BRITISH STEEL

JUDAS PRIEST [1980], HEAVY METAL
Dopo aver messo a ferro e fuoco i palcoscenici di mezzo mondo, i Judas Priest sono all’apice. Un ricco contratto con la CBS ha annullato i problemi economici [tipici di ogni band] ed è appena entrato in formazione Dave Holland, l’ennesimo batterista ma il primo tecnicamente preparato e destinato a durare. Il momento è caldo ed il combo britannico capitanato dallo screamer Rob Halford è pronto a sferrare un colpo come British Steel. Il titolo dell'album è già un biglietto da visita eloquente: acciaio inglese, heavy metal genuino, duro e puro. Il disco è stato scritto e arrangiato durante il lungo tour giapponese e presenta sostanziali trasformazioni di quello che, fino ad allora, era stato il classico sound della band. Con questo disco, i Judas Priest delineano il loro sound definitivo dal potente impatto metallico, tutto strutturato attorno a dei poderosi assoli melodici col piede sull'acceleratore e riff roboanti pronti a sgorgare dalle sei corde di Titpton e Downing: vengono semplificate le strutture delle canzoni, a scapito della vena blues, allontanandosi così dagli ispiratori Black Sabbath e Led Zeppelin. Si guadagna in velocità e si sperimentano nuove soluzioni, come cori e inserti sonori, accennati nei precedenti album, con un risultato dinamico, molto moderno e dalla potenza fresca e pretenziosa per l'epoca, che porta i Priest all'apice dell'intero movimento metal. Nell'Inghilterra dell'epoca, sottoposta da anni alla moda del fenomeno-punk, i Judas Priest si erano incaricati di un ruolo delicato e nobile, quello di tenere alto e vivo il gonfalone dell'heavy metal: già con i precedenti lavori, e con 'Killing machine' in particolare, la band di Birmingham aveva garantito linfa vitale ad un filone artistico ben più strutturato e maturo del punk adolescenziale tanto in voga, ma con 'British Steel' la crociata può considerarsi conclusa e vinta. Acciaio inglese, dicevamo, quasi a voler imprimere a fuoco l'essenza della 'vera' musica dura, quasi a voler spiegare al mondo qual'è il vero suono del rock inglese, quello sudato nelle acciaierie da Priest e Black Sabbath! L’inizio è da delirio: 'Breaking the Law'. Uno spettacolo sonoro della durata di soli due minuti e mezzo, sufficienti ai Priest per dimostrare di che cosa sono capaci: cambi di tempo, stacchi e duelli tra le chitarre, tutto con una straordinaria vena melodica. E’ stato tratto anche un videoclip, in cui i cinque metallers rubano il loro disco di platino a colpi di chitarra: forse un po’ pacchiano rispetto a quelli a cui ci ha abituato MTV ma era il meglio che si potesse sperare dal rock all’epoca. La seconda traccia è 'Rapid Fire': velocità ed energia allo stato puro esplodono scatenando un headbanging forsennato e naturale nell'ascoltatore! Progenitrice dello speed metal, la canzone è caratterizzata da riff acuti e potenti, con la voce di Halford tagliente e la batteria ad aggiungere la giusta carica. Direttamente collegata con la traccia precedente da effetti sonori, la classica 'Metal Gods' è un anthem classico da concerto che sprigiona fortissime emozioni grazie ad un indovinato connubio tra musica e comunicazione: c’è qui un grande impulso al tema del rapporto tra uomo e macchina, caro ai Priest. Da questa canzone è nato il soprannome di Rob Halford o più genericamente della band, 'The Metal Gods'. Proprio in quegli anni, il carismatico Halford aveva inaugurato il tipico look del metallaro medio, iniziando a coprirsi di pelle nera, chiodi, borchie e catene già dai tour antecedenti a questo disco miliare: le sue irruzioni sul palco, in sella ad una rombante Harley Davidson, hanno fatto leggenda e sancito in eterno il ruolo 'ribelle' e aggressivo del metallaro. A chiudere la canzone ci pensano suoni di catene e chitarre. Segue dunque 'Grinder': sfuriate metal condite da piacevoli parti strumentali. La successiva 'United' è una particolare ballad corale, molto calda. Viene poi la classicissima 'Living After Midnight', puntualmente richiesta ad ogni concerto; non è una dimostrazione di potenza o tecnica, la melodia è semplice e trascinante, ma uno strepitoso inno alla libertà ed alla vita on the road. Proseguendo, 'You Don’t Have To Be Old To Be Wise': è’ il brano più lungo, meno diretto. 'The Rage' e 'Steeler' chiudono l’album: il primo è un pezzo tagliente dalle ritmiche rallentate mentre il secondo è al contrario molto veloce, con la batteria a dettare i tempi. A questo album seguì un lungo tour mondiale, dove le spalle erano gli esordienti Iron Maiden: un vero successo. La copertina è stata giudicata come una delle '100 cover più belle della storia del rock': è nata, col titolo del disco, dal precedente lavoro di Glenn Tipton, operaio in un’acciaieria. L’album è estremamente vario e innovativo, una colata di acciaio inglese che ristabilisce le coordinate della musica dura e stabilisce senza appello chi sono i più forti.

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