Si parla di moto e di asfalto, chiodi borchiati, catene intrise di passione, quella passione per l’acciaio che trasuda eterna e sempre esplosiva ancora oggi a tanti decenni di distanza, recepito come un canto di battaglia dagli headbangers di tutto il mondo. Chi non ha mai scosso la capoccia con 'Hell Bent For Leather 'rinunci per sempre alla definizione di metallaro che ingenerosamente si attribuisce: l’ordine supremo arriva direttamente dal MetalGod, che in piedi sulla sua Harley e con il chiodo impregnato dell’odore di cuoio canta la storia, canta la svolta e spiega come in una canzone sola si possa individuare la nascita ormai ufficiale dell’heavy metal moderno. Dopo l’assolo le urla dello spadroneggiante Halford si fanno sempre più esaltanti, quasi a voler sottolineare con insistenza che i Judas Priest sono l’heavy metal, e tutti gli altri degli umili discepoli. Dopo la tempesta di acciaio c’è spazio per un altro inno da stadio e un altro brano atipico, quella Take On the World praticamente cantata tutta in coro che emozionerà i più inguaribili Defenders. Come a voler appositamente alternare pezzi durissimi ad altri più cantabili, i Padri Fondatori tornano all’attacco frontale con un monolite come Burnin’Up: si trascina oscuro e misterioso, cadenzato e graffiato nell’ombra dalla roca e furtiva voce di Halford. Il pezzo si mantiene piacevole su quest’alone di mistero, fino al crescendo che porta ad una parte centrale più aperta e melodica, con la struggente voce di Rob Nostro Signore che tocca livelli di espressività commovente: e mentre ancora la pelle d’oca sconquasserà i vostri sensi sarete fulminati dalla coppia d’asce che l’inferno ha schierato affianco al suo Profeta cuoioborchiato. Proprio lui riprenderà in mano il timone del pezzo, tramutando la sua voce in un timbro ora aggressivo e potente, deciso ed epico. La title track, Killing Machine è, purtroppo, il pezzo meno coinvolgente del platter, lenta e senza troppo mordente, molto rivolta al passato e-a differenza degli altri pezzi- difficilmente definibile fresca e moderna ancora oggi. Si torna al classico stile Priestiano con Running Wild, il cui riff iniziale ha influenzato decine di generazioni, a cominciare da certi signori chiamati Iron Maiden: a molti verrà in mente The Wicker Man, che è praticamente identica nell’incipit. Il resto è classe e routine, ormai, per i Priest: la giusta dose di energia e potenza, le vocals al centro di tutto, le chitarre taglienti. Si rallenta con una classe innata e l’atmosfera soft e carica di malinconia che pervade la dolcissima ballata Before The Dawn. Il MetalGod depone il mantello, scende dal bolide e prende in mano il proprio cuore. Lo sguardo cattivo e l’aspetto di chi non deve chiedere niente a nessuno si sciolgono in un vortice di emozioni, mentre Halfod guarda il tramonto sulle note di un assolo suadente, e forse una lacrima riga il suo volto, per ricordarci che anche Lui è umano come tutti noi, debole e fragile sotto quella corazza di chiodi e il suo urlo di sfida al mondo. Il pezzo finale è molto simile alla title track, pachidermica nella sua lenta progressione e senza picchi di particolare esaltazione se non nel crescendo finale, degno del miglior hardrock targato Seventies: stiamo parlando di Evil Fantasies, che chiude il decennio in cui due band di Birmingham, Priest e Black Sabbath, hanno seminato le prime folgori dell’heavy metal. Saranno gli stessi Preti di Giuda a sferrare i tre colpi apocalittici che sanciranno la prepotente ascesa del Verbo dell’Acciaio. Album vario e completo, ed è scontato che sia così dinnanzi ad un capolavoro di queste dimensioni. Il computo parla di quattro pezzi che spiccano sugli altri, tipicamente priestiani e rivestiti d’una corazza scintillante di acciaio e cuoio: Delivering The Gods, Burnin’Up, Running Wild e naturalmente Hell Bent For Leather, simbolo e colonna sonora di tutto l’album e di un intero decennio. Al fianco di queste scariche dinamitarde trovano spazio due ballads emozionanti, due inni esaltanti e le due canzoni figlie del vecchio rock di cui abbiamo parlato abbondantemente. C’è quindi pane per i denti di chiunque, dal rocker romantico a quello affezionato ai vecchi stilemi di classe e stile, da quello energico e aperto al futuro a quello che chiede solo un potente riffone su cui scatenare il proprio headbanging. Dai Judas Priest del resto ci si può aspettare solo capolavori, e Killing Machine è l’ultimo capolavoro prima che la band passi ad un livello ancor più elevato con British Steel e i suoi successori. Potrebbe essere ripetitivo esaltare fino alla paranoia la performance ancor una volta enorme di Rob Halford, che passa dall’energia alla passione con indifferenza, tenendo per quest’album un profilo più aggressivo e facendo un uso minore del suo tipico scream. Potrebbe essere ripetitivo ma è obbligo inderogabile tributare il merito immenso del solo e unico MetalGod, IL cantante metal per eccellenza, l’istantanea ghignante che impregna l’immaginario iconografico e sonoro del metallaro per antonomasia. E altrettanto banale potrebbe sembrare stendere tappeti di lode al duo delle meraviglie, Glen Tipton e KK Downing, che con le loro chitarre e le melodie esorbitanti sbaragliano ogni parametro tecnico pre esistente, aprendo varchi di melodia a forza di scariche elettriche fulminanti. Ma è la storia, ragazzi: i fatti parlano chiaro, l’heavy metal è impresso nella discografia di questa macchina d’assalto irraggiungibile che porta l’effige dell’acciaio nel proprio blasone, orgogliosamente eretto sulle harley rombanti e portato sui palchi di tutto il mondo. Sempre lodato sia il Sacerdote di Giuda, in ogni era da qui all’eternità. Da Metallized.it

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