SIX DEGREES OF INNER TURBOLENCE

DREAM THEATER [2002], PROG METAL
Dopo lo straordinario successo di Metropolis Pt.2 davanti agli occhi Dream Theater si prospettavano due diramazioni per proseguire la propria carriera che, proprio nel biennio 1999/2000, dopo la pubblicazione di Scenes From A Memory, aveva raggiunto l'apice, o comunque i livelli di fama del debutto Images & Words. Se da un lato, la tentazione di bissare il successo di critica e pubblico registrato con SFAM era grande, dall'altro, il gruppo di New York aveva sempre -fino a quel punto- tentato di evolvere album dopo album. Ed è proprio questa la chiave di lettura del pachidermico Six Degrees Of Inner Turbulence: un'evoluzione, o meglio ancora, un'evoluzione compiuta solo per metà. Col senno di poi possiamo dire che Six Degrees Of Inner Turbulence è un bivio, un turning point nella carriera dei Dream Theater. In effetti, pur volendo considerare i due dischi come uno solo, risulta davvero difficile ignorare quanto il primo progredisca sulla strada che porterà a Train Of Thought, mentre il secondo sia più legato al passato dei Dream Theater. Come detto, ci troviamo di fronte ad un doppio album. Due dischi che sono una radiografia del corpo camaleontico dei Dream Theater targati 2002. Il primo disco è quello più sperimentale se vogliamo, o comunque che si discosta da quanto fatto nell'immediato passato del gruppo di Long Island. Lo stupore emerge improvviso al primo ascolto dell'opener 'The Glass Prison'. Una cattiveria ed un'aggressività senza eguali, forse paragonabile solo all'accoppiata schiacciasassi The Mirror-Lie dei tempi di Awake. La canzone è l'inizio della saga degli alcolisti anonimi che Mike Portnoy iniziò a scrivere in seguito ai suoi noti problemi con l'alcool. E' proprio Portnoy a pronunciare le prime parole di questo album. Un duetto serrato con l'ugola di LaBrie, sulla quale vengono applicati i primi filtri, nel riuscito tentativo d'incattivire la sua voce. Considerando che il pezzo comincia con i rintocchi di una funebre campana, a cui si va a sommare -dopo un minuto e quarantasette secondi- il riff più sporco e tagliente partorito dalle mani di John Petrucci fino a quel momento, lo shock di migliaia di era più che giustificato all'epoca dell'uscita del disco; non è stato facile dimenticare le melodie di Scenes From A Memory per abituarsi a tanta violenza sonora. Un gran bel pezzo, non c'è che dire. Una canzone che solo nel finale mette in mostra la melodia a cui i Dream Theater ci avevano abituato. Inizio in sordina per 'Blind Faith' che -almeno nella prima parte- ci fa riprendere fiato dopo la folle corsa di 'The Glass Prison'. Un inizio melodico che LaBrie interpreta magistralmente fino a metà pezzo, quando sono John Petrucci e Jordan Rudess a salire in cattedra per regalarci una prova straordinaria, impreziosita da una sequenza di assoli tra le più belle della discografia dei Dream Theater. Segue la riflessiva 'Misunderstood' che sprigiona tutta la propria rabbia in un refrain non molto articolato ma ricco di pathos. 'The Great Debate' è una bellissima riflessione di carattere etico-morale sull'utilizzo delle cellule staminali per la ricerca scientifica sulle malattie. La canzone attraverso i suoi tredici minuti di durata si muove sinuosamente sulle voci dei reporter fino a dare sfoggio della propria potenza in un ritornello molto riuscito. Chiude il primo disco la triste Disappear che, pur non toccando picchi di qualità assoluta, riesce ad emozionare con la tragica storia d'amore narrata nel testo; testo dal quale traspare un mood tutt'altro che positivo: uno stato d'animo fatto più di ombre che di luci. Questa ultima frase è certamente estendibile all'intero primo disco di Six Degrees Of Inner Turbulence. Col secondo disco -una sola canzone divisa in otto movimenti- i Dream Theater cambiano musica. E lo fanno in maniera netta ed evidente. La melodia che aveva caratterizzato quel capolavoro di Scenes From A Memory viene riversata senza remore tra i solchi di questo secondo supporto di silicio. Il pezzo (quarantadue minuti di durata) rappresenta sei diverse patologie; sei diversi modi di soffrire; sei diversi stati d'animo; sei diverse visioni della realtà. Progetto ambizioso che si palesa nel primo movimento operistico, l'Overture appunto. Una bel incipit dove Rudess si mette in evidenza per le melodie ariose. Proprio il suo pianoforte apre 'About To Crash' che ci parla di una ragazza con iperbolici sbalzi di umore che la fanno cadere in depressione. La canzone -nonostante la materia trattata- ha un piglio più solare e meno dark rispetto al primo disco, cosa che non si può dire delle seguenti 'War Inside My Head' (i fantasmi che ritornano nella mente di un ex soldato) e 'The Test That Stumped Them All' (battaglia tra uno schizofrenico e i suoi medici tra le mura di un manicomio). In effetti, la prima trasuda Napalm durante i suoi due minuti di durata, mentre la seconda riproduce in maniera verosimile la prospettiva del paziente per mezzo della sua ritmica asfissiante e psicotica. Torna la calma e la dolcezza con 'Goodnight Kiss' che racconta l'eterno dramma di una madre che non vuole rassegnarsi alla perdita della figlia. Molto bello l'incedere della chitarra di Petrucci che simula il crollo delle condizioni cliniche della paziente. La magnifica 'Solitary Shell' incanta col racconto di un ragazzo con difficoltà di adattamento alla realtà. Letteralmente da brividi la parte finale con la coppia Rudess/Petrucci sugli scudi. 'About To Crash (Reprise)' riprende la traccia numero due sviluppandola ulteriormente in una direzione più rockeggiante all'inizio, ma che poi sfocia nella maestosità dell'incipit di 'Losing Time/Grand Finale', ultima traccia di un'opera dai temi insoliti che manifesta tutta la sua gradeur proprio nella melodia di quest'ultimo pezzo. In definitiva, Six Degrees Of Inner Turbulence è un buonissimo album. Non è un classico della band, perchè l'eccessiva lunghezza penalizza -a tratti- la riuscita finale del prodotto. Ma è fuor di discussione che questo è l'ultimo album dove i Dream Theater hanno osato senza pensare alle conseguenze; è un salto nel buio senza preoccuparsi di cadere in piedi.

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