AND JUSTICE FOR ALL

METALLICA [1988], THRASH METAL
L'anno 1986 per i Metallica era stato un tornado di avvenimenti, un viaggio scavezzacollo attraverso un turbine di picchi positivi e altri terribilmente ne-gativi: l'uscita del monumentale 'Master Of Puppets' aveva segnato l'apice della grandezza della band, certo, ma la morte incidentale di Cliff Burton a-veva rischiato di mandare al diavolo tutta una carriera. I thrashers california-ni però non demordono, ingaggiano Jason Newsted al basso e si risiedono attorno ad un tavolo per mettere ancora una volta la violenza in musica. Na-sce così, dal dolore per la perdita di un caro amico, 'And Justice For All', immersione coraggiosa nel claustrofobico mondo della giustizia che mantie-ne le peculiarità cupe, potenti e devastanti tipiche dell'ensemble di San Francisco, a cavallo tra tracce di debordante thrash metal e altre impostate attorno ad un canovaccio di pesantissimo heavy classico, il tutto arrangiato attraverso un'evoluzione tecnica che tocca i suoi apici compositivi. Pezzi molto lunghi e articolati, decine di riffs esaltanti distribuiti copiosamente tra i vari componimenti, cambi di tempo improvvisi, stacchi, ponti e assoli spaziali portano ad un ulteriore grado di stratificazione le canzoni già polidimensionali della straordinaria corazzata Metallica, capace come poche altre band di rinnovarsi ed evolversi senza perdere le radici con il proprio sound inconfon-dibile. Liricamente, 'Justice' è un manifesto aperto che inneggia alla libertà e al rispetto dei diritti, denunciando la guerra e ogni altra subdola forma di ve-leno che ci viene somministrato ogni giorno. I ritmi serrati, martellanti e bat-tenti di 'Blackened', introdotta da un'intro melodica [come per le precedenti opener 'Fight Fire With Fire' e 'Battery'], aprono l'album sputando in faccia all'ascoltatore una storia terrificante, che parla della distruzione della Terra e della razza umana, e di una nuova era glaciale dovuta ad una guerra nucle-are. E' uno dei pezzi più veloci della band, una traccia di cui colpisce la grande maturazione di Lars Ulrich dietro le pelli: la tecnica e la robustezza batteristica soppiantano lo stile più grezzo e istintivo dei lavori precedenti, regalando un sound ancora più possente al disco e fornendoci scroscianti e cospicui passaggi eseguiti col doppio pedale. Anche l'incendiario e fluido as-solo di Hammett, infervorato da velocità elevate e da un mirabile stop’n’go, contribuisce a  renderlo uno dei migliori brani dell'intera carriera dei Metalli-ca. La lunghissima title track denuncia la corruzione del sistema giudiziario americano [e non solo], aprendosi su un arpeggio armonico prima di un cre-scendo di battiti che fanno esplodere la traccia nella parte centrale della strofa. Il pezzo è potentissimo e ricco di cambi di tempo, e pur non toccando le velocità thrash più serrate rappresenta un manifesto ideale che sintetizza il complesso technical thrash intrapreso sin da 'Ride The Lightning' ed ora giunto a livelli elevatissimi. Pur difettando lievemente nella qualità della pro-duzione, l'album si presenta alla storia come il più tecnico dei Metallica: i quattro cavalieri dimostrano di aver raggiunto una perizia compositiva-pratica considerevole, pur mantenendo livelli elevatissimi di aggressività e pesantezza del suono; lo stesso Hetfield sfrutta la sua voce in modo più compatto e vario: non sono in pochi a scorgere in questo disco la prova mi-gliore per il singer americano. 'Eye Of The Beholder' esamina la libertà di scelta, spesso censurata a favore delle scelte che gli altri ci fanno compiere: è una canzone molto sottovalutata, come molte altre del resto, in questo al-bum che non sempre raccoglie i tributi che merita. Il ritmo stentoreo e potentissimo, cadenzato e tritacervelli ma ancora capace di condensare striature tecniche esaltanti [come quelle udibili nel corso del pregevole guitar solo] lascia presto spazio a 'One', uno dei capolavori immortali della band. Una ballata atroce che innesca, tra spari ed esplosioni, un ritmo malinconico capace di divampare nel finale, sfociando in un assolo orgasmico dalle trame intricate ed incendiarie: una cascata turbinante di note bollenti, proprio come in precedenza erano state 'Fade to Black' e 'Sanitarium', le altre 'lente' dei dischi precedenti [sempre collocate alla traccia numero quattro]. 'One' parla di una storia vera, quella di un ragazzo americano partito per la II guerra mondiale come volontario ma rimasto cieco, muto e privo di tutti gli arti: costretto a vivere collegato ai macchinari e senza poter nemmeno chiedere che gli venga staccata la spina dell'ossigeno. 'One' è una delle canzoni più amate dai fan, e non manca praticamente mai nei concerti. Le frustate soffocanti di 'Shortest Straw', scoccate in velocità e con forza repentina,  raccontano dell'ingiustizia subita Julius ed Ethel Rosenberg, condannati alla sedia elettrica con l'accusa di essere spie sovietiche solo perché simpatizzanti comunisti; altro pezzo storico della band è l'ambigua 'Harvester Of Sorrow', un brano di interpretazione davvero ardua, visti i molteplici significati che vi ci si possono leggere. Alcuni pensano parli di un uomo che, drogato e alcolizzato, tortura i suoi cari prima di ucciderli; altri pensano si riferisca ad un rapporto difficile tra James e suo padre, mentre altri ancora parlano di una canzone incentrata su schiavitù, aborto e istigatori del male; infine, c'è chi pensa si tratti del genocidio degli ucraini ai tempi dell'URSS, quando i russi si appropiavano dei loro raccolti. La canzone si delinea truce e molto pesante, certamente non veloce, accodandosi alla tipologia di heavy song più slowly alla quale la band ci ha abituato, leggasi 'For Whom The Bell Tolls' e 'The thing That Should Not Be'. Stupenda è anche ‘Frayed End of Sanity’, un mid.tempo lungo e articolato, infarcito di riff affilati e accelerazioni trash: il fatto che questi spruzzi di veleno rimangano disseminati lungo un pezzo non velocissimo contribuiscono a fare di questa composizione un episodio variegato e ricco di spunti, che ancora una volta culmina nell’esplosivo e trepidante assolo di chitarra. La successiva, emozionante, 'To Live is to Die' è un'immensa composizione strumentale dedicata a Cliff Burton, di oltre dieci minuti di durata: la melodia struggente, gli intrecci labirintici, i copiosi cambi di tempo e la sua ricca vetrina di riff la rendono un tributo monumentale al compianto ex compagno, nonchè una sublime dimostrazione dell'eccelsità tecnica raggiunta dall'act californiano. Scritta partendo da versi vergati proprio dalla mano di Cliff, ha una parte centrale in cui James recita i versi di una breve poesia sul mistero dell'esistenza scritta dallo stesso bassista prima della sua triste fine. La conclusiva 'Dyers Eve' è un altra mitragliata spettacolare per foga, rapidità d'esecuzione, sezione solista dinamitarda e perfezione stilistica: una sfuriata thrash in tutto e per tutto, serrata e furibonda secondo gli stilemi tipici del genere; un up-tempo dinamitardo e devastante che riporta i Metallica ale loro radici, descrivendo la storia di un giovane uomo [probabilmente James] che rinfaccia ai bigotti genitori tutte le sofferenze che le loro imposizioni gli hanno creato, credendo di proteggerlo ma in realtà isolandolo. Cruenta, feroce, rapidissima: 'Dyers Eve'  fa il verso a 'Damage inc' e pone il sigillo sul disco, una miragliata che ribadisce come la corona del thrash sia ancora salda sulla capoccia di un combo che, però, sa sferrare degli attacchi ultracomplessi e dalla tecnica elevata.

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