IL PUNTO IN CASA IRON MAIDEN
HALLOWED BE THY NAME
DI RINO GISSI, TRATTO DA 'METALLIZED.IT'

Quelle copertine coloratissime e sconcertanti, un mostriciattolo scheletrico dalle fattezze di pseudo-zombie, il logo rosso sgargiante, un impatto grafico capace di rapire generazioni di grandi e piccini, quel sound inonfondibile costruito su potenza epica e fluida melodia, cascate di note esplose in meravigliose galoppate: la memoria corre indietro nel tempo, ricordi ed emozioni si acavallano mentre, per l’ennesima volta, la nostra mente e i nostri occhi si poggiano sullo sguardo dilaniato di Eddie the Head. Non ci vorrà poi molto a ripassare la storia, basterà il riff secolare di 2 Minutes To Midnight o l’assolo sfibrante di Phantom Of The Opera a risvegliare sensazioni mai sopite; e allora la nostra fantasia volerà ancora verso la Londra del Ruskin Arms oppure tra le Piramidi di Powerslave, nella cybercity di Somewhere In Time o tra l’inquietante notte di Fear Of The Dark. Ci sono kolossal cinematografici e best seller letterari capaci di sfidare l’incedere del tempo con la loro grandezza, ci sono canzoni e album destinati a rimanere per l’eternità nei cuori e negli stereo degli appassionati: e tra questi, molti hanno impresso quell logo rosso sgargiante e il mostriciattolo scheletrico sulla copertina. Lo avrete capito –e altrimenti fatevi visitare da uno bravo-, si parla degli Iron Maiden, si parla della leggenda. L’attesa per il nuovo album della band inglese era cresciuta progressivamente man mano che l’estate entrava nel vivo, e ora che The Final Frontier è uscito nei negozi è inevitabile riaprire il baule dei ricordi, fare il punto della situazione e chiedersi che cosa ancora possiamo aspettarci dalla Vergine di Ferro. Dire Iron Maiden equivale a dire heavy metal: l’immaginario collettivo accosta istintivamente la band di Steve Harris, assieme ai Metallica, alla parola ‘acciaio’ in un ipotetico dizionario della musica dura, e i motivi son presto spiegati: un sound rivoluzionario ostentato con testardaggine mentre nel Regno Unito dominava il punk, una passione per l’heavy metal perpetuata fino a rinnovare e modernizzare con classe, energia e melodia le sorti del movimento stesso, una corrente di nuove leve –la NWOBHM- guidata con prepotenza dall’alto di concerti spettacolari e dischi leggendari, se è vero come è vero che dall’omonimo Iron Maiden a Powerslave l’ensemble britannico non ha fallito un colpo, sfornando di anno in anno una nuova ‘raccolta di classici’ tutt’oggi riproposti in sede live. Maiden & Metal, un binomio inossidabile, capace di arrivare persino alle orecchie (e agli occhi) di chi di metal non ne capisce un tubo, grazie a quelle melodie straripanti e a quelle copertine magnifiche capaci da sole di costruire un mondo a parte, un universo parallelo, fatto di sogni (per chi li ama) ed incubi, per chi li teme e, soffocato dalla propria ignoranza, si aspetta dalla Vergine di Ferro musica brutale, confusa e blasfema. Lo stereotipo del metallaro puzzolente ed ignorante viene completamente annullato dalla sontuosa grandezza di una band che ha saputo abbattere tabù e aprire nuovi sentieri, con i testi storici, letterari, mitologici e cinematografici cantati da un uomo colto come Bruce Dickinson, animale da palco e cervellone bilaureato che è praticamente da sempre –o, meglio, da quando Mister DiAnno trangugiò l’ennesima birra che fece traboccare il vaso del morigerato Steve Harris- l’interprete dell’essere Iron Maiden in tutto e per tutto, nei valori come nell’implacabile irruenza visiva, nella ricercatezza del pensiero come in quella tecnico-musicale. Mamma ignoranza è sempre incinta, e allora chi non capisce si limiterà a continuare a credere negli Iron Maiden ‘satanici’ di The Number Of The Beast (ma alla fine quella canzone parla semplicemente di un incubo) allontanandosi dalla realtà di sei ragazzoni innocui come agnellini e dalla passione sfrenata per la propria musica, sicuramente frenetici e implacabili quando calcano un palco ma del tutto ammirevoli nelle proprie vite private, persone umili e simpatiche prim’anzi che rockstar. Avranno anche un conto in banca mastodontico, ma sicuramente loro lo meritano più di una qualsiasi Madonna o di una Lady Gaga da quattro soldi, pseudo-artisti che farebbero una figura migliore al fianco di Charlotte The Harlot piuttosto che in un’arena colma di illusi.

C’è chi dei Iron Maiden non ne avrà mai abbastanza (e siamo in tanti), c’è chi invece non avrà pietà, che si tratti di merchandising, che si tratti del nuovo album o che si tratti semplicemente di discutere il valore, attuale e passato, della seminale formazione britannica, capace come solo i Metallica di scatenare commenti contrastanti in quantità torrenziale, capace di catalizzare le attenzioni e le discussioni, a dimostrazione del fatto che, nel bene o nel male, la fanciulla di Ferro non passa mai di moda. Amati e odiati, non ai livelli dei Four Horsemen ma questo è solo un merito del combo di Steve Harris, che difficilmente è caduto in basso sotto il livello di sufficenza nella qualità degli studio album, mai venduti spudoratamente alla causa commerciale, e parliamo puramente di musica e non di ciò che gli gira intorno: quegli ultimi tre album sono lì a ribadirlo, con fierezza, e il nuovissimo The Final Frontier è tutto da scoprire, cero è che difficlmente Sir Harris si può permettere uno scivolone proprio ora, proprio in coda, ora che dei veterani i Iron Maiden sono quelli più in forma. E chi ne dubita vada a notare che i Judas Priest non pubblicano un grande disco ormai dal 1990, che i Black Sabbath non esistono più, che Slayer e Megadeth pestano sull’acceleratpre ma l’originalità e la vitalità degli anni migliori è ormai lontana, che i Manowar si sono dati a frivoli sinfonismi, che i Metallica sembrano catturare ormai da un pezzo più sorrisini ironici che simpatie. Sono ancora qui e in gran forma, questi vecchietti indistruttibili, ancora sulla breccia dopo aver attraversato cinque decenni di musica dura: i Seventies, gli Eighties, i Nineties, gli zero e ora gli anni ’10, sempre capitanati da quel furbastro di Steve Harris, con la sua chioma sempre fluente e lo sguardo da volpone, di chi la sa lunga, di chi ora è potente e può permettersi di decidere qualsiasi cosa riguardi le sorti della Vergine di Ferro: canzoni, registrazioni, tour, promozioni, rapporti con i media, case discografiche, fans. Un uomo potente che tiene saggiamente nelle sue mani il pallino di un enorme business come oggi è la sua band, un uomo che non ha mai voluto scendere a compromessi e che con la sua testa dura e l’occhio lungo non ha fatto che meritarsi tutto il successo e la ricchezza di cui ora gode. Perchè dobbiamo ricordarci di quando era il punk a dettare legge e lui rifiutò di abbassare la testa, dobbiamo ricordarci del fenomenale bassista che è stato e che è ancora oggi, naturalmente, padre putativo di decine di canzoni che hanno segnato la storia di intere generazioni. Harris è innanzitutto questo, l’anima pensante e trepidante dei Maiden prim’ancora che il loro boss assoluto. Poi c’è lui, naturalmente, il Re assoluto, l’istrionico Bruce Dickinson, un animale da palco che negli anni migliori era un’attrazione superlativa, una trottola incontenibile che schizzava da tutte le parti.

Cosa può dirci di nuovo un album inedito degli Iron Maiden nel 2010, a trent’anni esatti dall’esordio e a dieci dal primo capitolo della reunion col figliol prodigo, quel Bruce Bruce che la Vergina l’aveva condotta all’apice e l’aveva poi lasciata ad un decennio di stenti (i Nineties), affidata alle cure vocali del povero Blaze Bayley, coraggioso e volenteroso ma troppo piccolo per reggere il peso delle enciclopedie? La nuova triade di pubblicazioni iniziate da Brave New World aveva riannodato i fili della cronologia spezzati dopo lo split pre-X Factor, riscoprendo il gusto per le galoppate e evolvendo un certo gusto per le trame progressiste nell’act inglese, che si trovava ora con tre chitarre su uno stesso palco (storie di addii e ritorni, riconoscenza e sentimenti a prevalere sui contratti); quattro anni sono passati dall’ultimo A Matter Of life And Death, quattro anni in cui i Nostri non se ne sono stati con le mani in mano, ma hanno anzi fatto la felicità dei detrattori che li accusano di eccessivo attenzione per il business: negli anni 2000 sono state pubblicate la bellezza di quattro diverse raccolte, cinque live (tra nuovi e vecchie reliquie rispolverate, come Beast Over Hammersmith risalente al tour di The Number Of The Beast) comprendenti l’ultimo monumentale Flight 666 -documentario di un tour-nostalgia dedito alla riproposizione dei classici ottantiani con tanto di scenografia ‘egiziana’ ereditata dai ruggenti Powerslave’s years- e sette DVD video. I fans più accaniti, insomma, avranno il portafogli in lacrime. Eppure qualcuno crede ancora nell’ispirazione della mitologica band inglese, che ha ancora qualcosa da dire soprattutto in America: a differenza dell’Europa, il Nuovo Continente non ha una cultura musicale storica abbastanza fedele da ‘imporre’ alle band scalette imeprniate sostanzialmente sul vecchio materiale, ma accetta di buon grado l’esibizione del repertorio recente. I ragazzini americani tra A Matter Of life And Death, e The Number Of The Beast, probabilmente, preferiranno sempre acquistare il primo. In Europa il discosso è diametralmente opposto, e il fatto si ripercuote on the road: fino a qualche anno fa sarebbe scoppiata una rivoluzione, probabilmente, se i Maiden si fossero presentati in Italia o in Germania con una scaletta come quella suonata il 9 giugno a Dallas, nella prima data del loro nuovo tour mondiale: The Wicker Man come opener è già di per sè un oltraggio a chi non concepisce un’intro non affidata all’irruzione orgasmica della classicissima Aces High, per non parlare poi del succedersi di pezzi tratti quasi esclusivamente dagli ultimi tre dischi in studio: Brave New Eorld e Paschendale, Wildest Dream e No More Lies; Gost Of Navigator e Blood Brothers. Solo nei bis sono arrivate le varie The Number Of The Beast e Hallowed Be Thy Name. In Europa sarà così? Difficile dirlo, anche se nell’esibizione di Wacken gli inglesi si sono mantnuti su una setlist ‘moderna’; molto probabilmente la folla invocherà fin da subito Wratchild e Run To The Hills, perchè uno show della Vergine di Ferro senza The Trooper è qualcosa di inimmaginabile. Certo, l’Inter ha vinto la Champions League e l’America ha eletto il suo primo Presidente di colore, ma i Maiden non sarebbero i Maiden se privati della loro essenza ottantiana.

Quel nucleo che profuma di passato è quanto in molti si augurano di trovare nel nuovo The Final Frontier, che però non promette di lasciare troppo spazio alla nostalgia fin dalla copertina, affidata alla matita di Melvyn Grant (le cover storiche sono opera del celebre Derek Riggs), ci sbatte in faccia un Eddie troppo diverso da quello che ha allietato l’infanzia di intere generazioni di headbangers; ma se andiamo oltre, e cioè puntiamo dritto alla musica, ci rendiamo conto che Harris e soci stanno cercando di continuare un discorso. Un discorso progressivo iniziato nell’era della Reunion, e ciò si deduce dalla notevole lunghezza dei dieci pezzi previsti in scaletta, per un totale di 76 minuti e mezzo di durata (non certo pochi): dai 4 minuti e mezzo di The Alchemist agli 11 della conclusiva When The Wild Wind Blows. Sulla rete e prime date del tour la band ha presentato uno dei tanto attesi nuovi pezzi, El Dorado, che sul web sta riscuotendo consensi ma che non appare particolarmente esaltante nelle linee vocali, anzi alquanto ripetitiva; le parti strumentali sono dure e convincenti, il taglio stilistico è accostabile a quello dei pluricitati ultimi tre album ma sinceramente ci si attende qualcosa di più coinvolgente da chi ha scritto pagine di musica troppo forte e troppo importante. L’album è finito persino negli special dei telegiornali nostrani, il che aiuta a comprendere la fama e la portata di questa realtà. Rispetto, fama e tradizione grondano ormai da un bel pezzo sotto il gonfalone della truppa britannica, e non sarà questa ultima frontiera ad attaccarlo: attendiamo curiosi di scoprire l’ultimo pargolo di Sir Harris, consapevoli del fatto che questo non cambierà di una virgola –nel bene e nel male- ciò che il popolo di cuoio e metallo nutre e deve nutrire nei confronti di questa istituzione.

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