SEVENTH SON OF A SEVENTH SON
IRON MAIDEN [1988], HEAVY METAL
Up The Irons, sempre al vertice. ‘Seventh Son of a Seventh Son’ è l'ennesimo grande album degli Iron Maiden, che stavolta si cimentano in sonorità più progressive e sinistre. Il tipico sound della band resta al centro del disco, ovviamente, con le sue melodie trascinanti e l'enfasi rockeggiante ben distillata da Harris e Smith; a questi elementi si aggiungono sonorità più marcate ed un velo di oscurità che permettono all'album di discostarsi ancora una volta dai predecessori. Le stesse linee vocali del grande Bruce Dickinson toccano momenti di oscurità sinistra che portano nuovo valore al repertorio già esteso della sirena di Worksop. 'Seventh Son' è la chiusura del cerchio, l’ultimo sigillo della prima metà della gloriosa carriera della Vergine di Ferro: l’ultimo album di grande livello prima di una piccola flessione. Il disco, dal punto di vista della modernità si mantiene sulla linea del predecessore 'Somewhere In Time', con sintetizzatori ed effetti speciali in buona dose. L’album è un concept che parla di moralità, misticismo, reincarnazioni e visioni profetiche; il livello tecnico della band tocca il suo vertice storico: l’armata Iron Maiden spiega le sue forze con efficacia disarmante, implacabile e compatta. Un discorso solenne di Bruce Bruce e l’intro sintetizzata di ‘Moonchild’ iniziano il disco: l’opener si apre solenne e caratterizzata da una voce cupa e aggressiva. Parla della figlia della Luna, punita per aver commesso i sette peccati capitali. La successiva ‘Infinite Dreams’ è un lento carico di epicità e patos crescenti; narra di sogni e visioni, e del desiderio di continuare a vivere questi sogni, per capire a dove possono portare. Il primo singolo estratto, ‘Can I Play With Madness’, diventa un classico della Vergine di Ferro: vivace e allegra, ha un ritornello tentatore difficile da togliere dalla testa. In essa è narrata la storia di un giovane che crede di impazzire e non si fida nemmeno del profeta al quale decide di rivolgersi per capire se stesso. Un pezzo davanti al quale togliersi il cappello è la splendida ‘The Evil That Men Do’: un dolce giro di chitarra antecede una parte molto solenne; Dickinson canta con timbro oscuro e sapiente prima di aprirsi nello splendido ritornello. Il livello tecnico è come sempre elevatissimo ed è interessante notare come ben sposi la sua complessità con la semplicità diretta della struttura e del testo. La canzone è tratta da un dramma di Shakespeare e cita il discorso fatto da Marco Antonio ai Romani dopo l'assassinio di Giulio Cesare. Si arriva così ai dieci minuti dieci dell’epicissima title track: introdotta da cori e da un lungo giro di chitarra, è intricata e marziale nelle linee vocali del singer. Sottofondi tastieristici e il ritornello deciso definiscono nel complesso il quadro di un pezzo che si allinea alle varie ‘The Rime Of The Ancient Mariner’ e ‘Alexander The Great’ in quanto a lunghezza, tecnica, epicità e complessità storico-lirica della struttura. Sulla stessa linea stilistica è ‘The Propecy’, dove una volta di più spiccano le doti di Bruce Bruce. ‘The Clarvoyant’ è aperta da un riff affascinante e con lo scorrere dei minuti si velocizza ed enfatizza. Le chitarre cristalline di Adrian Smith e Dave Murray danno un’impronta tecnica e rocciosa al pezzo e al disco nel suo insieme. La title track e i due brani successivi sono tratti dalle novelle di Orson Scott Card e parlano di un giovane considerato prescelto e guaritore ma non ritenuto tale dalla gente del suo villaggio: su essi si scaglia la dannazione, e lui si fa trovare impreparato al cospetto del Creatore. La coppia d’asce resta protagonista, ovviamente, anche in ‘Only The Good Die Young’, un altro gioiello: riff morbidi ammaliano l’ascoltatore, che viene inevitabilmente trascinato dai riff morbidi e dal ritornello melodico, molto bello. Il messaggio dice che solo chi è buono muore giovane, mentre per tutti gli altri peserà la coscienza. E’ il brano conclusivo di quella che rimarrà per anni l’ultima meraviglia della collezione maideniana, il settimo figlio di un decennio strepitoso per l’heavy metal: gli anni ottanta. Ormai la discografia del combo di Steve Harris può vantare un palmarès prestigioso di tecnica, varietà, aggressività e melodia: due dischi grezzi in punk attitude all’esordio, il capolavoro heavy di ‘The Number Of The Beast’, qualche cartuccia più melodica [‘Piece Of Mind’], il concept-monstre di ‘Powerslave’ [sontuoso per tecnica, struttura e perfezione quasi debordante nel progressive], gli esperimenti modernistici di ‘Somewhere In Time’, carico di melodia e con l’introduzione di tastiere e sintetizzatori. Adesso, questo capitolo più maturo e solennemente melodico ma sempre in heavy-power style. La leggenda, ormai, è compiuta.

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