PAINKILLER
JUDAS PRIEST [1990], HEAVY METAL
Chi ascolta frequentemente musica di un determinato genere e di un certificato e alto valore dovrebbe sapere perfettamente che c’è una distinzione più o meno forte tra buoni dischi, dischi mediocri e capolavori assoluti. Bene, Painkiller non appartiene a nessuna di queste categorie, perché chi ascolta musica di quel determinato genere e di quel certificato livello sa bene che ci sono band che hanno fatto la storia e altre che invece hanno deciso di superare anche la leggenda, andando ad incarnarsi con l’epica stessa del genere. Signore e signori, ecco a voi il Signor Heavy Metal, Painkiller, l’ultimo grande tsunami esploso dai Signori indiscussi dell’acciaio, gli inglesi Judas Priest. Potente, compatto, melodico, mai così veloce, moderno e violento, il sound dell'act britannico centuplica la sua immane possenza, il suo riffing tagliente e le sue sezioni soliste da delirio, gonfiandosi d'epica e gloria marziale attraverso una pura tempesta di metallo incandescente, che inevitabilmente rende ancora più ridondante l'essenza già cromata, per antonomasia, di chi quel genere ha contribuito a forgiarlo. I mitici bikers di Birmingham, a cavallo tra Seventies ed Eighties avevano definito il Verbo del metallo con album seminali quali Sad Wings Of Destiny, Sin After Sinner, Stained Class e Killing Machine, dando una direzione moderna alla creatura primigenia dei concittadini Black Sabbath. Il successivo [e definitivo] trittico d’acciaio composto da British Steel, Screaming For Vegeance e Defenders Of The Faith completò l’evoluzione e la definizione di questo potente genere musicale, andando ad arricchire una discografia di masterpieces energici e scintillanti davvero invidiabile. Tuttavia, dopo i controversi Turbo e Ram It Down la formazione inglese si ritrovò ancora sotto esame, e fu costretta a tornare in pista per spiegare nuovamente agli esseri umani come si suonasse l’heavy metal. Potreste essere un thrasher abituato alle accelerazioni più sanguinarie, un deathster navigato alle sonorità più estreme o un grindcorer ferrato dalle urla più belluine, ma Painkiller non riuscirà a non violentarvi l’anima, percuotendola con una furia tellurica innervata dai maligni acuti di Rob Halford, l’unico e solo MetalGod. E’ caldamente consigliato leggere il resto della recensione ascoltando il platter in questione: probabilmente molti non arriveranno alla fine del pezzo, in quanto scatenati in un pogo folle contro le pareti e in un headbanging malato. Ponete il disco incandescente nel vostro stereo con riverenza relgiosa, alzate il volume al massimo e avvisate i vicini del pericolo che stanno per correre. Che il tornado metallico abbia inizio. Painkiller è l’album perfetto: la tracklist è un elenco di pezzi memorabili, praticamente senza punti deboli. Il sound del platter è potentissimo e la produzione praticamente impeccabile, esaltata dalla devastante presenza di un batterista come Scott Travis, che pesta solido, esplosivo e compatto. L’innesto in formazione del nuovo drummer porta nuova linfa vitale ai Priest, che si riscoprono più possenti e metallizzati di quanto non siano mai stati. E’ proprio un roboante assolo di Travis ad aprire il platter, anticipando il riff sinistro dell’apocalittica title track: il MetalGod inizia la celebrazione del suo rito, un massacro acuminato dal ritornello marziale. Il pezzo è articolato e maestoso, impreziosito dal primo di una lunga serie di memorabili assoli di chitarra: una sintesi perfetta della direzione roboante intrapresa dalla band, che però non perde il gusto per la melodia, che cola a fiotti dai cristallini funambolismi degli axemen Glenn Tipton e KK Downing. I ritmi della successiva Hell Patrol sono meno serrati e più solenni, perennemente innervati dagli acuti di Halford. Il singer introduce con velenosa malvagità All Guns Blazing, pezzo dal ritornello a dir poco esaltante: un elemento, quest’ultimo, ricorrente e confermato appieno anche in Leather Rebel. E’ straordinaria la costanza e la compattezza rocciosa che si articola in tutti i brani dell full length, conferendogli una corposità moderna e massiccia, amalgamata a meraviglia con le evoluzioni al vetriolo che scorrono liquide sulle corde delle chitarre. Il titolo del pezzo in questione è un manifesto chiaro: i ribelli di cuoio assaltano le coronarie dell’ascoltatore facendole vibrare con cannonate di pathos, potenza, enfasi. Il prepotente riff iniziale e la classe immensa dei due guitar hero faranno sì che il Prete di Giuda si impossessi di voi e vi faccia scatenare in un headbanging forsennato, che sfocerà nella crescente galoppata finale a briglie sciolte. Non potrete fermarvi: senza lasciarvi fiato ed energie, il riffing impazzito del colosso Metal Meltdown esploderà improvvisamente nella vostra stanza, manifestandosi devastante e fragoroso. Lo vedrete, il MetalGod, ergersi avvolto dalle tenebre e demolire i vetri delle finestre con i suoi acuti da embolia, mentre il vostro cuore pulsa impazzito, governato dalla follia di metallo. E ripeterete follemente ‘Me-tal! Melt-down! Me-tal! Melt-down!’ assieme ad un Halford grande, grandissimo, più grande della sua stessa leggenda: mai così straripante, mai così supremo! A velocità folle si susseguono classici da antologia, calibri da novanta dall'impatto pesantissimo e immediato: tutte le tracce sono caratterizzate da una grande freschezza compositiva e diventano potenziali cavalli di battaglia capaci di entusiasmare ogni metalhead che si rispetti. L’atmosfera onirica intrisa di desolazione che apre Night Crowler, ci trascina nella melodia malinconica e desolante scandita dall’ennesimo assolo emozionante, mentre degli enormi nuvoloni grigi coprono il cielo già squarciato. La traccia numero sette è, nel titolo, la perfetta descrizione di quello che si trova ad essere il povero metalhead sottoposto all’ascolto di questo masterpiece: Between The Hammer And The Anvil, tra l’incudine della follia imposta dalle vocals di Rob Nostro Signore e il martello massacrante di Scott Travis, che violenta senza pietà la sua batteria: altro pezzo apocalittico e tellurico, da pelle d’oca. Il bello di Painkiller è che ogni singola traccia da sola vale il prezzo del platter: una sfida incredibile tra le chitarre, un’orgia di metallo magistrale nella quale basso, batteria e chitarre si muovono alla perfezione creando un’orchestra del male che triterà le vostre ossa, demolirà le vostre resistenze inibitorie, vi piegherà prepotentemente sotto la volontà dell’Acciaio, un Signore al quale mai più potrete sfuggire. A Touch Of Evil è una marcia funerea, solenne ed epica, che scandisce il passaggio del MetalGod tra due ali di headbangers adoranti, mentre anche Dio si arrenderà impotente dinnanzi alla sua avanzata autoritaria, implacabile, lenta come questa canzone che profuma di vendetta, cupa e oscura come il mantello di cuoio del Signore delle Tenebre: ripetetelo finchè avete fiato il suo nome, Robert John Arthur Halford: il MetalGod. Vi tremeranno i polsi e vi si gelerà il sangue nelle vene. La chiusura è affidata alla gloriosa One Shot At Glory, che si mantiene ruggente sulla scia delle altre tracce: un inno che accompagna il saluto del MetalGod, a cavallo della sua Harley scintillante. Lo tsunami di metallo è passato, ciclonico, devastante, facendo vibrare la Terra e i cuori di chi respira questa musica. E’ passato, ma è terribilmente presente. E’ lo spettro feroce che tuona nelle notti di tempesta e che esplode vulcanico nelle nostre viscere più oscure quando il Verbo si impossessa nuovamente dei nostri neuroni, pretendendo la devozione assoluta. E’ l’apparizione biblica del peccatore, è il velenoso bacio di Giuda che ammalia oggi e sempre le Legioni della Milizia. Altre parole non servono. Painkiller è l’heavy metal. Non si discute, perchè qui dentro c’è tutto: un cantante inimitabile che piega l’acciaio con la sua estensione vocale assassina, due super chitarristi che definire fenomenali è imarazzante e riduttivo, una sezione batteristica massacrante, potente e compatta come un carroarmato che si scaglia addosso ad un nemico inerme, vittima del suo destino. C’è epica, potenza, aggressività, melodie da capogiro, ritornelli esaltanti, lucida follia e passione ragionata. L’ultima dimostrazione di superiorità che i Judas Priest avevano tenuto in serbo, in attesa del momento più opportuno in cui scatenarla. Tutto quello che avevano fatto prima era sufficiente a distruggere ogni remora nei loro confronti, ma dinnanzi alla recidiva ostinazione di una critica mai soddisfatta il Prete di Giuda ha dovuto sguinzagliare la sua Arma Definitiva, demolendo con violenza innata qualunque cosa abbia trovato sul suo cammino. Poco importa che dopo il tornado Painkiller i Preti si siano presi una decade di sostanziale (e meritato) riposo, privi del loro Condottiero e cullati da una leggenda senza fine che meriterebbe un voto esponenzialmente più alto del canonico 100. Troppo umano e 'normale' per giudicare l’essenza suprema di Painikiller. Da Metallized.it

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