THE NUMBER OF THE BEAST: I TESTI

RINO GISSI, METALLIZED.IT
Con l'ingresso in line-up del nuovo cantante Bruce Dickinson, gli Iron Maiden svoltano verso un sound potente e maestoso, che volge lo sguardo al power metal, abbandonando ogni parvenza di sonorità street-rock; vengono centuplicate le celebri galoppate, le sezioni strumentali intricate ed ultra melodiche, le ambientazioni epiche e le tematiche storiche, letterarie, in ogni caso colte e non banali. I duelli di chitarra, i fraseggi armonizzati, le vocals teatrali e l'energia viva che sgorga dal disco lo rende un capolavoro intramontabile nella storia dell'heavy metal. Non sono in pochi a ritenere questo disco come il vero capolavoro della formazione inglese, a fronte di un'ispirazione fortissima e di una nuova direzione stilistica che verrà presa ad esempio nei dischi successivi anche dagli stessi ragazzi di Steve Harris: il platter, inutile girarci attorno, profuma di leggenda, ha il sapore antico e affascinante degli anni ottanta, é imbevuto di quel meraviglioso alone di mistero che solo l'heavy metal dei primordi poteva regalarci, e contiene una sequela importante di canzoni passate alla storia, sia per i loro contenuti lirici che per le imperiose architetture strumentali e melodiche che hanno contribuito a rendere inimitabile lo status-quo della Vergine di Ferro. Impossibile non iniziare l'analisi tematica dalla titletrack, The Number of The Beast, un brano che ha fatto epoca non solo per la musica eccellente ma anche e soprattutto per i contenuti, a lungo ritenuti satanici e blasfemi dai bigotti e superficiali censori della musica dura. Sinistramente introdotta da un breve passo biblico, la canzone si apre oscura, sorretta da un riffing inconfondibile, e si apre esplosiva trainata dall'ugola gagliarda di un Dickinson strepitoso, che si lancia a perdifiato in una cavalcata trascinante alla quale é impossibile resistere. L'interpretazione delle liriche si basa su tre correnti di pensiero principali. Secondo la prima, si fa riferimento ad un incubo avuto da Steve Harris, nel quale venivano compiuti sacrifici umani; la seconda, associa il testo al film Damien Omen II, in cui un tredicenne dai poteri soprannaturali scopre suo malgrado di celare una natura demoniaca: a chi tenta di avvertire la famiglia di Damien di questo orrore capitano disgrazie mortali. La terza interpretazione si rifà alla lettura scolastica del poema Tam O'Shanter di Robert Burns, nel quale il protagonista assiste ad un rituale, forse in sogno o forse nella realtà, e ne resta shockato, disperato. Probabilmente é l'unione di tutti questi elementi ad aver generato The Number of The Beast: la versione ufficiale parla di un incubo avuto da Harris proprio dopo la visione del film citato: Cosa ho visto? Devo credere che ciò che ho visto quella notte era vero e non immaginazione? Quello che ho visto nei miei vecchi sogni erano riflessi della mia mente malata che mi fissava? Perché nei miei sogni c'è sempre questo volto diabolico che mi stravolge la mente e mi getta nella disperazione? La notte era spoglia era inutile trattenersi, perché dovevo vedere se qualcuno mi guardava; nella foschia figure scure si agitano e contorcono, era vero o era l'inferno? 666, il numero della bestia, inferno e fiamme generati per venire liberati. Le torce bruciavano e le sacre litanie innegiavano: quando iniziano ad urlare portano le mani al cielo , nella notte i fuochi risplendono, il rituale è iniziato, l'opera di Satana è compiuta: 666 il numero della bestia, il sacrificio procede stanotte. Non può continuare così, devo informare la polizia. E' ancora vero o è un sogno folle, ma mi sento attirato dalle orde sataniche che cantano: mi sento ipnotizzato, non riesco a evitare gli occhi, 666 il numero della Bestia, 666 il numero per me e te. I due assoli di chitarra, caldi e ribollenti, scorrono veloci e ci fanno ricongiungere col refrain, in maniera ancor più viscerale e coinvolgente. Basterebbe leggere questi versi, per accorgersi che di satanico non c'é proprio nulla: ma si sa, chiedere di usare il cervello a certa gente é eccessivamente pretenzioso. Altro pezzo trascinante e ormai definibile sacro presso i fans della Vergine di Ferro, Run To The Hills é una composizione semplice densa di pathos ed energia, impreziosita da un'ottima sezione solista; il testo fa riferimento alla storia, trattando le vicende degli Indiani d'America, ed é il primo esempio di brano 'realista' del platter: la prima metà é scritta dal punto di vista dei pellerossa (L'uomo bianco è venuto dal mare, ci ha portato dolore e sofferenza, ha ucciso le nostre tribù e la nostra religione, ci ha preso la selvaggina per i suoi bisogni), mentre la seconda da quello dei soldati americani: A cavallo nella polvere e nelle pianure aride, a tutto galoppo nelle pianure, ricacciando i pellerossa nelle loro tane, facendo il loro stesso gioco: uccidi per la libertà, pugnala alla schiena. Il pezzo punta il dito contro le violenze commesse contro le varie tribù, represse senza pietà dalle truppe a stelle e strisce: soldato blu nelle pianure aride, caccia e uccide i loro animali, violenta le donne e fa fuori gli uomini; l'unico indiano buono è quello ammaestrato, gli vendono whiskey e gli rubano l'oro, fanno schiavi i giovani e distruggono i vecchi: scappate sulle colline se ci tenete alla vita. Anche l'opener Invaders, breve e veloce, si rifà ad un episodio storico, l'invasione vichinga in Inghilterra: chiamata alle armi, preparatevi a dovervi difendere, a dovere lottare per la vostra vita: il giorno del giudizio è arrivato, siate pronti non fuggite. Provengono dal mare, il nemico è arrivato sotto il sole accecante, la battaglia deve essere vinta. Gli invasori saccheggiano, gli invasorirazziano. Per estensione, il significato dei versi è applicabile a qualsiasi forma di invasione, tema caro alla band inglese, che non si risparmia in cruenza lirica: le asce e le mazze si scontrano, i feriti crollano al suolo, arti mozzati ferite mortali, corpi insanguinati tutt'attorno, odore di morte e carne bruciata, esausti lottano sino alla morte: i Sassoni sono soprafatti, vittime dei potenti Norvegesi. Nel disco sono anche presenti un paio di tracce dal profilo basso: Gangland, che parla del mondo della criminalità organizzata (omicidi, violenze, killer, fughe e vendette assortite), e Total Eclipse, che narra di elementi catastrofici riguardanti l'oscuramento del Sole e la fine del mondo. Capolavoro assoluto del disco é la maestosa Hallowed Be Thy Name, ancora ispirata a fatti realistici, anche se non storici: un sontuoso intrigo di trame, riff, scorribande epiche e melodie cristalline, fraseggi pazzeschi e lunghe sezioni strumentali da capogiro. Il testo parla dei sentimenti di un condannato a morte che aspetta l'esecuzione: esso si chiede se sia giusto ciò che gli sta capitando, domandandosi perché Dio non lo aiuta: Sto aspettando nella mia fredda cella quando la campana comincia a rintoccare. Rifletto sul mio passato e non ho molto tempo, perche alle cinque mi porteranno al palo della forca. Le sabbie del tempo per me stanno scorrendo lentamente: quando il prete viene a concedermi l’ estrema unzione, io attraverso le sbarre guardo per l’ ultima volta un mondo che è stato crudele con me'. Alcuni passaggi del testo sono molto emotivi e toccanti, esaltati da una sifnonia imponente e ricca, imbastita sapientemente dalle chitarre, dalla voce straripante di Dickinson e dal basso pulsante: 'Le lacrime scorrono perchè sto piangendo, dopo tutto non ho paura di morire. Non credo che che ci sia una fine. Mentre le guardie mi fanno marciare fuori nel cortile, Qualcuno mi dice da una cella 'Che Dio sia con te'. Se c`è un Dio perche mi ha lasciato morire? In coda é anche presente una frase che potrebbe essere interpretata come metafora della vita o che, più semplicemente, ci indica quanto siamo piccoli al cospetto dell'esistenza stessa: Quando saprai che il tuo tempo è vicino alla fine, forse comincerai a capire che la vita quaggiù è solo una strana illusione. Il primo riferimento cinematografico del disco, Children Of The Damned, é un altro pezzo imponente, che si apre come malinconica ballata ed esplode in una pirotecnica sezione conclusiva, nella quale spicca uno sferzante guitar solo dagli intrighi cristallini; essa é ispirata all'omonimo film britannico del 1960, che racconta le vicende di sei bambini dai poteri straordinari e dall'intelligenza fuori dal comune, provenienti da ogni parte del mondo e radunati a Londra con lo scopo di controllarli e sfruttare le loro potenzialità: Cammina come un bimbo, ma attento i suoi occhi ti possono incenerire, buchi neri nel suo sguardo dorato. Dio solo sa che vuole tornare a casa, figli dei Dannati. The Prisoner é ispirata all'omonimo telefilm trasmesso per la prima volta in Gran Bretagna nel 1967/68: il protagonista é un ex agente segrato britannico che viene tenuto prigioniero in un villaggio misterioso da persone che vogliono capire il perché delle sue dimissioni: etichettato come numero sei, tenta più volte la fuga dal villaggio. Il brano presenta valide melodie vocali e sfocia anch'esso in uno splendido assolo di chitarra; può essere interpretato come idealizzazione di una fuga dalla società schematizzante: Non un prigioniero, sono un uomo libero, e il mio sangue ora mi appartiene; non m'interessa dov'era il passato, so dove sto andando. Non sono un numero, sono un uomo libero, vivrò la mia vita come voglio io. 22 Acacia Avenue é un testo che sa di leggenda metropolitana, e riprende la saga della prostituta Charlotte, anche se nella terminologia britannica si tende a indicare col termine 'Acacia Avenue' una strada di periferia appartenente alla middle class; compaiono nuovi riferimenti allo stile di vita estremo della donna (A volte quando sei per strada il modo in cui cammini scatena i desideri degli uomini, quando cammini per strada tutti si fermano e si girano a guardarti; 22 il posto dove tutti andiamo, vedrai dentro é caldo, stanotte la luce rossa brilla. Picchiala, trattala male, falle tutto ciò che vuoi farle, morsicala, eccitala, mettila in ginocchio, insultala abusa di lei, sopporta tutto, accarezzala, molestala, farà sempre ciò che vuoi) ed esortazioni a cambiare: Charlotte perchè non fuggi da questa pazzia, non vedi che ti reca solo tristezza? Quando ricevi i clienti non vedi il rischio delle malattie? Quando avrai 40 anni scommetto che rimpiangerai i giorni in cui ti prostituivi, nessuno vorrà più sapere di te, non avrai più questa bella merce da mostrare. Scappi e non ti rendi conto, non vedi che ti rovinerai? Charlotte hai preso la tua vita e l'hai buttata via, credi che i soldi le diano senso, non capisci che stai facendo male alle persone che ti amano, non scansarle. Tutti gli uomini che non fanno che sbavare, non è una vita per te, poni fine a questo schifo, fai le valigie e parti con me. Ancora pregevoli trame melodiche in primo piano e quel monito finale che sembra confermare la tesi secondo la quale la saga fu composta in riferimento alla cotta di Murray per la prostituta.

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