TRAIN OF TOUGHT

DREAM THEATER [PROG METAL, 2003]
Una copertina che vuole essere una sorta di gigantesco punto interrogativo -un po’ come tutte le precedenti copertine dei Teatranti- ci inserisce subito nell’atmosfera del disco. I Dream Theater insomma, vogliono ancora una volta stupirci, e ci riescono, in un certo senso. Un occhio che emerge dal terreno, in un bosco, che ci guarda dall’uscita di una galleria, come in attesa. L’intera immagine è realizzata in bianco e nero. Se dovessimo attenerci solo alla cover art, potremmo reputare Train Of Thought uno degli album più riusciti di tutti i tempi. E invece i Dream Theater stupiscono ancora, proponendo un sound più duro e potente rispetto al loro passato. La prima traccia, As I Am ci propone un LaBrie impegnato in una sorta di imitazione di James Hetfield, con delle atmosfere decisamente tendenti ai Metallica, un Rudess poco indaffarato con le tastiere, un Myung intento a seguire fedelmente la ritmica e, ovviamente, un Petrucci e un Portnoy intenti a far emergere se stessi a tutti i costi. Il tutto condito da qualche influenza Alternative che sa molto di Tool e A Perfect Circle. Un pezzo molto gradevole che si lascia ascoltare senza particolare difficoltà, ma nulla di innovativo. Il seguito non si discosta da questa nuova direzione più heavy: mentre ci stiamo ancora chiedendo il perché di un LaBrie costretto a un cantato così diverso dal suo stile, in This Dying Soul Rudess sembra risvegliarsi, con un LaBrie che ancora non ha ingranato, dei ritmi alquanto inusuali per il gruppo proposti dal buon Portnoy e un Myung che continua a mantenersi dietro le quinte. Già nell’introduzione Petrucci si mette in mostra. Undici minuti in bilico tra sofferenza e qualche parte che riesce a emergere: non mancano gli spezzoni abbastanza creativi –il riff di chitarra fondamentale ogni tanto ci ricorda che John P. sa ancora comporre- e un mini assolo di pianoforte che ci propone un Rudess ben in grado di arrangiare; ma alcune parti goticheggianti e alcune arie che continuano a sapere di nu-metal appesantiscono il brano. Interrogandoci ancora su questo pezzo, quasi senza accorgercene scivoliamo in Endless Sacrifice, che lascia ben sperare: un’introduzione costituita da un arpeggio pulito, un bel fraseggio sull’arpeggio, un Portnoy finalmente calmo, un LaBrie che canta con la propria voce, e dei bei arrangiamenti di tastiere e synth accompagnano il tutto. Myung rimane ancora una volta assente. Dopodiché il gruppo torna a percorrere sentieri cupi e potenti in apparenza lontani dalle loro corde. Non male i soli di Rudess. Un’introduzione con una batteria scatenata: Honor Thy Father è la conferma che i Dream Theater hanno voglia di darci dentro pesante con una traccia ancora aggressiva e con sfumature moderne. Al varco, Vacant. Non vi lasciate ingannare dal titolo, nonostante non duri moltissimo (solo due minuti e cinquantasette secondi) questa traccia è tutt’altro che vuota. Un ispiratissimo Rudess al pianoforte accompagna il cantato di James LaBrie, il tutto unito ai suggestivi archi dell’ospite Eugene Friesen. Da qui in poi, i Dream Theater, sembrano aver ingranato. Stream Of Consciousness è una strumentale della durata di circa undici minuti che riprende il tema di Vacant e che non fa pesare un solo secondo di sé stessa. In The Name Of God è la traccia di chiusura, che si apre con un arpeggio e mantiene lo stile oscuro e malinconico delle altre tracce. I riffs si appesantiscono di nuovo un po’, e anche le parti vocali tornano a essere un po’ più pesanti, ma rimangono sempre nella media dell’ottimo cantato di LaBrie. I fraseggi di tastiere continuano a rendere molto gradevole il brano, la batteria di Portnoy riesce a far uscire qualche ottima idea, il basso è ancora poco presente. Intorno al nono minuto un paio di assoli di chitarra ipnotizzano l’ascoltatore, riprendono quasi subito il gradevole ritmo della canzone. Nella conclusione alcuni effetti [campane e cori] si aggiungono agli strumenti che danno il meglio di sé, e con un bellissimo outro di pianoforte la traccia si conclude, insieme al disco. La critica non ha esaltato questo disco in maniera eccessiva, anzi le influenze moderne e aggressive hanno destato qualche fastidio nei tradizionali seguaci di melodie delicate e cantati angelici: ma nel complesso i Theater hanno dimostrato di saperci fare, e alla grande, anche con l'heavy metal più duro. Era scontato.

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