IRON MAIDEN [1992], HEAVY METAL
L'istituzione Iron Maiden incorpora da sempre nella sua iconografia sonoro-visiva l'essenza storica dell'heavy metal stesso. Prima con l'album omonimo, datato 1980 e capace di riportare in auge questa corrente musicale, e poi con capolavori del calibro di The Number Of The Beast, la leggendaria formazione inglese aveva compiuto passi da gigante verso la leggenda al quale possono ambire solo pochi grandissimi. Tuttavia, nel 1992, Steve Harris, bassista e leader carismatico del gruppo, stava assistendo ad un periodo poco felice per la sua creatura, che tra l'altro sarebbe sfociato di lì a poco nello split con l'ugola storica Bruce Dickinson, attratto dalle sirene di un'avventura solista. Due anni erano passati dal mezzo flop di No Prayer For The Dying, mal accettato dai fans di vecchia data ancora troppo legati ai fasti di album spaziali come Powerslave e poco inclini agli ammodernamenti stilistici successivamente introdotti. Fear Of The Dark sembra riportare il sorriso sulle labbra degli aficionados, anche se sarà l'ultimo squillo della prima parte di carriera della Vergine di Ferro; tuttavia il disco non è ancora al livello dei classici e finisce spesso per essere sopravvalutato da critica e fans. E questa recensione, che scatenerà forse polemiche e opinioni contrastanti -ma questo non può essere che positivo, perchè ognuno ha i propri gusti e il dialogo educato è alla base del vivere civile- cercherà di infilarsi dentro alla pancia del platter, per spiegare come e perchè esso gode di una stima comune e di una popolarità notevole di gran lunga superiore a quella che si merita effettivamente sul campo. Il biglietto da visita di Fear Of The Dark è tambureggiante, scandito da un riff scoppiettante come quello di Be Quick Or Be Dead, pezzo dalla ritmica molto veloce e dal mood travolgente sul quale giganteggia un Bruce Dickinson dal tono insolitamente aspro. Decisamente una canzone dura e diretta, sul quale cola liquido il classico assolo di meravigliosa fattura maideniana, per aprire il disco nel migliore dei modi. La seconda traccia, From Here to Eternity, è tuttavia un lieve passo indietro, che colloca il sound del quintetto britannico più in direzione hardrock che non esplicitamente metal: e sarà una caratteristica ricorrente, se è vero come è vero che altre tracce in scaletta saranno contraddistinte da un taglio rockeggiante molto elegante e leggero, ma privo talvolta di mordente (Chains of Misery, The Apparition, Weekend Warrior che sembra parlare di hooligans, brani secondari, easy, nei quali spiccano solo i sempre validi solos di chitarra). L'hardrock è certamente nel DNA dell'ensemble inglese, ma l'heavy metal è quanto riesce meglio e più incarna l'essenza dell'act di Mr. Harris, che infatti giganteggia in canzoni del calibro di Afraid to Shoot Strangers, intricato e prolungato esempio del classico stile Iron Maiden, strutturato in pezzi lunghi, complessi, capaci di emozionare con lunghe introduzioni lente e solenni che successivamente sfociano in riffs di rara bellezza e malinconia, in accelerazioni spettacolari e grondanti enfasi, mirabolanti progressioni di chitarra all'unisono, rallentamenti evocativi e assoli cristallini dalla melodia stupefacente. Insomma, un piccolo gioiellino che si potrebbe benissimo collocare sull'olimpo delle grandi composizioni ottantiane. Come del resto la titletrack, Fear Of The Dark, altro meraviglioso monumento all'heavy metal melodico e polidimensionale proposto dalla seminale formazione londinese. Capaci come pochi di proporre cambi di tempo, di atmosfera e di melodia, gli Iron Maiden aprono il pezzo con un arpeggio malinconico ed un riff dolce, sul quale Bruce Bruce sussurra i suoi versi oscuri con passionale intensità; dal lento si passa improvvisamente al veloce, vale a dire ad un rifff travolgente e l'inconfondibile ritornello da cantare in coro, ancora oggi immancabile nelle esibizioni live. Così come Afraid to Shoot Strangers, anche Fear Of The Dark è accostabile alla leggendaria Hallowed Be Thy Name per la sua struttura piano-forte, con rallentamenti e folgoranti ripartenze infuocate dagli assoli squillanti e irresistibili di Dave Murray e di Janik Gers, colui il quale aveva da poco raccolto la pesante eredità di Adrian Smith. Posta a conclusione del platter, la title track costituisce una delle tre gemme assolute del full length assieme alla citata Afraid... e all'opener Be Quick Or Be Dead: pezzi decisamente all'altezza della tradizione maideniana, che da soli cancellano il basso valore di quelle canzoni-riempitivo dal taglio rock poco incisivo di cui si è detto sopra. E il resto? Poco aggiungono al computo del disco la sopravvalutata ballad Wasting Love o l'oscura e ossessiva Fear Is the Key, mentre appena più piacevoli risultano The Fugitive, che alterna un riff teso ad un altro molto rilassato, e Judas Be My Guide, dal ritornello orecchiabile e dal sound leggermente più potente. Molto bella invece Childhood's End, impreziosita da un paio di riff evocativi da brividi: grande melodia, pezzo serioso e dall'atmosfera drammatica con l'immancabile sezione strumentale che accelera di colpo per lasciare esterefatto l'ascoltatore, con la sua bellezza ed intensità melodica. Childhood's End si colloca giusto alle spalle delle tre gemme principali di questo full length, che per il resto, dunque, rimane nella media senza troppi clamori. Per questo il platter risulta essere, a conti fatti, di gran lunga sopravvalutato dal giudizio collettivo, troppo influenzabile dall'efficacia di uno o due pezzi trainanti. Quattro grandi canzoni non possono costituire un disco leggendario, e così Fear of The Dark rimane un ottimo album che, forse, aquisirà ancor più valore affettivo in seno ai fans della Vergine di Ferro in quanto ultimo della prima era Dickinson. Superiore sia a No Prayer che a quanto i Maiden sapranno fare nell'era Bayley, ma lontano dall'accostamento coi mostri sacri della decade precedente.
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