RAM IT DOWN

JUDAS PRIEST [1988], HEAVY METAL
Non potevano essere più diretti, i Judas Priest, nel mettere a punto l’album del gradito ritorno sulla retta via, quella contraddistinta dai riff taglienti delle chitarre e dall’ugola d’oro di Rob Halford, il quale torna a fare il suo dovere nel migliore dei modi possibili. 'Ram It Down' segnò un momento importante nella carriera della band inglese: infatti, oltre ad essere l’ultimo lavoro con Dave Holland dietro le pelli [gli succederà sul rinomato sgabello Scott Travis], ci mostra un deciso ritorno alle sonorità più heavy, quelle più consone al loro stile ed alla loro fama, dopo il fallimento commerciale di 'Turbo'. Quest’album è stato alla base della riscoperta dei vecchi suoni -qui rigenerati- tramite un processo che ha poi portato alla creazione, due anni dopo, di una delle più importanti pietre miliari del metal: 'Painkiller'. Nonostante le buone premesse, però, 'Ram It Down' è ancor oggi abbastanza dimenticato sia dalla band stessa, che lo tralascia senza troppi riguardi durante le proprie esibizioni -pur contenendo, come vedremo, alcuni brani che dal vivo non sfigurano di certo- sia dal pubblico, ché già ai tempi dell’uscita del disco non ne fu soddisfatto appieno; le conseguenze non tardarono a farsi sentire sulle vendite del disco, che risultarono decisamente negative rispetto alla norma. Nella sostanza abbiamo a che fare con un insieme di canzoni potenti, energiche, frizzanti, che mirano tutte insieme ed in modo deciso ad un obiettivo ben preciso, senza concedersi mai a spunti diversi da quelli che ci aspetteremmo da una band come i Judas Priest. L’obiettivo è ovviamente il riconfermarsi secondo i propri reali canoni di fronte ad un pubblico fedele ma tuttavia sempre pronto a guardare con occhio storto eventuali cambiamenti concernenti lo stile. Già dall’acuto iniziale si può capire quanto le cose siano cambiate rispetto all’album precedente, ed i testi, dal primo all’ultimo, con la loro efficacia e la loro esplicicità, aiutano ad indirizzare l’ascolto verso una direzione univoca, quella più saggia, quella di una band che con gli anni si è guadagnata gli onori di un genere immortale ed amato. 'Heavy Metal' è un vero e proprio inno alla nostra musica, e con un titolo così non lascia certo spazio a ripensamenti o fraintendimenti; come si potrebbe non essere piacevolmente travolti dalla qualità vocale di Rob Halford in questo brano? E come non adorare ogni singola nota di 'Blood Red Skies', unico pezzo un po’ diverso, in cui l’atmosfera volge al cupo aumentando d’intensità; 'Love Zone' e 'Come And Get It' completano poi il raggruppamento dei brani meglio riusciti di questa release, presentando sempre una struttura ritmicamente ben delineata e coinvolgente nei suoi riff, per mano del duo Tipton-Downing, così come nei suoi refrain, che ne elevano esponenzialmente le già buone potenzialità di partenza. Discreti si dimostrano anche 'Hard As Iron' e 'I’m A Rocker', situate nella parte centrale del disco, che pur non essendo pezzi di livello eccelso comunque contribuiscono a condurre il lavoro sempre sullo stesso binario sonoro, evitando pericolose collisioni o deragliamenti di sorta. Le canzoni di coda, 'Love You To Death' e 'Monsters Of Rock', pur non ponendosi sui livelli di quelle d’apertura, sanno tuttavia esprimere appieno emozioni sincere e genuine, in special modo la seconda, caratterizzata da ritmi quasi 'doom', a voler esternare tutta la potenza epico-evocativa insita da sempre nello stile da sempre un po’ particolare dei Judas Priest [da non confondersi però in alcun modo con le sperimentazioni pop di cui si parlava in precedenza]. Discorso a parte per la cover di Johnny B. Goode di Chuck Berry, brano blues che viene cromato e metallizzato in maniera interessante dal classico stile dei Priest. Non si capisce come un album discreto -non superlativo, sia chiaro- venga tralasciato in maniera così evidente. Metallized.it

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